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MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Eccoci giunti al termine della ventitreesima edizione del Convegno Ecumenico di Spiritualità Ortodossa che la nostra Comunità organizza in collaborazione con le Chiese Ortodosse. Il tema scelto, “Misericordia e perdono”, ha mostrato, nel corso degli interventi e delle discussioni, tutta la sua ricchezza, e anche la sua attualità, in questo momento storico in cui più che mai sentiamo di avere bisogno di quella riconciliazione cui mirano perdono e misericordia.

Gli eventi tragici che stanno dilaniando e distruggendo tante vite umane, soprattutto nel nostro amato Medio Oriente, ci fanno toccare con mano tutta la fragilità delle nostre buone intenzioni di pace, e quindi ci confermano nella responsabilità che incombe su ogni essere umano e su ogni cristiano in particolare; responsabilità a non venire meno a quel ministero di speranza a noi tutti affidato, che è atto di umanità per ogni uomo e donna di buona volontà, e atto di fede per quanti credono nel Signore della pace. Operare per la pace, tema su cui abbiamo riflettuto nel convegno dell’anno scorso, è possibile solo tramite un’instancabile e sempre rinnovata opera di perdono e misericordia.

Lo abbiamo ascoltato nei numerosi messaggi che vari Capi di Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno rivolto ai partecipanti al nostro convegno: il vescovo di Roma, papa Francesco, i patriarchi delle Chiese ortodosse e delle Chiese Ortodosse orientali, il Primate della Comunione Anglicana, e poi il Segretario del Consiglio ecumenico delle Chiese e il Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nelle loro parole, che abbiamo ascoltato all’inizio delle nostre sessioni, è risuonato l’accorato invito alla responsabilità che incombe su noi tutti a operare per la riconciliazione. Riconciliazione tra i popoli e le culture, e riconciliazione tra le Chiese. Il tempo presente ci sta mostrando come ogni lentezza in tale opera è pagata a caro prezzo da chi continua a morire a causa di divisioni e incomprensioni di cui non possiamo ritenerci estranei. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli ci ha ricordato con forza che

“l’amore per gli uomini è la sola virtù che non ammette dilazione”

e il Patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Youhanna, che vive con particolare sofferenza il momento presente, ci ha rivolto parole dolorose ma anche di speranza, ricordandoci che la vita – quella vita che noi tutti ci auguriamo di poter ancora condividere – dipende solo dalla capacità di perdonarci vicendevolmente e da nient’altro. Gli hanno fatto eco anche le parole che il Metropolita Ilarion di Volokolamsk ci ha rivolto a nome del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill, affermando:

“L’umanità deve riconoscere che le ferite inferte dall’odio e dall’inimicizia possono essere sanate soltanto dalla misericordia e dal perdono reciproco in nome della pace”.

Ma si tratta di un esercizio difficile. La misericordia appare spesso utopia, lontana dalla realtà, dalla nostra realtà quotidiana di uomini e donne. C’è qualcosa in noi che cerca costantemente di convincerci che è così, e che solo degli illusi possono pensare che il perdono e la misericordia siano possibili nel nostro mondo reale, nelle nostre comunità e tra le nostre chiese. Ciò accade perché in ciascuno di noi albergano quelli che il Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Nunzio Galantino, ha chiamato nel suo messaggio

“gli anticorpi ... che impediscono si provare ‘viscere di misericordia’”.

Sì, ci sono dentro di noi – a vari livelli – degli anticorpi che attaccano e distruggono i germi della misericordia che pure appartengono al nostro essere profondo di esseri umani e di credenti, e che costituiscono ciò che solo è capace di esprimere la nostra umanità vera e la qualità autentica della nostra fede. Tali anticorpi tentano di convincerci che il perdono e la misericordia sono un esercizio sterile, perché contraddicono la realtà, la ragionevole realtà di quel mondo – e di quel male e di quelle divisioni – cui facilmente ci adattiamo e ci abituiamo, fino a non voler più vedere la sofferenza dell’altro, magari mascherando questa cecità deliberata sotto le spoglie del pudore. Una delle manifestazioni più eloquenti di tali anticorpi è quell’esigenza di giustizia che spesso emerge nei nostri pensieri opponendosi alla misericordia e contestandola. Più volte, nel corso del nostro convegno, siamo tornati su questa opposizione tra giustizia e misericordia. Non è la misericordia un atto di irresponsabilità? Non è il perdono un tentativo di cancellare quella storia che invece non è possibile negare?

E’ difficile vivere la misericordia e il perdono... Ma è proprio per questo che nei giorni scorsi siano tornati a interrogare le Scritture e la tradizione patristica, ad ascoltare alcuni testimoni più recenti che hanno mostrato con la vita la loro capacità di misericordia e di perdono, a cogliere, nell’esperienza ecclesiale delle nostre comunità, fallimenti e barlumi di speranza sulla via di quella pratica del perdono di cui tanto avvertiamo il bisogno. Lo abbiamo fatto per ritrovare le tracce di un’esperienza vissuta, per confrontarci con quei percorsi spesso faticosi e mai lineari attraverso i quali chi ci ha preceduti ha comunque cercato di tradurre in pratica ciò che costituisce la più grande e scandalosa eredità che il Signore nostro ci ha lasciato: il comandamento di un amore che non conosce limiti, e di un perdono sempre accolto e offerto.

