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“Iglesia que camina con Espírituy desde los pobres”
"Por la necesaria reforma que la Iglesia está desafiada a realizar"

 "Iglesia que camina con Espíritu y desde los pobres" es el tema del II Congreso Continental de Teología, organizado por Amerindia Continental con el propósito de reunir a teólogos y teólogas de América Latina y el Caribe, comunidades eclesiales y cristianos/as comprometidos,"para discernir desde la Palabra de Dios la presencia del Espíritu Santo al interior de las prácticas de solidaridad con los excluidos, como raíz de una nueva manera de ser comunidad cristiana y de la necesaria reforma que la Iglesia está desafiada a realizar hoy".

El Congreso se sitúa en consonancia con la Encíclica Programática del papa Francisco, la Evangi Gaudium, y se inspira en la misión programática de Jesús, según el evangelio de Lucas: "El Espíritu del Señor está sobre mí, porque me ha ungido para anunciar la buena noticia a los pobres" (Lc 4,18). Se llevará a cabo en la ciudad de Belo Horizonte, Brasil, del 26 al 30 de octubre de 2015.

En su presentación, el Comité Organizador ha destacado que después del primer Congreso de 2012 en São Leopoldo, al sur de Brasil, que movilizó a la comunidad teológica latinoamericana, "este II Congreso pretende continuar esta movilización, en un momento eclesial nuevo que ha generado cambios en la agenda pastoral y teológica universal, referidos a la ecclesiasemperreformanda. Por eso, el Congreso tendrá como destinatarios no sólo a los teólogos y a las teólogas profesionales, sino a las comunidades cristianas del Continente".

En este sentido, las ponencias, los talleres y las comunicaciones científicas buscarán abordar tres grandes núcleos temáticos, estrechamente relacionados: Pueblo de Dios, Neumatología, y Reforma de la Iglesia; reconociendo también que "la teología en América Latina se concibe a sí misma como inteligencia crítica de la experiencia de fe de las comunidades eclesiales y de su misión, insertas en un mundo globalizado y excluyente".

Es por eso que el Congreso buscará ofrecer insumos para recuperar algunas prácticas sociales y pastorales significativas, y para desentrañar las interpelaciones del Espíritu desde la realidad y las luchas de los sujetos invisibilizados y excluidos; al tiempo que promoverá una mayor participación de la Iglesia latinoamericana y caribeña en el actual proceso de reforma eclesial, "con propuestas para que las estructuras de las Iglesias locales reconozcan y animen el testimonio evangélico, la opción por los pobres, el permanente discernimiento en el Espíritu y el servicio recíproco en las comunidades cristianas".

Metodológicamente, el Congreso combinará dinámicas y lenguajes entre conferencias, paneles, talleres, comunicaciones científicas, y momentos culturales y celebrativos. Para la orientación de las ponencias y los talleres se ha confirmado la participación de reconocidos/as teólogos/as como Virginia Azcuy, José O. Beozzo, Leonardo Boff, Pablo Bonavía, Víctor Codina, Isabel Corpas, Eduardo De la Serna, Juan Luis Hernández, Juan Hernández Pico, Armando Lampe, Vicenta Mamani, Carlos Mesters, Socorro Martínez, Etel Nina Cáceres, Francisco Orofino, Carlos Schickendantz, Pedro Trigo, Juan Manuel Hurtado, Margot Bremer, Alejandro Ortiz, Afonso Murad, Alirio Cáceres, Sergio Navarro, Alzira Munhoz, Carlos Eduardo Cardozo, Pedro Ribeiro de Oliveira, Paulo Suess, Faustino Teixeira y Marta Zechmeister, entre otros.

La presentación del congreso, con su proceso de preparación, programación y posibilidades de inscripción on-line, así como algunos orientaciones para el alojamiento de los congresistas y la participación la comunidad académica en comunicaciones científicas, se encuentran disponibles en el sitio web: http://amerindiaenlared.org/congreso2015 o a través del correo electrónico de la Secretaría de Amerindia Continental: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Frente al actual pontificado del papa Francisco, los organizadores destacan que "asistimos a una verdadera ‘eclesiogénesis', conducida por el Espíritu, que necesita ser reflexionada más profundamente, a nivel teológico, y ante el imperativo de la ecclesiasemperreformanda". A esto apunta el II Congreso Continental de Teología en Belo Horizonte, del 26 al 30 de octubre de 2015

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Pregare con le viscere; l’inoperosità dell’actuosa partecipatio... un invito a Segni della destinazione di F. Riva e P. Sequeri. Appunti di Andrea Lonardo

Fede e/o religione? F. Riva e P. Sequeri tornano su questa possente questione - forse il lascito più famoso del pensiero di K. Barth - nel loro lavoro comune Segni della destinazione[1]

È grande merito epocale del teologo evangelico Karl Barth (1886-1968), quello di avere illustrato, a nostro parere in modo ancor oggi insuperato, l'ambivalenza radicale della religione, che deve essere inquadrata - in una prospettiva rigorosamente teolo­gico-cristiana - nella sua rigorosa necessità e nella sua invalicabile insufficienza.

Non è questa la sede per dilungarci su una tesi, del resto notissima, anche se per lo più fraintesa. Basti rammentare, almeno, la forzatura dell'interpretazione più corrente, che dà per scontata l'idea di una purezza della fede ottenuta mediante la ri­mozione della religione, come se il tema della dialettica barthiana fosse il superamento della religione medesima.

Barth ha piuttosto sostenuto l'esatto contrario, mettendo esplicitamente in guardia da questa ingenuità. Altra questione è, invece, quella del modo di elaborare teoricamente il senso di quella dialettica, e di svilupparne le implicazioni teologiche. La discussione del suo svolgimento non dovrebbe tuttavia far perdere di vista la verità cristiana dell'assunto fondamentale, che coglie la necessità antropologica insuperabile dell'orizzonte religioso, insieme con la radicale impotenza della religione, in quanto succedaneo della grazia, ad assicurare la qualità della fede[2].

La tesi barthiana della religione come istituzione storica della tangenza fra gli assoluti del desiderio e l'intimità di Dio, di cui la fede rivelata da Gesù Cristo decide la verità, vale in un duplice senso. Da un lato, indica che è l'evento cristologico a decidere la verità della religione, e non il contrario.

Dall'altro lato, stabilisce che la fede cristiana abita necessariamente la religione, pur lottando contro la sua inevitabile tendenza all'autolegittimazione salvifica, perché essa è il luogo storicamente appropriato e insostituibile della proclamazione della salvezza come opera di Dio.

La tesi di Barth rischia certo ad ogni passo il surrealismo della scissione radicale fra teologia e antropologia della religione, che il mysterium conjunctio­nis della cristologia rimuove letteralmente. Ma l'assunto dialettico, che inibisce la metamorfosi della grazia salvifica in dispositivo reli­gioso, è degno di ogni considerazione.