Una prima direttrice lungo la quale si è mossa la nostra riflessione è stata dunque l’indagine biblica. Nelle Scritture abbiamo cercato di ritrovare i tratti autentici del volto del nostro Dio, osservando che la misericordia è la prima parola con cui egli ha consegnato il suo Nome santo a Mosè: “Dio misericordioso e compassionevole” (Es 34,5-7); una misericordia poi narrata lungo tutta la storia di salvezza, che è storia di liberazione, di lotta da parte di un Dio che non si arrende dinanzi al male delle creature e che cerca in tutti i modi di continuare a usare misericordia, sino a “pentirsi” del male minacciato (espressione scandalosa più volte attribuita a Dio nell’AT); una misericordia cantata nei Salmi, che non si stancano di ripetere che “eterna è la sua misericordia” (cf. Sal 135/136); una misericordia che emerge con forza nell’insegnamento profetico; una misericordia, infine, narrata dal Cristo, che nella parabola del “padre misericordioso” (cf. Lc 15), e prima ancora con la sua stessa vita, ci ha consegnato la memoria di quello sguardo di attesa mai finita e di quell’abbraccio rigenerante con cui Dio ci offre ogni giorno una nuova possibilità di vita.

Abbiamo anche ascoltato che quel Volto misericordioso attende di riflettersi nell’esistenza del figlio perdonato. Innanzitutto come esultanza di chi si riconosce perdonato e ne gioisce, e poi come capacità di perdono che anche il figlio perdonato è chiamato ad accordare al proprio fratello. Il comando di Gesù, più volte ripreso dai relatori di questi giorni: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36), ne è la formulazione più chiara. Tale dinamica di perdono reciproco l’abbiamo osservata nella lettura della storia di Giuseppe e i suoi fratelli, dove il perdono è apparso non come fatto di un momento, ma frutto di elaborazione, tramite il ritorno (teshuvah) e il cambiamento di mente (metanoia). La riconciliazione è un cammino, e ha i suoi tempi; i fratelli separati hanno bisogno di tempo per ridiventare fratelli. Non è una semplice parola o un atto giuridico che li ricostituirà fratelli, ma il tornare a frequentarsi, ad incontrarsi e a guardarsi negli occhi. Questo dovremmo ricordarlo ogni volta che – anche a ragione – lamentiamo lentezza nel nostro cammino ecumenico.

Una seconda direttrice lungo la quale si è mossa la nostra riflessione è stata quella patristica. Ci hanno introdotto le parole di commento con cui i padri hanno cercato di illuminare le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”; parole con cui ogni giorno ci diciamo pronti a lasciarci coinvolgere in quell’opera di liberazione che il perdono osa realizzare. Silvano dell’Athos, infatti, afferma: “Dove c’è il perdono ... c’è la libertà”. L’uso della misericordia è opera di liberazione: di chi è perdonato, ma anche di chi perdona, che si affranca così dal peso mortifero e paralizzante del rancore. L’espressione “Rimetti a noi nostri debiti come noi li rimettiamo” non intende condizionare il perdono di Dio al nostro, ma sottolineare che quest’ultimo richiede di essere accolto; e il modo per accoglierlo è accordarlo a nostra volta all’altro.

Abbiamo poi ascoltato la testimonianza di alcune figure patristiche, rappresentative della grande tradizione monastica: Pacomio, padre della koinonia, che ha tentato di tradurre nelle strutture stesse di quella forma monastica comunitaria da lui iniziata, gli strumenti della riconciliazione. Quella comunità che è spesso fonte di ferite alla comunione è anche luogo terapeutico per eccellenza, se resta fedele a quelli che per Pacomio sono gli strumenti della riconciliazione: l’obbedienza alla Parola di Dio e la coscienza del proprio peccato seguita dall’accoglienza della misericordia che Dio accorda instancabilmente.

Quindi abbiamo riletto l’esercizio della misericordia nella pratica dell’accompagnamento spirituale dei padri di Gaza. Quella cura che Barsanufio, Giovanni e Doroteo hanno saputo mostrare nei confronti di quanti ricorrevano alla loro parola non era altro che il riflesso della cura che Dio si prende di ogni essere creato. Dio si prende cura, e in ciò rivela il suo volto più autentico; ed è questa cura che tiene in vita il mondo, secondo i padri di Gaza. Ma per essere colta, essa richiede umiltà, condizione necessaria alla pratica della misericordia e del perdono. Solo l’umile potrà fare della misericordia l’orizzonte della propria esistenza, e saprà vivere di una misericordia vera e non illusoria.

Infine, dopo l’Egitto e la Palestina, abbiamo ascoltato una voce proveniente dalla Mesopotamia, Isacco di Ninive, in particolare la sua riflessione sul rapporto tra giustizia e misericordia. La misericordia di Dio, afferma il Ninivita, non può essere bilanciata dalla sua esigenza di giustizia, non perché abbia un peso maggiore di quest’ultima, ma perché la trascende, essendo il suo amore eterno e immutabile. Partendo da tale considerazione, egli prospetta la possibilità di una salvezza universale, che è e resta, nonostante il peccato delle creature, il desiderio più profondo del Dio che Isacco ha imparato a conoscere nella propria esperienza di peccatore sempre perdonato. La croce non è altro che la rivelazione più alta di tale sentimento di Dio. Ogni atto divino, anche il suo giudizio, mira alla guarigione; anche il fuoco della geenna non è espressione di vendetta ma di amore.

La terza direttrice delle nostre riflessioni ha ripercorso la testimonianza di alcune figure che hanno saputo mostrare nella loro stessa esistenza la forza rigenerante del perdono e della misericordia, mostrandosi come altrettanti riflessi del Dio-agape in cui hanno mostrato così di credere non solo a parole ma con la vita: il principe Vladimir di Kiev (di cui ricorre il millennario della morte), che ha saputo mostrare la propria conversione al Cristo mite e umile di cuore tramite un esercizio del proprio potere politico che del Vangelo, recentemente accolto, tentava di farsi espressione; Nil Sorskij, che ha sentito la propria chiamata alla vita monastica come un appello a ricevere misericordia; padreAleksandr Men’ testimone di una misericordia pagata a caro prezzo, che in una società abbrutita ha saputo rimanere fedele al volto misericordioso del Padre e a testimoniarlo fino al dono della propria vita; Matta el-Maskin che ha saputo vivere e annunciare il perdono e la misericordia come l’espressione più eloquente della vitalità di quell’uomo nuovo che cresce nell’intimo di ogni essere vivente, affermando che il perdono denota la vera forza interiore, l’essere nuova creatura in Cristo.

Infine, un’ultima direttrice lungo la quale ci siamo mossi è stata quella dell’esperienza ecclesiale. La comunità credente dev’essere luogo di esercizio del perdono e della misericordia; ci è stato ricordato che questa è la sua vocazione e che solo allorché essa sa mostrare tale volto è capace di farsi reale luogo in cui il dono dello Spirito è comunicato a ogni essere che le si accosta. Ma sappiamo che non è stato sempre così; e ancora oggi la nostra esperienza ecclesiale contraddice tale vocazione. Ne abbiamo voluto dare un esempio analizzando la memoria della quarta crociata e l’avanzare dell’antilatinismo, ovvero la storia di un perdono difficile, a causa di condizionamenti culturali con i quali il messaggio evangelico del perdono ha dovuto confrontarsi, e laddove motivi sociologico-etinici hanno avuto la meglio sul comandamento del Signore.

Di tale esercizio ecclesiale della misericordia abbiamo analizzato due momenti critici esemplari: il caso delle unioni matrimoniali fallite e quello delladivisione tra le chiese. In ambedue i casi siamo dinanzi ad una ferita che richiede, per essere superata, un esercizio di misericordia. Per il primo caso, abbiamo voluto ascoltare la prassi delle Chiese ortodosse e quella della Chiesa cattolica, mettendo in luce la loro diversità, ma anche il loro comune desiderio di tendere una mano a chi dolorosamente si confronta con il fallimento del proprio amore coniugale. Per il secondo caso, il riavvicinamento tra le chiese, abbiamo ripercorso i primi passi di quella storia di ritrovata fraternità tra Chiesa di Roma e Chiesa di Costantinopoli, narrato nel “Tomos agapis”. In quelle pagine, che ancora oggi leggiamo con vibrante emozione, sono raccolte, tra altre, le parole di due grandi profeti e uomini di pace quali il Patriarca Athenagoras e il Papa Paolo VI che, dopo secoli di incomprensione ed estraniamento, hanno iniziato a scrivere una nuova pagina della nostra storia, in cui Roma e Costantinopoli tornavano nuovamente a chiamarsi “Chiese sorelle”.

E il cammino non è ancora terminato… Nonostante quei passi coraggiosi, le nostre chiese restano divise, il calice non è ancora condiviso, ci portiamo dietro ferite non ancora sanate. Sulle ragioni di tale lentezza si sono interrogati i partecipanti alla tavola rotonda, che hanno tentato di rispondere a due domande: innanzitutto com’è possibile convertirsi come chiesa? E poi: Cosa fare della memoria storica? Se non è possibile dimenticare, in che modo elaborare il passato?

Alla prima domanda è stato risposto che ciò richiede una purificazione collettiva; il riconoscimento del peccato che le chiese hanno commesso comunitariamente, e che ancora commettono nel presente. Per questo è necessario esercitarsi a discernere il sentire dell’altro, dell’altra chiesa: cosa ferisce l’altra chiesa, cosa la fa soffrire, e nello stesso tempo a saperne apprezzarne i doni. Di questo sono stati rilevati segni positivi, ad esempio nella proclamazione di S. Gregorio di Narek, appartenente ad una Chiesa pre-calcedonese, a dottore della Chiesa cattolica. Ma un semplice ritorno al passato – è stato detto – non è la via. Vi è un futuro da cogliere, vi è un’opera profetica da compiere. La salvezza offertaci dal Signore, infatti, non consiste in una semplice restaurazione del passato, ma è nuova creazione, perché è partecipazione alle energie del Risorto.