La fede che decide la qualità della religione, da un lato, è anzitutto una fede che si decide per la qualità della religione come luogo in cui l'uomo cerca la salvezza di Dio e si espone all'azione di Dio che la offre. In tal modo, la religione pone la radicale serietà del tema che in nessun altro modo può essere posto: abitandola dialetticamente, il cristiano si espone coraggiosamente alla drammatica della ricerca di Dio, che accomuna l'umano.

La fede evangelica non pensa affatto che abbandonando la religione alla sua ambiguità - la storia della religione è stanza del tesoro e museo degli orrori, San Francesco e il Grande Inquisitore, inestricabilmente - la relazione con Dio possa conseguire la sua definitiva purezza. Al contrario, essa cerca la propria perfezione proprio nella passione del suo modo di abili­tare e riabilitare l'esperienza religiosa, della quale urge la purezza, in spirito e verità, che essa stessa non può darsi.

La abita e la riabilita sul campo, rilanciando, proprio con gli strumenti del suo linguaggio e della sua grammatica, l'affectus Dei come origine insondabile, desti­nazione incorruttibile, causa suprema di ogni justitia Dei: la sola che possa giustificare l'esistenza dell'uomo

Abitandola e riabilitando la, la fede contende la religione, millimetro per millimetro, all'astuzia delle potenze del maligno, come alla prevaricazione dei devoti di professione. La incalza e la sfida, persino, affinché riconosca nella sua stessa tradizione le derive dell'adattamento, dell'ottundimento, del settarismo, della superstizione e della contraddizione.

Il modo in cui la religione annuncia e insieme oscura la verità di cui vive è il lato più enigmatico dell'eredità del peccato dei figli di Adamo, che si riflette inevitabilmente anche sulla immemoriale custodia della originaria relazione creaturale con Dio - in sé sacrosanta - con ef­fetti di fraintendimento pieni di sorprese[3].

Nel prosieguo del discorso i due autori ricordano come la fidanzata di Bonhoeffer gli ricordasse la fisicità dei Salmi:

Maria von Wedemeyer scrive a Bonhoeffer, in una nota lettera, che da «qualche parte nella Bibbia sta scritto che bisogna partecipare con il “cuore e le viscere”» di modo che i «salmi non vengono soltanto pensati con la testa e cantati con la bocca, ma che possono cantare anche le mani e i piedi e tutto il resto»[4].

Illuminante risulta essere una citazione di J.-Y. Lacoste che afferma in Esperienza e assoluto[5]:

definiamo, dunque, la liturgia come attesa o desiderio della parusia nella certezza di una presenza non parusiaca di Dio[6].

La liturgia ricorda all’uomo che il regno non è di questo mondo:

L’«etica vuole il Regno ma non può istituirlo» perché la sua dimora è sempre la storia, luogo terrestre della violenza, del patteggiamento con il male: luogo, con una rilettura escatologica di Kant, del «male radicale». Il teologo ha qui buon gioco, sulla base del dispositivo messo in atto, a far risaltare l’eccedenza che sorpassa l’etica: l’irruzione del perdono, il Dio della promessa[7].

La riflessione di F. Riva e P. Sequeri si sofferma anche a descrivere come la liturgia sia festa che apre la comunità alla scoperta della sua destinazione[8]:

 

L'universalità della festa è quella di persone che ricordano in un luogo e in un tempo precisi, con azioni specifiche e inconfondibili, l'una all'altra la propria destinazione. L'universalità della festa esce dalla pura razionalità come segno distintivo dell'umano e segue perciò il cammino di una comunità - è sempre una comunità che fa festa -, ma senza scivolare nemmeno lungo i burroni dell'etnicità.

 

La festa è comunitaria in un senso alternativo rispetto a quello di comunità autoripiegate su se stesse, perché l'aspetto comunita­rio della festa coincide con l'umano comune, che è l'universale. La comunità della festa non è un comunitarismo ripiegato su se stesso: la festa «non è semplicemente l'essere insieme come tale, ma l'in­tenzione che unisce tutti e che impedisce loro di cadere in discorsi singoli, o di disperdersi in esperienze vissute singolarmente»[9]

 

La festa è «comunanza, ed è la rappresentazione di questa comunanza nella sua forma più completa»: non perché nella festa si travasi ciò che precede la festa stessa, ma perché in essa emerge l'eccedenza di una «comunanza non più facilmente determinabile, in un riunirsi per qualcosa, senza che nessuno possa più dire per che cosa ci si raccoglie e ci si riunisce». La festa implica un distacco, che riporta all'unità rispetto alla dispersione del quotidiano, che ricrea comu­nanza, perché la «festa è sempre di tutti»[10].

 

La festa è, appunto, festa.

 

La comunità fa festa, ma la comunità è a sua volta fatta dalla festa. La festa è un fare la comunità, un allargarla e un ricrearla in qualche modo. Dalla festa non si esclude nessuno, nemmeno lo straniero, nemmeno l'asino e il bue (Dt 5, 12-14), di modo che la «comunità è collegata alla festa perché e quando ne vive il valore intrinseco, la fraternità e l'amicizia che lega tra loro i membri»[11].

 

La comunanza della festa si esprime quindi sia in una partecipa­zione corale e comunitaria, sia nella grande attenzione che va pre­stata alla sua forma: la festa tende all'intima unità dei suoi elementi, di cui denuncia il possibile isolamento l'uno rispetto all'altro. L’uni­tà della festa è, nello stesso tempo, comunità e opera d'arte perché «la liturgia non dice "io", bensì "noi"»: non è «opera del singolo, bensì della totalità dei fedeli. Questa totalità non risulta soltanto dalla somma delle persone, che si trovano in Chiesa in un determi­nato momento, e non è neppure la "comunità" riunita. Essa si dilata piuttosto oltre i limiti di uno spazio determinato ed abbraccia tutti i credenti della terra intera»[12].

 

Emerge allora l’assoluta novità dell’eucarestia che restituisce alla comunità la sua ricettività nei confronti dell’azione di Dio[13]:

 

L’eucaristia forma e riforma la Chiesa, in primo luogo ed essenzialmente perché la ferma intorno al corpo del Signore.

 

Deve essere enfatizzato il rilievo cruciale di questa parola/gesto, in cui la Chiesa ferma se stessa per ricomporsi nella sua forma originaria, plasmata dalla presenza e dall’azione del Signore. Quella forma cristiana della comunità inoperosa – apparentemente cultuale – non sta semplicemente all’inizio di uno sviluppostorico della ekklesia della fede: essa rimane sulla verticale della permanente restituzione della fede alla differenza evangelica.