A partire da tali considerazioni, si è articolata la risposta alla seconda domanda posta. Certo ricordare è importante e dimenticare sarebbe un atto di irresponsabilità, ma allo stesso tempo è necessario non lasciarsi imprigionare dalla storia. Guardare al passato è necessario in vista di quell’opera di purificazione cui siamo chiamati, ma nello stesso tempo abbiamo bisogno di trovare un modo nuovo di dialogare; abbiamo bisogno di parole nuove, di slancio profetico; siamo chiamati a prendere sul serio quell’anelito all’unità che sale da tanti uomini e donne appartenenti alle differenti comunità cristiane. Dimenticare non ha senso; senza memoria non esiste futuro; è anche necessario tenere conto dei problemi teologici che ancora paiono dividerci, ma non possiamo per questo ignorare che i popoli prendono sempre più coscienza di fare parte di una medesima realtà umana e planetaria, e che attendono da noi una parola profetica, una parola di pace e di riconciliazione; da noi che abbiamo assistito e ancora assistiamo, inerti e afoni, alle tragedie che si consumano intorno a noi, dove – non dimentichiamolo – ci sono cristiani uccisi da non cristiani, ma anche cristiani uccisi da altri cristiani. C’è chi ha ricordato – concludendo la tavola rotonda – che le chiese sono chiamate ad educare i loro fedeli al rispetto dell’altro, alla pace, alla riconciliazione. Quello che è accaduto e che continua ad accadere intorno a noi mostra quanto manchevoli siamo stati in questo ministero di educazione all’interno delle nostre chiese.

Misericordia e perdono – dicevo all’inizio – suscitano in noi una reazione di inadeguatezza e anche di disagio. Ma alla fine di questo itinerario compendiamo che il disagio è duplice. In primo luogo facciamo fatica a concepire un Dio misericordioso, un Dio per il quale, come dice Isacco il Siro: “Un peccato non vale quanto un peccatore” (III,6,24), perché l’essere umano ai suoi occhi resta sempre più grande e più prezioso del male di cui è capace. Si tratta di un Dio che ci crea disagio perché noi lo vorremmo un po’ più a nostra immagine: uno Dio troppo misericordioso, infondo, rischia di condurci per vie che non vorremmo percorrere, e dunque registriamo lungo la storia ripetuti tentativi di arginare, di precisare, di innalzare una siepe intorno all’azione misericordiosa di Dio, come intorno a quei testi che pure ce ne parlano in modo così chiaro. La misericordia di Dio ci mette a disagio forse anche perché ci sentiamo giusti. E dunque la nostra reazione dinanzi alla misericordia infinita di Dio può aiutarci a misurare il nostro cuore. Se testi come la parabola degli operai dell’undicesima ora o quella del padre misericordioso ci scandalizzano è perché ci sentiamo ancora troppo giusti; se invece ci consolano, è perché cominciamo a vedere il nostro peccato.

Il secondo disagio che le nostre riflessioni intorno alla misericordia e al perdono hanno forse fatto sorgere in noi è originato dal constatare la nostra inadeguatezza a vivere in una dinamica di misericordia e di perdono. Non solo è difficile concepire un Dio misericordioso, ma anche intravedere la possibilità di un essere umano misericordioso. In un percorso che si è avvalso anche delle moderne acquisizioni della psicologia abbiamo cercato di comprendere il perché di tale difficoltà e dunque si è tentato di individuare quale essere umano è capace di un reale perdono.

Alla radice della nostra incapacità a lasciarci perdonare e a perdonare vi è quello che i Padri definiscono “madre di tutti i mali”, la filautia. Per vivere la misericordia – per riceverla e per offrirla – è necessario quel decentramento da sé che contraddice radicalmente ogni atteggiamento autoreferenziale. E non vi è solo una filautia personale, che impedisce ad un essere umano di vivere la misericordia verso il proprio prossimo; ve n’è anche una sociale, che cioè paralizza collettività intere, annebbiando i loro occhi perché non vedano il bisogno dell’altro; e ve n’è una ecclesiale, che rende incapaci noi uomini e donne di chiesa a esercitare la misericordia all’interno delle nostre comunità cosiddette “credenti” e tra le nostre chiese, ormai abituate alle loro divisioni, di cui spesso non avvertono più lo scandalo.

In conclusione, vorrei allora riprendere quello che a molti è parso un apoftegma dei tempi moderni, pronunciato da uno dei nostri relatori alla fine di una discussione in cui ci si interrogava sulla realtà della divisione tra i cristiani, sulle sue ragioni, su ciò che impedisce ancora la piena comunione. Sollecitato appunto su questo tema, egli diceva:

“Non so cos’è la divisione ma so cos’è l’unità”.

Probabilmente non riusciremo mai a districare sino infondo, neppure scandagliando ogni angolo del nostro passato ferito, le ragioni delle nostre divisioni, ma conosciamo qual è la volontà di unità del Signore nostro e anche il nostro intimo desiderio; e in questi giorni abbiamo anche ricompreso che per procedere in questa direzione non vi è che una via: un sempre rinnovato esercizio di misericordia e di perdono reciproco.

Fonte: http://kairosterzomillennio.blogspot.it/

 

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Don Luigi Verdi

  • Set 09, 2015
  • Pubblicato in Notizie
 Don Luigi Verdi, nato nel 1958 a San Giovanni Valdarno (FI), dal 1991 ha fatto della Pieve romanica di Romena, vicino a Pratovecchio (Ar), il proprio punto di riferimento.
Le attività della Fraternità (http://www.romena.it/) si svolgono attraverso: corsi residenziali nei fine settimana, alcuni dei quali tenuti da Gigi; feste per ognuna delle quattro stagioni dell’anno; incontri con testimoni del nostro tempo (tra gli ospiti Luigi Ciotti, l’Abbé Pierre, Rita Borsellino, Erri de Luca, Pietro Ingrao, Luigi Bettazzi, Arturo Paoli, Alex Zanotelli, Antonietta Potente e tanti altri); il giornalino di Romena, periodico trimestrale; una casa editrice con pubblicazioni annuali di libri e cd; veglie annuali di riflessione e preghiera, portate da Gigi, in città sparse lungo tutta la penisola; la Compagnia delle Arti di Romena che realizza animazioni e spettacoli in case di riposo, ospedali e altri luoghi di sofferenza e accoglienza.      