 

Per questo è proprio la liturgia a rivelare la natura della chiesa[14]:

 

Le mille parole, i mille gesti, le mille relazioni nelle quali la comunità dei discepoli si edifica e svolge la sua missione, interrompono il loro corso normale. Giungono a placarsi, si può dire, fino a ridursi all’essenziale: diventano cenno, memoria, segno, simbolo di loro stessi nella celebrazione dell’eucaristia. Dal papa all’ultimo dei battezzati, l’intera Chiesa fa una sola cosa, uguale per tutti ed essenziale per tutti: si raduna intorno al Corpo del Signore, ascolta la sua parola, si nutre della sua presenza. Proclama semplicemente di non poter fare a meno di questo, e di non poter fare più di questo. Riconosce che nessuna delle sue parole può sostituire quella che il Signore rivolge; né alcuna delle sue opere può trovare la sua destinazione, se il Corpo del Signore non ne definisce l’effettivo legame con la vita di Dio.

 

Riva e Sequeri citano a questo proposito uno stupendo passaggio di Clemente Alessandrino che afferma[15]:

 

I cristiani di cui parlo pongono il carattere divino che posseggono nell’assemblea (synagoghé), quando se ne allontanano si fanno in tutto simili alla gente in mezzo alla quale vivono (Clemente di Alessandria, Pedagogus, III, 11,89,3).    

 

La priorità dell’azione di Dio costituisce il motivo dell’inoperosità tipica della partecipazione attiva dei credenti all’eucarestia[16]:

 

Quando celebra l'eucaristia, la Chiesa intera si raccoglie, sospendendo il tempo, intorno all'intimità abissale di questo mistero, in cui tutto è rinchiuso. La Chiesa rinchiude se stessa nel cerchio della consegna ricevuta. Ne riceve in dono un tempo sospeso, uno spazio sigillato, un sostare inoperoso, che sono la chiave di accesso per la benedizione che quel mistero, in questa forma, porta in sé per tutto il mondo e fino alla fine dei tempi. E l'inoperosità di questo fare («actuosa participatio») che edifica la Chiesa, salva l'immenso volume delle parole e dei gesti in cui si esercita il discepolato della sequela dall'insidia della sostituzione che essi - fatalmente - accu­mulano. Tutti, qui, con le insegne del loro ministero e i segni del loro carisma, al servizio del Corpo del Signore, fanno rigorosamente l'identica cosa. Eseguono la consegna. Ripetono la parola e il gesto del Signore, in cui tutte le sue parole e i suoi gesti si raccolgono.

 

E in ciò ricevono salvezza - per loro stessi e per la Chiesa tutta ­- dall'enormità del peso di parole e opere, eventi e fatti, tempi e storie, che finirebbero per seppellirli, se questa inoperosità non li ripassas­se, ogni volta e sempre, nel crogiuolo della morte del Signore e nella frattura della sua risurrezione: che confermano il riscatto dell'orribile peccato del mondo e della modesta resistenza religiosa ad esso. Tale modestia, infatti, riconosciuta come tale di fronte al Corpo dato e al Sangue sparso del Figlio, è posta sotto la protezione della sua fedeltà. E confortata, sostenuta, rallegrata persino, dalla vitalità dello Spirito, che non si nega neppure ai gemiti[17]. E cura la crescita del Regno anche quando dormiamo[18].

 

La disputa sul privilegio che deve essere accordato alle immagini «ecclesiologiche» - Corpo del Signore, Popolo di Dio - per quan­to non priva di giustificazione contingente, deve ormai apparire, nell'odierno kairos, poco più che un esercizio di scuola. Da non in­sistervi, oltre tutto, per non concedere alle burocrazie dei controlli demografici del sacro temi troppo alti, che non le riguardano.

 

La presenza del Signore nel suo Corpo proprio, sacrificato per la salvezza dei molti, che accade - in mysterio - precisamente nella celebrazione di questo sacramento, dentro lo spazio della fraternità dei suoi, che sanno di non esserne all'altezza, ripete la contiguità del Corpo del Signore, fra i suoi, con i molti. Il Corpo del Signore presenta un'asimmetria irriducibile alla ekklesia dei discepoli, che coincide con la singolarità del Figlio Gesù. La celebrazione ripete il mistero del suo immeritato darsi, ed essere udito e toccato, senza che ciò possa essere consumato o requisito da nessun cenacolo, né da alcuna generazione.

 

A questo proposito, Riva e Sequeri ricordano un passaggio di G. Boselli che afferma[19]:

 

L’assemblea eucaristica nel giorno del Signore rappresenta per la maggioranza dei cristiani l'unico segno di appartenenza alla Chiesa, il solo momento ecclesialmente mediato di comunione con Dio e con i fratelli nella fede. A colui che inizia il cammino catecumenale si chiede: "Che cosa domandi alla Chiesa di Dio?". Egli risponde: "La fede". Questa domanda si ripete idealmente ogni volta che un cristiano è chiamato a darsi ragione del suo convenire in unum con altri cristiani. Se infatti la fede è dono di Dio, la vita della fede si compie all'interno della Chiesa di Dio, in quanto si è pienamente soggetti della fede cristiana solo nella comunione dei credenti. E la vita della fede ciò che in profondità il credente ricerca, in modo a volte inconsapevole, quando interiormente risponde alla chiamata di Dio a prender parte alla comunità liturgica. Per questo l'assemblea euca­ristica domenicale è in modo permanente il luogo sacramentale dell'identità cristiana, dove la persona si riceve e si identifica come credente, ricevendo e identificando la propria fede nelle parole e nei gesti rituali che manifestano e comunicano la fede. Oggi i credenti esprimono in modo forte, anche se spesso inarticolato, il bisogno di trovare nella liturgia un luogo dove riconoscersi ed essere costituiti e incessantemente ricostituiti come soggetti della fede» (p. 166) [20].

 

Note al testo

 

[1] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009.

 

[2] P. Sequeri, Karl Barh, in: G. Angelini – S. Macchi, a cura di, La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, Glossa, Milano 2008, 113-134.

 

[3] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, pp. 38-40.

 

[4] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, p. 210.

 

[5] J.-Y. Lacoste, Esperienza e assoluto. Sull’umanità dell’uomo, Cittadella, Assisi, 2004, p. 98.

 

[6] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, p. 226.

 

[7] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, p. 231.

 

[8] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, pp. 307-308.

 

[9] Cf. H.G. Gadamer, L’attualità del bello, cit., 46.

 

[10] Ivi, 43.

 

[11] A. Rizzi, Il problema del senso e del tempo. Tempo, festa, preghiera, Cittadella Editrice, Assisi 2006, 84.

 

[12] Cf. H.G. Gadamer, L’attualità del bello, cit., 46; R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1996, cap. 2, 47-48.

 

[13] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, pp. 384-385.

 

[14] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, p. 385.

 

[15] Citato in F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, p. 385.