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“laudato si’, mi signore”- “alabado seas, mi Señor”, “cantaba san Francisco de Asís. En ese hermoso cantico nos recordaba que nuestra casa común es también como una hermana, con la cual compartimos la existencia, y como una madre bella que nos acoge entre sus brazos”.

Con estas hermosas palabras inicia el papa Francisco su encíclica Laudato Si y toda ella es una invitación al cuidado de la casa común que es la tierra. En respuesta a este llamado, la pastoral juvenil del Vicariato Puerto Leguízamo solano los días 21,22 y 23 del mes de agosto organizó un encuentro juvenil cuyo lema general fue “JOVEN ATIENDE EL CLAMOR DE LA CASA COMUN”. Con este lema se trato de recoger la preocupación cada vez más creciente por el cuidado de la tierra.

Participaron 100 jóvenes, provenientes de Italia, Perú, y de distintas regiones de Colombia: Bucaramanga y Manizales. También se unieron las parroquias de nuestro vicariato (Nuestra Señora de las Mercedes de Solano, El Sagrado Corazón de Jesús de la Tagua, Nuestra Señora de Fátima de Puerto Ospina, el Divino Niño y Nuestra Señora del Carmen de Puerto Leguízamo).

El encuentro tenía como objetivo ayudar a los jóvenes a tomar conciencia del cuidado y conservación que se debe tener con toda la creación. Para lograr tal objetivo se dividió el encuentro en tres días.

 

El primer día tuvo como lema: “Nuestros Orígenes: Armonía con el creador y la creación” para desarrollar esta primera parte tuvimos un encuentro con los abuelos y caciques de la maloca de ASILAPP, que congrega a las distintas comunidades indígenas del Putumayo. Ellos expusieron la cosmovisión de los pueblos indígenas y el llamado urgente a respetar la naturaleza viviendo en armonía con ella. Además exhortaron a los jóvenes a no ver la naturaleza como un medio para lucrarse económicamente, sino como nuestra madre tierra la cual debemos respetar y querer.  Fue un momento de espiritualidad dentro del espacio sagrado que es la maloca.

 

En el segundo día el lema que nos inspiró fue “los orígenes de nuestros pueblos” “Génesis y anti-génesis”. En la mañana los jóvenes representaron mitos y leyendas de sus pueblos de origen; posteriormente monseñor Joaquín Humberto Pinzón orientó una reflexión desde el libro del  génesis, referente a la creación con el tema "una maloca para todos". En la tarde vivimos el momento del “anti_ génesis” en el cual los jóvenes experimentaron en distintos espacios las problemáticas que esta atravesando nuestro planeta (desechos, ruido, emision de gases, calentamiento global, deforestación, etc.) Esto llevó a los jóvenes a tomar conciencia de que nos encontramos ante una realidad de destrucción en la cual debemos buscar urgentemente respuestas empezando por nuestros lugares de origen. En la noche junto con la comunidad, se ha dado el espacio para que los jóvenes muestren sus talentos por medio del canto, la danza etc.

El tercer momento lo vivimos el Domingo que tenía como lema “un llamado urgente al compromiso: somos parte de la creación”. Tomando los distintos elementos de la naturaleza, se generaron compromisos: siembra de árboles, la no contaminación del agua y al mismo tiempo valorarla, el cuidado de los animales que se encuentran el peligro de extinción, entre otros. Al final de la jornada concluímos el encuentro con una eucaristía precedida por Mons. Joaquín Humberto Pinzón.

Finalmente queremos agradecer como vicariato, por su valiosa colaboración. Sin su apoyo estas actividades no serían posible. Dios les bendiga por su generosidad y seguramente con su aporte han contribuido para que muchos jóvenes tomen compromisos concretos en el cuidado de la “casa Común”.

Dios le bendiga.

  1. Jair Idrobo

párroco Nuestra Señora del Carmen Puerto Leguízamo

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UFFICIO DELLE LETTURE

Dal Comune delle vergini o delle sante, con salmodia del giorno dal salterio.

La Beata Suor Irene (Auelia Iacoba Mercede Stefani) nacque il 22 agosto 1891 a Anfo (Brescia). Fin da giovane dimostrò spiccato impegno di vita cristiana e apostolica, che la portò alla vocazione missionaria tra le Suore Missionarie della Consolata. Dopo la prima professione (29 gennaio 1914), fu destinata alle missioni del Kenya e vi rimase ininterrottamente fino alla morte. Durante la prima guerra mondiale, fu destinata alla assistenza dei portatori indigeni ricoverati negli ospedali militari in Kenya e Tanzania, in situazioni ripugnanti. Con dolcezza e sorriso, diede prova di eroica carità e dedizione. Terminata la guerra, ritornò in Kenya. Morì il 31 ottobre 1930 per infezione contratta per assistere un ammalato di peste. Gli africani affermarono: «l’ha uccisa l’amore». E continuano a chiamarla Nyaatha: madre tutta misericordia. Altrettanto travolgente fu la sua ansia di annunciare Gesù per condurre al battesimo. Fu beatificata il 23 maggio 2015.

Seconda lettura

Dalle Conferenze spirituali del Beato Giuseppe Allamano alle Suore Missionarie

  (Vol. I, 39-40; II, 484-485; III, 15, 101; VS 460-461)

Santità e Missione

   Ricordatevi che l’opera della missione esige una grande santità. Non basta una santità mediocre, ci vuole gran santità. L’opera dell’apostolato è un’opera divina. S. Paolo diceva: “Noi siamo aiutanti di Dio”. Siamo corredentori; corredentrici voi altre.

   Quante anime battezzerete! Quante anime potrete attirare a Nostro Signore. Siete “ministresse” della Chiesa. Nostro Signore ha dato l’ordine d’insegnare a tutto il mondo: Andate, dunque, istruite tutte le genti. Ora chi è che va a spargere la parola di Dio? I missionari e le missionarie. Gli altri non vanno a predicare. Vedete l’opera dei missionari che cos’è! È proprio un’opera divina. Sia perché sono aiutanti di Dio, sia perché sono ministri della Chiesa, la quale ha l’ordine di spargere il Vangelo per tutto il mondo. All’eccellenza dell’apostolato deve corrispondere la nostra santità. Se alle altre suore basta essere sante, le missionarie devono esserlo doppiamente, perché tanto quanto sarete sante, altrettanto sarete migliori aiutanti di Dio, migliori corredentrici e migliori ministresse della Chiesa.

   Siete qui per farvi sante e poi missionarie. Tenete bene in mente: per salvare gli altri prima dovete farvi sante voi. Dovrò rendere conto di me prima di tutto e poi delle anime che il Signore mi ha affidate. Dovete prima farvi sante; se sarete così, sarete pure valenti missionarie; se non sarete sante religiose, non sarete niente. Farete come il vento che fa un po’ di rumore e niente altro; lavorerete molto, forse, ma rimarrete colle mani vuote perché le opere si misurano non nella materialità, ma col cuore, collo spirito con cui si fanno. È lo spirito religioso che deve informare la vostra vita. Pregate il Signore perché possiate formarvi vere religiose di spirito e intanto preparatevi, studiate, fate tutto quello che è necessario per poter fare del bene.

   La conversione dipende dalla santità dei missionari. E quale dev’essere questa santità? Maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei semplici religiosi, più distinta che quella dei sacerdoti secolari. La santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli.

   Non sarà da attribuire alla deficienza di questa pingue santità, che dopo tanti secoli ancora tutto il mondo pagano non sia convertito; e mentre nei primi secoli la parola di Dio venne seminata e produsse conversioni in tutto il mondo allora conosciuto, nei secoli posteriori il lavoro dei missionari non produsse più simile frutto, pari al loro numero abbastanza considerevole, inviati ovunque?

   Persuasi i nostri giovani missionari di questa verità s’impegnino a divenire santi, ma tutti; ed usando di tutti i mezzi che propriamente a questo scopo ci sono in questa Casa Madre. Questo sia il proposito comune qui e nelle missioni, di voler essere santi e grandi santi.

   Ci vuol fuoco per essere apostoli. Essendo né caldi né freddi, cioè tiepidi, non si riuscirà mai a niente.  L’uomo vive in quanto è attivo per amor di Dio. Si può stare in intima comunione con Dio ed operare nel medesimo tempo. Se c'è amore, c'è zelo; e lo zelo farà sì che non poniamo riserve o indugi nella dedizione di noi stessi per la salvezza delle anime. Quel che si può fare oggi, non bisogna lasciarlo per domani. Ah, che non sarà mai missionario, chi non arde di questo fuoco divino!

   Non solamente il nostro zelo dev’essere infiammato dall’amore verso Dio, ma altresì dall’amore verso il prossimo. Bisogna aver tanta carità da dare la vita. Noi Missionari siamo votati a dare la vita per la salvezza delle anime. Amare il prossimo più di noi stessi, dev'essere il programma di vita del missionario. Se non si viene al punto di amare le anime più che la propria vita, potrete avere il nome, ma non la realtà, la sostanza dell'uomo apostolico. Noi dovemmo avere per voto di servire alle Missioni anche a costo della vita; dovremmo essere contenti di morire sulla breccia.

 

 Responsorio                                              Cf. Fil. 2, 4; 1Ts 5, 14-15

R/. Abbiate in voi la carità di Cristo: *ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.

V/. Sostenere chi è debole, siate magnanimi con tutti, cercate sempre il bene tra voi e con tutti;

   * ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.

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MESSA DELLA BEATA IRENE STEFANI, religiosa

Dal Comune dei Santi e delle Sante o delle Vergini

 

Antifona d’ingresso                                   [Da Com. Vergini  3]                    

Vieni, sposa di Cristo, ricevi la corona che il Signore da sempre ha preparato per te.

                                  

Colletta                       

Dio di infinita tenerezza,
che hai acceso nella Beata Irene, vergine,
un ardente desiderio di essere tutta e sempre di Gesù
per dedicarsi all’annuncio del Vangelo
e servire i bisognosi con generosità materna,
fino alla offerta di se stessa,
concedi anche a noi, per sua intercessione,
di diventare missionari/e del tuo amore,
testimoniando ovunque consolazione e pienezza di vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, che è Dio e vive e regna …..

 

Sulle offerte                                            [Da Com. Vergini  3]

Accetta, Signore, l’umile servizio che ti offriamo
nel ricordo della Beata Irene Stefani, religiosa missionaria,
e per il santo sacrificio di Cristo tuo figlio
trasformaci in ardenti apostoli del tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.                                                                                                             

 

Antifona alla comunione                           Gv 15, 4-5  [Da Com. Missionari]

«Rimanete in me  e io in voi», dice il Signore,
«chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto».