 

[16] Citato in F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, pp. 427-428.

 

[17] «Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rom 8,22-24b).

 

[18] «Il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra: dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-27).

 

[19] F. Riva - P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi, 2009, p. 429.

 

[20] G. Boselli, Convenire in unum. L’assemblea liturgica nei testi delConcilio: due nodi ancora irrisolti, «Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 165-186.

 

Fonte: gli scritti.it

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Prendi il largo

Riappropriarsi dell’Incontro

Oggi il nostro andare spesso non è un cammino, ma un vagare sperduto tra troppe cose da fare. Per dare un senso ai nostri passi noi cristiani crediamo di doverci porre in ascolto della chiamata del Signore. E’ la vocazione che Egli non si stanca di proporci e che può dirigere la vita del discepolo. Siamo invitati a diventare consapevoli di questa presenza del Signore che non è lontano da noi incrociando continuamente i nostri passi.

In questo mese pensando alla Giornata per il Seminario Diocesano vogliamo pregare per tutto il seminario con particolare attenzione a chi si trova per la prima volta a far parte di questa famiglia.

Canto d’inizio ed esposizione

Incontro con Dio nell’Eucaristia

Dall’Adoro Te devote (a due cori)

 

Ti adoriamo devotamente, o Dio nascosto che realmente Ti fai presente in questa figura:

a Te affidiamo completamente i nostri cuori, perché contemplandoTi tutto il resto viene meno.

Viso, tatto e gusto s’ingannano davanti a questo segno, ma ascoltando la Tua Parola si può credere:

crediamo al Figlio di Dio fattoSi carne,

nulla più del Verbo è Verità.

O memoriale della Pasqua del Signore,

pane vivo che dai vita all’uomo,

concedi a noi tuoi fedeli di vivere di Te,

perchè sappiamo assaporare la dolcezza di questo incontro.

 

Incontro con Dio nella Parola

 

Dal Libro di Geremia (15, 16-17)

 

Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti. Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate di buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno. 

 

All’esperienza di Geremia fa eco il salmo come preghiera di abbandono fiducioso in una Parola che ci legge in profondità.

 

Sal. 139 - O Dio, Tu mi scruti e mi conosci

Dio non è lontano da ciascuno di noi…

in lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17, 27.28)

 

Ritornello cantato oppure: Signore, tu ci conosci da sempre.

 

Signore, tu mi scruti e mi conosci,

tu sai quando seggo e quando mi alzo.

Penetri da lontano i miei pensieri,

mi scruti quando cammino e quando riposo. Rit.

 

Ti sono note tutte le mie vie;

la mia parola non è ancora sulla lingua

e tu, Signore, già la conosci tutta.    Rit.

 

Sei tu che hai creato le mie viscere

e mi hai tessuto nel seno di mia madre.

Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;

sono stupende le tue opere,

tu mi conosci fino in fondo.    Rit.

 

Quanto profondi per me i tuoi pensieri,

quanto grande il loro numero, o Dio;

se li conto sono più della sabbia,

se li credo finiti, con te sono ancora.   Rit.

 

Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,

provami e conosci i miei pensieri:

vedi se percorro una via di menzogna

e guidami sulla via della vita.   Rit.         Gloria….

 

Una Parola che ci chiama a rischiare.

 

Gesù cammina sulle acque e Pietro con Lui

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 14, 22-33)

 

Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù. La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario. Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: “È un fantasma” e si misero a gridare dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”.

Ed egli disse: “Vieni! ”. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami! ”. E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: “Tu sei veramente il Figlio di Dio! ”.

 

Riconosci chi ti viene incontro

Il viaggio dei discepoli rappresenta la nostra vita: spesso noi partiamo tranquilli e ci ritroviamo inaspettatamente in acque agitate, bisognosi di aiuto. Il Signore ha dimostrato in molti modi di essere sempre pronto a portarci al di là delle acque: Egli è il nostro Salvatore. Così ci viene incontro proprio quando più abbiamo bisogno di Lui; proprio quando Lo sentiamo più lontano Lui si fa vicino. Ma non è facile riconoscerLo, richiede uno sguardo di fede per non confonderLo con un fantasma. Bisogna ascoltare la Sua Parola, la sola che può illuminare i nostri occhi ed aprirli alla verità. E se riconosciamo di aver incontrato il Signore, allora ci accorgiamo anche che Lui ci invita a seguirLo e a continuare la strada insieme a Lui, come suoi discepoli.

 

Canto

 

Entra nella tua camera e prega il Padre nel Silenzio

Dal Vangelo di Matteo (6,5-6)

Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

 

 

Nel silenzio di questo momento proviamo a ripensare ai nostri incontri con il Signore. Ci possiamo chiedere:

  • In quali episodi della mia vita Dio si è fatto presente?
  • In quali l’ho ritenuto più distante, mentre ora posso riconoscere che non mi aveva abbandonato?
  • Dove il Signore mi sta accompagnando?

 

Dalla lettera Pastorale del Vescovo Cesare:

“Coraggio sono io, non abbiate paura”.

Gesù, congedata la folla, sale sul monte a pregare in solitudine. Sa che solo pregando potrà camminare sulle acque e vincere il mare in tempesta, la potenza del male. La preghiera è l’esito dell’ascolto della parola di Dio, quando da Parola che racconta diviene Parola che ci racconta.

Facciamo pertanto nostre le invocazioni dei poveri del Vangelo, i quali, grazie alla loro preghiera fatta con fede, ottengono guarigione e salvezza.

 

Facciamo nostre le invocazioni del Vescovo:

(Lette da varie voci e intercalate da un canone)

Signore aumenta la nostra fede (Lc 17,5)….

Credo, aiutami nella mia incredulità (Mc 9,24)….

Comanda che io venga da te sulle acque (Mt 14,28)….

Figlio di Davide abbi pietà di noi (Mt 9,27)….

Di’ soltanto una parola ( Mt 8,8)….

Salvaci Signore siamo perduti (Mt 8,25)….

Non t’importa che moriamo? (Mc 4,38)….

Se vuoi , Signore tu puoi sanarmi (Mt 8,2)….

Signore, che io possa vedere ( Lc 18,41)….

Signore dammi la tua acqua perché non abbia più sete ( Gv 4,15)….

Signore , dacci sempre questo tuo pane ( Gv 6,34)….

 

Preghiamo insieme

Sono proposte ora delle preghiere dei fedeli da recitare come responsorio, ed alle quali si potranno aggiungere liberamente delle intenzioni, delle suppliche e dei ringraziamenti personali.

 

L: Signore Gesù, pur non riconoscendoti con i sensi, Ti crediamo presente nell’Eucaristia;

T: donaci di vedere il Tuo volto anche nel volto dei fratelli.