   

Preghiera dopo la comunione                    [Da Com. Santi e Sante 11]

O Dio, presente e operante nei tuoi santi sacramenti
illumina e infiamma il nostro spirito,
perché ardenti di santi propositi
portiamo frutti abbondanti di opere buone.
Per Cristo nostro Signore.                        

               LETTURE BIBLICHE DELLA MESSA

 

 PRIMA LETTURA   

  Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio

 Dal libro del profeta Isaia (52, 7-10)

 

Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».

Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.

Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.

Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.

         Parola di Dio.

    

Salmo Responsoriale  (95, 1-2a. 2b-3. 7-8. 10.)

         R/. Popoli tutti, lodate il Signore!

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore da tutta la terra,
Cantate al Signore, benedite il suo nome. R/.

Annunziate di giorno in giorno la sua salvezza,
in mezzo ai popoli narrate la sua gloria,
a tutte le nazioni dite i suoi prodigi. R/.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome. R/.

Dite tra le genti: “Il Signore regna!”
É stabilisce il mondo, non potrà vacillare!
Egli giudica i popoli con rettitudine. R/.

 

SECONDA LETTURA

Sopra tutte queste cose rivestitevi della carità.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (3, 14-17)

Fratelli, rivestitevi, dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!

La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. 17E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.

         Parola di Dio.

 

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           Oppure  -  Più grande è la carità

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi  (13, 1-13)

Fratelli, se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.

E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.

Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

         Parola di Dio

 

CANTO AL VANGELO Gv 13,34

R/ Alleluia, alleluia.

Vi do un comandamento nuovo:
amatevi come io ho amato voi.

R/ Alleluia, Alleluia

 

VANGELO

Il Giudizio finale

Dal Vangelo secondo Matteo (25, 31-40)        

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me».

Parola del Signore.

 

Solo citazioni

PRIMA LETTURA: Dal libro del profeta Isaia  = 52, 7-10 

Salmo Responsoriale : 95, 1-2a. 2b-3. 7-8. 10.

R/. Popoli tutti, lodate il Signore! 

SECONDA LETTURA: Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi: (3, 14-17) Oppure - Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (13, 1-13)

CANTO AL VANGELO (Gv 13,34)

VANGELO: Dal Vangelo secondo Matteo (25, 31-40)

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Sotto si può scaricare il file

 Messa e Ufficio della Beata irene Stefani (DOC)

Etichettato sotto

“ Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Gv. 6,51-58

 

Nel brano evangelico di oggi, troviamo la conclusione del discorso sul pane della vita, così come viene riferita da s. Giovanni, e che abbiamo meditato nelle Domeniche precedenti.

Tutto il discorso riflette il ricordo serbato da Giovanni, della rivelazione che Gesù ha fatto di se stesso, attraverso la sua parola e la sua croce: Egli è stato e continua ad essere per noi il pane vivo disceso dal cielo, carne e sangue donati per la vita del mondo, comunione col Padre e con lo Spirito, cibo di vita eterna e pegno di risurrezione. La conclusione del discorso si riferisce in maniera esplicita all’Eucaristia, con parole che si ricollegano strettamente ai racconti dell’ultima Cena.

Gesù, nel suo sacrificio, sta per offrire la propria persona concreta, come cibo e bevanda, che bisognerà mangiare e bere.

/ Quando Gesù disse: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”, i suoi ascoltatori, forse avevano capito che questa affermazione poteva prendersi come riguardante la fede, che aveva come oggetto il Figlio di Dio incarnato, oppure si riferiva alla sua dottrina o alla sapienza di Dio. Ma quando Gesù insiste sul pane come “sua carne da mangiare”, il discorso si fa più serio e più realistico, con espressioni di verismo che raggiungono, umanamente parlando, l’assurdo e lo scandalo, poiché il Signore non esita ad affermare che bisogna “mangiare la carne del Figlio dell’uomo e bere il suo sangue”. Cosa, oltre tutto, ributtante: mangiare la sua persona fisica! Di qui l’ovvio imbarazzo e obiezione dei giudei: “come può costui darci la sua carne da mangiare”? Ma Gesù non si sgomenta, anzi procede anche più chiaro nel suo discorso, e sa dove vuole arrivare. E se ciò non avviene, dice ancora Gesù, non ci sarà né vita, né risurrezione, né comunione con Dio.

/ Ora Gesù non lascia dubbi e comincia a “scandalizzare” i suoi interlocutori. Non usa più semplicemente la parola “pane”, ma va oltre, usa la parola “corpo”, anzi nel linguaggio semitico, ha parlato di “carne”: “questa è la mia carne”. Gesù offre se stesso, la sua realtà, una realtà quasi fisica, reale, percepibile: questo sarà il vostro pane. La mia carne e il mio sangue, saranno il vostro cibo!. L’espressione era ancora più scandalizzante per gli ebrei che ascoltavano. Il sangue per un ebreo era simbolo di impurità; non lo si poteva mai toccare. E Gesù invece dice: voi berrete il mio sangue, perché è vera bevanda! La carne, il corpo, era considerato soltanto “tomba dell’anima”, Gesù invece dice: la mia carne è vero cibo: la mia carne è il grande segno della mia continua presenza tra voi. Attraverso l’Eucaristia, segno sacramentale del sacrificio della Croce, Gesù diventerà il cibo e la bevanda che nutriranno la vita di fede dei discepoli.

/ Il linguaggio ridonda di verismo. Il verbo greco “trogo” usato qui dal Signore(vv.56-57), dice il “masticare, sminuzzare coi denti, maciullare” il cibo per farne il proprio nutrimento. L’effetto di simile manducazione sarà la trasformazione dell’uomo, dotato ora della vita divina originata dal cibo che è la carne di Cristo. Simile vita non può perire, perché è “eterna”.

/ Certo Gesù non parla di manducazione del suo corpo fisico, tanto è vero che nell’ultima Cena, quando istituirà l’Eucaristia, paragona la sua persona sotto il segno del pane(=corpo di Cristo) da mangiare, e sotto il segno del vino(=sangue di Cristo) da bere, per avere la vita eterna. Tuttavia il discorso di Gesù è fin troppo chiaro, anche se sconcertante.

/ Una volta accettato nella fede il realismo dell’Incarnazione di Cristo, cioè che Gesù è una persona(=carne) che si dona per la vita del mondo, allora bisogna accettare anche le conseguenze di questa fede: cioè mangiare il suo corpo e bere il suo sangue. Dobbiamo però stare attenti a non cadere nei malintesi dei giudei. L’Eucaristia non è solo corpo(pane) e sangue(vino) eucaristici, ma anche “credere” alla Parola di Cristo per avere la vita eterna.

/ Scrive il Card. C.M.Martini: “La Comunione frequente fatta per abitudine, come si dice, per “avere la grazia di Dio”, non ha fondamento, quasi fosse solo una medicina per curare i nostri peccati, o un rito magico! Ricevere l’Eucaristia(mangiare il Corpo di Cristo e bere il suo Sangue), vuol dire essere assimilati e identificati con Lui. Gesù non intende “chi mi mangia” nel senso di “chi fa la comunione”, ma intende piuttosto “chi riceve me con fede sotto il segno sacramentale”, ossia chi accetta in senso ecclesiale il dono della mia morte e risurrezione. Difatti Gesù dice pure:

Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a niente”. Questo mangiare e bere di Lui significa perciò unirsi, per mezzo del segno sacramentale, alla Passione e Morte di Cristo: significa entrare nel suo mistero per ricevere e donare la vita. Va benissimo la Comunione frequente e quotidiana, che è certamente mezzo sicuro di santificazione, però attenti a non trasformare questa Comunione in rito magico e senza fede!”.

/ Difatti quando i giudei dissero a Gesù: “Questo discorso è duro, e molti se ne andarono”, è appunto dovuto ad un malinteso, all’interpretazione fondamentalista e materialista delle parole di Cristo.

/ Nel banchetto si esprime meglio l’accoglienza, la comunicazione, l’ospitalità. Non per caso, proprio durante un banchetto, Gesù ha comunicato ai peccatori il perdono, ha rivelato ai poveri il pane che viene dal cielo, si è confidato con umanissima intimità ai suoi discepoli e ha donato la sua stessa vita.

/ Gli uomini, a differenza degli animali, vogliono stare insieme a condividere il cibo. Non si tratta semplicemente dell’azione materiale del mangiare, ma di un incontro di persone. Anche l’incontro eucaristico è posto sotto il segno della legge della carità e del servizio reciproco.

/ Un pezzo di pane consacrato, è tutto ciò che ci rimane di Gesù, con le sue parole che chiariscono il gesto di prendere e mangiare, entrando in comunione con Lui, ed essere assimilato a Lui.

Potremmo sperare una prova d’amore più grande di questo straordinario scambio?

/ Se consideriamo che Giovanni non riporta le parole del Signore sul pane e sul calice, nell’ultima Cena, allora immaginiamo che il presbitero delle comunità giovannee, dopo aver fatto la sua omelia sulla Parola, che è presenza di Dio pane di vita, e sulla seconda presenza, il pane di vita che è la Carne e il Sangue di Cristo, in quel momento stendesse le mani e consacrasse:

Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”(Gv.6,51).

Questa forse era la formula di consacrazione nelle chiese giovannee. Il pane che Cristo offre e che è davanti a noi sulla mensa eucaristica, è la “mia carne”, la realtà del Cristo, per la nostra vita e per la vita di tutto il mondo.

I cristiani, in quel momento, celebravano non più soltanto “l’Eucaristia”, celebravano anche quella che è la “comunione” e che s. Paolo aveva chiamato “koinonìa” con il Corpo di Cristo.

/ Gesù ha mandato i suoi apostoli: la Chiesa manda noi, ci manda “nei crocicchi, nelle piazze e lungo le siepi”, cioè nei punti più bassi della città, là dove di solito ci sono i poveri, gli affamati, gli ultimi, la gente che aspetta qualcosa… La Messa non “è finita” in Chiesa, ma continua fuori!..

Ognuno di noi dovrebbe farsi un impegno di convincere qualcuno di questi fratelli che aspettano fuori, a venire con noi al banchetto dell’Agnello. C’è ancora posto, c’è sempre posto per tutti, perché come ci esorta s. Paolo: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finchè egli venga”(1Cor.11,26).

/ Sulla porta di una Chiesa c’era scritto: “Voi non siete tanto cattivi da non poter entrare, e nemmeno tanto buoni da poter stare fuori. Entrate per ascoltare voi stessi, per ascoltare Dio e parlargli”.

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