L: Hai incoraggiato Pietro ad avere fiducia in Te;

T: fa’ che sappiamo seguirTi anche quando la Tua chiamata ci sembra impossibile.

L:Hai fondato la tua Chiesa sulla fragilità di Pietro;

T: sostieni nella sua missione il nostro papa Benedetto, perché sappia condurre la Chiesa a Te.

L: Hai posto in mezzo al Tuo popolo i presbiteri perché ne siano i pastori;

T: dona loro la capacità di essere vicini ad ogni uomo.

L: Tu che conosci il cuore dei Tuoi figli;

T: ispira loro il desiderio di fare scelte di vita secondo la tua volontà.

 

Interventi liberi a cui segue il Padre Nostro.

 

Benedizione eucaristica e canto finale.

 

 

 

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“ Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Gv. 6,41-52

Continuiamo la meditazione sul discorso eucaristico di Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani.

Gesù aveva detto: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”; questa è l’affermazione centrale del discorso sul “pane di vita” di Gesù.

/ Ora Gesù continua e dice: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Questa affermazione enigmatica di Gesù, non poteva lasciare indifferenti, ma esigeva una presa di posizione da parte della folla che ascoltava, anzi suscita il mormorio scandalizzato della folla e sottolinea la difficoltà che la proposta e la pretesa di Gesù suscita tra gli ebrei. Insomma si è creato un tragico malinteso, e la reazione è appunto la mormorazione.

/ Non possiamo leggere questo discorso di Gesù se non situandolo nello sfondo dell’Esodo e dell’esperienza della manna nel deserto, nell’AT. Sia il tema del cibo di Dio(la manna), sia il tema della mormorazione, si ripetono nei riguardi della persona di Gesù.

/ La folla avrebbe dovuto capire questi segni, e invece resta attaccata ad un livello materiale.

Dopo aver chiesto un “segno” per credere( e l’hanno avuto), ora non solo non credono, ma si scandalizzano fino ad arrivare alla mormorazione.

La pretesa di Gesù di essere “il pane disceso dal cielo” è contrapposta al fatto che essi pretendono di conoscere Gesù e la sua famiglia, dicendo: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”.

/ Come è strano il cuore dell’uomo! Dopo che Cristo aveva moltiplicato i pani, la folla voleva farlo re! Ora che Cristo dice: “Io sono il pane disceso dal cielo”, cominciano a mormorare! E’ la crisi dello stomaco pieno, del portafoglio gonfio: è la crisi del benessere, dell’indigestione, dell’indifferenza! Per andare da Gesù è indispensabile la fede: non basta dire di conoscere i suoi parenti. Gesù è disceso dal cielo, è il Figlio di Dio incarnato, è il Rivelatore di Dio Padre.

/ Prima di indicare se stesso come “il pane della vita”, Gesù ha voluto condividere il pane degli uomini. Trent’anni di intensa preparazione, in cui ha partecipato ai pasti quotidiani, ai pranzi di festa e di lutto. Trent’anni per cercare di far sentire agli uomini la loro fame essenziale e di far intuire loro il cibo che egli avrebbe offerto. Trent’anni per arrivare a questo punto!. Ora Gesù li ammonisce ad uscire dalla loro incredulità e ad aprirsi ad accogliere il dono di Dio che si rende presente in Lui.

Il pane che ci vuol dare è la sua vita. Il nocciolo dell’incredulità della gente, e forse anche della nostra, consiste nel vedere in Gesù, soltanto colui che ha condiviso il pane degli uomini, non accogliendolo come Colui che ci vuol donare, col pane, anche la propria vita. “Chi crede ha la vita eterna” e chi mangia di Lui avrà la vita eterna.

/ Nel deserto gli ebrei che mangiarono la manna, (figura e simbolo del pane eucaristico), morirono tutti e non entrarono nella terra promessa, per mancanza di fede. Così per noi: cosa sarebbe una comunione “sacramentale” che non fosse comunione “spirituale” di fede con Gesù? Sarebbe un mangiare la “carne” del Figlio dell’uomo alla maniera in cui l’intendevano quelli di Cafarnao, cioè a livello della carne soltanto e nulla più, senza fede. E Gesù dice che la carne, da sola, senza lo Spirito, non giova a nulla. Fede ed Eucaristia sono intimamente connesse e si richiamano a vicenda: perché con la fede credo che Gesù è vivo e presente nel Pane e nel Vino consacrati: mentre l’Eucaristia è nutrimento della fede. “L’Eucaristia fa la Chiesa, e la Chiesa fa l’Eucaristia”.

/ Il pane eucaristico segue le leggi del pane casalingo offerto dal padre di famiglia ai suoi.

Il pane acquista significato perché qualcuno lo ha impastato e cotto: qualcuno lo ha guadagnato, e qualcuno lo mangerà. I genitori procurano ai propri figli il pane, il cibo, i vestiti, con il proprio lavoro. Essi sono pane di vita per i loro figli, non soltanto perché hanno dato loro la vita, ma perché, in qualche modo, sono continuamente “mangiati” dai loro figli. Ora se i genitori e i figli possono dare al pane un significato così profondo, perché Gesù non potrebbe dare al pane eucaristico un significato e una realtà tutta nuova, e farne così la partecipazione della sua vita con il Padre e il segno efficace della sua intima presenza e comunione con coloro che in Lui credono?

/ Tutto il bene spirituale della Chiesa è racchiuso nell’Eucaristia, dove Cristo, nostra Pasqua, è presente e dà la vita agli uomini. L’invito a mangiare di questo pane, è un chiaro accenno alla partecipazione al convito sacrificale dell’Eucaristia.

/ I segni della presenza di Dio accanto al suo popolo in cammino nel deserto, furono particolarmente due: il pane venuto dal cielo(= la manna), e l’acqua scaturita dalla roccia. Questi sono anche i segni attraverso i quali Dio fa sentire la sua presenza efficace in mezzo a noi attraverso l’Eucaristia.

/Così fu per il profeta Elia, che nel deserto fu assistito dall’Angelo del Signore offrendogli una focaccia e dell’acqua, perché proseguisse nel cammino e incontrare Dio all’Oreb.

/ S. Ireneo: “Come da farina secca, senz’acqua, non si può fare una sola pasta e un solo pane, così noi, che eravamo una moltitudine, non potevamo divenire una cosa sola in Cristo Gesù, non potevamo diventare Chiesa, senza l’Acqua venuta dal cielo, cioè senza lo Spirito Santo”.

/ Giovanni Paolo II: “Ecclesia de Eucaristia”: “L’Eucaristia è comunione con Cristo, con il suo Corpo e con il suo Sangue, è partecipazione alla vita eterna di Dio”(n. 75).

 

 

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Le verità fondamentali di «Pinocchio» da Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio, Jaca Book, Milano, 1977

Che cosa in realtà ha espresso il Collodi nel suo più celebre libro, di là dalle sue intenzioni consapevoli e dichiarate?
Non ha espresso nessuna delle ideologie correnti, che erano tutte ignote ai suoi destinatari e che d'altronde non erano più pacificamente accettate nella profondità della sua coscienza. E sarà sempre una prevaricazione dare di Pinocchio delle spiegazioni ideologiche di qualunque tendenza e di qualunque colore, come di fatto sono state date: conservatorismo moralistico, liberalismo illuministico, pauperismo, marxismo, psicanalismo ecc.
Non le ideologie ma la verità, di sua natura universale ed eterna, è contenuta in questo magico racconto e, servita com'era da un'alta fantasia e da una fresca ispirazione poetica, spiega la sua rapida affermazione e il suo duraturo trionfo.
Ma, per non lasciare nel vago le nostre affermazioni, quali sono specificamente le verità che senza possibilità di discussione, traspaiono nella storia del burattino?
Sono sette quelle che reggono e illuminano tutta la vicenda.

a) Il mistero di un creatore che vuole essere padre

Pinocchio, creatura legnosa, origina dalle mani di chi è diverso da lui; è costruito come una cosa, ma dal suo creatore è chiamato subito figlio. C'è qui l'arcano di un'alterità di natura, superata da uno strano, gratuito, imprevedibile amore.
Il burattino, chiamato sorprendentemente a essere figlio, fugge dal padre. E proprio la fuga dal padre è vista come la fonte di tutte le sventure; così come il ritorno al padre è l'ideale che sorregge Pinocchio in tutti i suoi guai, costituendo infine l'approdo del tormentato viaggio e la ragione della raggiunta felicità.

b) Il mistero del male interiore

In questo libro è acutissimo il senso del male. E il male è in primo luogo scoperto dentro il nostro cuore. Non è un puro difetto di conoscenza, come nell'illuminismo socratico; non è risolto tutto nella iniquità o nella insipienza delle strutture, come nell'ideologia liberalborghese in polemica con l'Ancien Régime o nell'ideologia marxista in polemica con la società liberalborghese. «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21).
Pinocchio sa che cosa è il suo bene, ma sceglie sempre l'alternativa peggiore (Vedi, c. 9: a scuola o al teatro dei burattini?; cc. 12 e 18: a casa o al campo dei miracoli col gatto e la volpe; cc. 27: a scuola o alla spiaggia a vedere il pescecane?; c. 30: dalla Fata o al Paese dei balocchi? ). Soggiace chiaramente alla narrazione di queste sconfitte la persuasione della «natura decaduta», della «libertà ferita», della incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia, espresso nelle famose parole: «Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 19).

c) Il mistero del male esteriore all'uomo

La nostra tragedia è aggravata dal fatto che sono all'opera, esteriormente a noi, le potenze del male. Esse non sono viste come forze impersonali, quasi oggettivazioni delle nostre inclinazioni malvagie o dei nostri squilibri, ma come esseri astuti e intelligenti che si accaniscono inspiegabilmente ed efficacemente contro la nostra salvezza.
Nella fiaba queste forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe e raggiungono il vertice della intensità artistica e della lucidità speculativa nell'Omino, corruttore mellifluo, tenero in apparenza, perfido nella realtà spaventosa e stupenda raffigurazione del nostro insonne Nemico:
«Tutti la notte dormono, e io non dormo mai» (c. 31).

d) Il mistero della mediazione redentiva

L'ideologia illuministica aveva diffuso nel mondo l'orgogliosa affermazione dell'autoredenzione dell'uomo: l'uomo può e deve salvare se stesso, senza alcun aiuto dall'alto.
Tutta la seconda parte del libro (dal c. 16 in avanti, che si potrebbe considerare quasi il Nuovo Testamento di questa specie di Bibbia) è costruita per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente debole e ferito, esteriormente insidiato da intelligenze maligne più astute di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo col padre, di riportarlo a casa, di dargli un essere nuovo.
Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l'esistenza di questa salvezza che è donata dall'alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle.

e) Il mistero del padre, unica sorgente di libertà

La scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione è anch'essa una cifra: è il simbolo dell'uomo, che è da ogni parte condizionato, che è schiavo degli oppressori prepotenti e dei persuasori occulti, che è legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà.
Il burattinaio di turno può anche essere soppresso dall'una o dall'altra rivoluzione, ma fino a che la creatura umana resta solitaria marionetta, ogni burattinaio estinto avrà fatalmente un successore.
Pinocchio non può restare prigioniero del teatrino di Mangiafuoco, perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. Il senso del padre è dunque la sola sorgente possibile della liberazione dalle molteplici, cangianti e sostanzialmente identiche tirannie che affliggono l'uomo.

f) Il mistero della trasnaturazione

Pinocchio riesce a raggiungere la sua perfetta libertà interiore e a realizzarsi perfettamente in tutte le sue virtualità soltanto quando si oltrepassa e arriva a possedere una natura più alta della sua, la stessa natura del padre. È la realizzazione sul piano dell'essere della vocazione filiale con la quale era cominciata tutta la storia.
Noi possiamo essere noi stessi soltanto se siamo più di noi stessi, per una arcana partecipazione a una vita più ricca; l'uomo che vuole essere solo uomo, si fa meno uomo.

g) Il mistero del duplice destino

La storia dell'uomo, come è concepita e narrata in questo libro, non ha un lieto fine immancabile. Gli esiti possibili sono due:
se Pinocchio si sublima per la mediazione della Fata nella trasnaturazione che lo assimila al padre, Lucignolo — che non è raggiunto da nessuna potenza redentrice — s'imbestia irreversibilmente. La nostra vicenda può avere due opposti finali: o finisce in una salvezza che eccede le nostre capacità di comprensione e di attesa, o finisce nella perdizione.

Verità cristiane

Queste sette convinzioni, si è visto, sono affermate e concIamate dal libro, e non so come sia possibile con qualche ragionevolezza dubitarne.
Orbene, è anche fuori dubbio che esse siano sette fondamentali verità della visione cristiana, e cioè:

  1. La nostra origine da un Creatore e la nostra vocazione a diventare suoi figli
  2. Il peccato originale e la decadenza della nostra volontà che da sola non sa resistere al male
  3. Il demonio, creatura intelligente e malvagia, che lavora alla nostra rovina
  4. La mediazione salvifica di Cristo, come unica possibilità di salvezza
  5. Il senso di Dio, fondamento della dignità umana e della nostra libertà di fronte a qualsivoglia oppressione
  6. Il dono della vita di grazia, che ci fa partecipi della natura di Dio
  7. I due diversi destini eterni tra i quali siamo chiamati a decidere.

Il Collodi che sazio delle ideologie si rivolge ai ragazzi d'Italia, con felice intuito di artista riscopre nell'anima dei destinatari l'unica concezione della realtà che accomunava tutti gli abitanti della penisola, prima che l'unificazione politica li dividesse nel profondo ed erigesse tra loro le barriere avverse delle ideologie.
I ragazzi italiani del 1881 potevano certo avere padri e zii clericali o anticlericali, cattolici intransigenti o conciliatoristi, filo-sabaudi o repubblicani, liberali o socialisti; ma nessuna di queste contrapposizioni li toccava minimamente. I ragazzi italiani del 1881 avevano come sola chiave interpretativa della realtà la concezione che potevano desumere dalle preghiere delle loro mamme e delle loro nonne, dagli affreschi e dalle vetrate delle loro chiese, dalle spiegazioni del vangelo del loro parroco, dal catechismo studiato per la prima comunione, dalle espressioni popolari della sapienza cristiana. I ragazzi italiani del 1881 non conoscevano ideologie, conoscevano la verità.
E il Collodi, entrando in comunione di spirito con loro in virtù della capacità penetrativa della sua arte, riconquista senza volerlo e probabilmente senza saperlo la verità della sua primissima giovinezza, la verità che aveva dato a sua madre la forza di vivere, la verità che ogni cuore umano non prevenuto percepisce d'istinto come la loro luce che salva. Si è in modo singolare avverata per lui la parola profetica del Signore Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 4).

Conclusione

E' dunque una lezione di vita che possiamo imparare: le ideologie. possono servire per far politica, per arricchire, per far carnera, per organizzare meglio l'esteriorità della vita terrena, per assicurarsi onori e vantaggi, per avviare rivoluzioni che lasciano la sostanza delle cose come prima, per intraprendere liberazioni che di solito si risolvono in un cambio di schiavitù; ma per la salvezza dell'uomo come uomo non servono. Per la salvezza occorre la verità: la verità sulla vita e sulla morte, sul senso dell'esistenza e sulla sua insignificanza, sulla felicità e sul dolore, sulla possibilità di speranza e sulla disperazione, sulla nostra origine e sul nostro ultimo destino.
La salvezza comincia quando l'uomo si rende conto che la sua vera alienazione sta nel rifugiarsi nell'una o nell'altra ideologia per la paura di misurarsi con la verità, e comincia a capovolgere questo mortificante processo. E' l'insegnamento più elevato e più utile che si possa trarre dalla vicenda umana di Carlo Lorenzini detto Collodi e dal «caso» letterario de «Le avventure di Pinocchio».

Alcuni interrogativi su Pinocchio e sul suo autore.
Conferenza tenuta a Collodi venerdì 16 aprile 1999 dall'Arcivescovo di Bologna, Cardinale Giacomo Biffi, tratto dall'Osservatore Romano del 17 aprile 1999

Devo molto a Pinocchio. Il mirabile burattino mi ha tra l'altro procurato l'onore inatteso dell'attenzione garbatamente critica di Giovanni Spadolini, il compianto storico e uomo politico che tutti abbiamo stimato. Per il centenario della morte di Carlo Collodi, all'Archiginnasio di Bologna, avevo svolto un tema abbastanza singolare e per la verità anche un po' provocatorio: "Pinocchio e la questione italiana". A differenza di altri che hanno reagito "a caldo" e senza diretta conoscenza di ciò che avevo detto, Spadolini molto correttamente si era fatto inviare il testo dell'intervento, e dopo qualche settimana ha reso pubbliche le sue considerazioni in un articolo della Stampa di Torino. Quelle argomentazioni sono state poi riproposte in un capitolo del suo ultimo libro (Il mondo frantumato, Milano 1992); un capitolo intitolato: Burattino d'Italia: l'unità secondo Pinocchio, che è tutto dedicato a discutere le mie posizioni.
Senza dubbio la preoccupazione principale di quelle pagine è di contestare una valutazione del Risorgimento che certo egli non poteva condividere. Ma questa è una discussione che non è il caso qui di riprendere.
Spadolini però esprimeva anche contestualmente alcune persuasioni a proposito di Collodi e di Pinocchio, che si possono sintetizzare in cinque punti.

  1. Per l'intelligenza della personalità e dell'opera del Lorenzini è fondamentale non dimenticarsi della sua adesione al messaggio politico e alla filosofia di Giuseppe Mazzini. È il suo mondo ideale, anche se bisogna riconoscere che con la partecipazione alle due prime guerre d'indipendenza egli si è poi di fatto adeguato a sostenere l'iniziativa sabauda del Regno Sardo, che risulterà vincente (cfr p. 386).
  2. Il pensiero mazziniano è perciò il sostrato teorico dell'inimitabile capolavoro, il quale manifesta il desiderio e la "finalità ideale, tipicamente mazziniana, di una società migliore" (p. 387).
  3. Sicché "la morale di Collodi è la morale dei doveri dell'uomo" (ib.), l'opera in cui Mazzini traccia la sua strada verso la rigenerazione dell'umanità.
  4. Pinocchio è un libro che annuncia questa "redenzione": "la redenzione laica di chi si appoggia sulle proprie forze, di chi fa leva sul libero arbitrio, sullo sforzo individuale, sul lavoro" (ib.).
  5. Nel lavoro si ravvisa appunto il mezzo salvifico decisivo: "solo il lavoro può difendere l'uomo da tutte le tentazioni e da tutte le perdizioni" (ib.).

Le ragioni delle mie riserve nei confronti dell'analisi spadoliniana emergeranno dal seguito di questa mia conversazione, che intende più che altro richiamare l'attenzione su alcuni interrogativi, ai quali non si è ancora data, mi sembra, una risposta esauriente e persuasiva.
Le questioni essenziali saranno due: una prima che concerne la biografia interiore di Carlo Lorenzini e una seconda che indirettamente tocca l'indole della famosa e impareggiabile fiaba. Ne aggiungerei una terza - e mi scuso di dover discorrere di qualcosa che mi riguarda personalmente - circa la mia "lettura teologica" diPinocchio.

La questione della "crisi" di Carlo Lorenzini

Ferdinando Martini ha affermato che il Lorenzini "tornò a Firenze dalla guerra nell'agosto del '48 mazziniano sfegatato". Che valore possiamo dare a questa notizia?
Nell'infanzia era stato educato da una madre religiosissima. Nell'adolescenza era andato a scuola dai preti, alunno per cinque anni del Seminario di Colle Val d'Elsa. Poi fino a diciotto anni frequenta i corsi di retorica e filosofia dei padri scolopi.
Ma tra il 1845 e il 1848 - mentre è impiegato alla libreria Piatti - ha tempo di assimilare le nuove idee di libertà civile e di indipendenza nazionale. Ed è plausibile che il magistero mazziniano si facesse sentire e apprezzare anche nell'atmosfera un po' sonnolenta del Granducato.
Sarà anche stato mazziniano, e dunque repubblicano e federalista. Ma nel 1859 prende la divisa del Re di Sardegna e serve la causa annessionistica e unitaria del Governo Piemontese.
Quando poi torna dalla seconda guerra d'indipendenza, il suo mazzinianesimo si è ormai dissolto. Nel 1860 - Pinocchio comincerà a percorrere le vie del mondo più di vent'anni dopo - su La Nazione il Collodi arriva a scrivere: "Tutto è favola in questo mondo, tutto è invenzione, dall'idea di Mazzini all'Ippogrifo dell'Ariosto... Che il cielo mi perdoni, ma l'anarchia regna nello Zodiaco..." (citato da Bruno Traversetti, Introduzione a Collodi, p. 65, Bari 1993). [È curiosa l'analogia con una frase di Euripide: "Nelle cose divine e nelle umane regna un grande disordine" (Ifigenia fra i Tauri)].
È una confessione sorprendente, e non va trascurata. Se nella prima frase ci rivela lo scolorimento delle sue precedenti convinzioni politiche, la seconda ci dà la misura della sua profonda inquietudine che qui pare raggiungere addirittura una dimensione cosmica e, per così dire, metafisica.
Del resto, facciamo fatica a pensare che tra il padre di Pinocchio e il pensatore ligure potesse istituirsi una consonanza autentica e duratura, tanto i due erano umanamente lontani e diversi; scanzonato e spregiudicato, ma concreto e realistico il primo; serioso, sistematico, intransigente, ma astratto e utopistico l'altro.
Collodi non avrebbe mai scritto un libro intitolato I doveri (e si ha qualche dubbio che potesse mai leggerlo). Il 3 agosto 1860, recensendo la commedia di Pietro Thouar (Dovere), così annotava: "I doveri sono sempre un peso! Ed io, che non sono mai stato troppo appassionato per i pesi né per i doveri, avrei fatto volentieri a meno di sentire per la seconda volta il Dovere e il peso in tre atti del sig. Pietro Thouar" (citato da Renato Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 183).
Ma non era solo la visione mazziniana a diventargli sempre più estranea: un po' tutte le idee ispiratrici del sommovimento risorgimentale, che pure avevano affascinato seriamente la sua giovinezza, non lo incantano più.
Beninteso, non rinnega niente del suo passato, non diventa affatto un reazionario; ma i risultati della grande impresa, cui aveva fattivamente contribuito, non gli piacciono. Non arriva a essere un nostalgico dell'Ancien Régime, anche se è stato notato che l'ambientazione del suo più famoso racconto sembra essere quella del casalingo e pacioso mondo del Granducato. Forse faceva capolino inconsciamente in lui anche l'insofferenza toscana nel dover ammettere che in fin dei conti l'Italia l'avevano fatta i "buzzurri". Più profondamente, è deluso della meschinità e della scarsa attenzione all'uomo del nuovo stato; e gli stessi miti dell'illuminismo, perfino l'istruzione obbligatoria per tutti, cadono sotto la sua ironia.
Comunque, a partire dal 1860 il suo malessere è così intenso da trasparire anche all'esterno e da essere percepito da chi gli sta attorno: "Non era più del suo umore di una volta - scrive il nipote Paolo Lorenzini - appariva chiuso, taciturno, malinconico, per quanto avesse sempre pronta la barzelletta e la facezia quando si animava un po'" (citato da E. Petrini in Studi collodiani, p. 486).
È sintomatico che la crisi spirituale e politica del Collodi coincida col suo "ritorno a casa". A partire proprio dal 1860 egli ricomincia a vivere con la madre, cui rimase sempre attaccatissimo. Angelina morirà solo quattro anni prima del figlio nel 1886 quando già il fatale burattino aveva cominciato la sua fortunata corsa nel mondo.
Non sarebbe il caso di studiare un po' più da vicino, accantonando gli schematismi ripetuti e convenzionali, la vicenda interiore del Lorenzini? E in che misura la sua lunga "crisi" sta all'origine della sua decisione - nel 1875 con la traduzione dei Contes di Perrault - di dedicarsi a scrivere per i bambini? Forse anche Le avventure di Pinocchio potrebbero ricevere un po' di luce in più.
Renato Bertacchini ha ben capito la fondatezza e anzi l'ineludibilità della problematica sulla quale ho cercato di attirare l'attenzione. Gli sono grato e gli lascio la parola.

"Le recenti polemiche suscitate dal Cardinale Giacomo Biffi...hanno fatto perdere di vista almeno due punti fondamentali riguardanti la "svolta" collodiana...
La crisi e il "rifugio" nella cosiddetta letteratura infantile che segnano gli ultimi quindici anni di vita e di lavoro del Lorenzini non sono un fatto soggettivo, ma devono iscriversi oggettivamente nella vicenda storica del Risorgimento, in quanto il padre di Pinocchio era deluso dai miti illuministici (alla base del processo risorgimentale), non meno che degli altri, moderni miti professati dal socialismo, dai quali non fu mai persuaso.
Fino allora, da pubblicista, il Lorenzini si era rivolto soprattutto "alla classe di quelli che contano, a quanti erano occupati nell'azione politica"; a un certo momento, il suo pessimismo, o meglio "il pessimismo del suo realismo" lo convince dell'inutilità di un simile orientamento. "Egli decide allora di cambiare destinatari e di spendere le sue fatiche non più per gli adulti, non più per i personaggi importanti sì sulla scena pubblica ma ormai ideologicamente fissati e sclerotizzati senza rimedio, bensì per i ragazzi che possiedono un'umanità ancora nativamente fresca aperta alla verità" (R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 203).

La fortuna dell'opera

Le avventure di Pinocchio costituiscono un fenomeno letterario che a prima vista non è agevole giustificare.
L'Italia unita non ha dato all'umanità nessun'altra opera che, per il successo senza confini e la risonanza in ogni cultura, possa essere paragonata a questa.
Ed è libro nato quasi per caso. Anzi, si ha proprio l'impressione che il libro sia stato anche scritto di malavoglia. Apparso a puntate con scadenze irregolari sulGiornale per i bambini di Ferdinando Martini, non si ha notizia che sia stato preceduto da un disegno accuratamente elaborato e rifinito.
Due volte la pubblicazione è stata interrotta, e la prima addirittura con il proposito di non dare altro seguito alla vicenda.
È difficile immaginare peggiori premesse e condizioni più sfavorevoli alla nascita di un capolavoro.
Eppure Pinocchio si è imposto all'attenzione universale, è stato tradotto in quasi tutte le lingue, continua dopo più di un secolo a provocare dotti commenti e disquisizioni sottili. C'è dunque una evidente e strana sproporzione tra le premesse e gli esiti, che incuriosisce e fa riflettere.
Qual è la ragione di tanta fortuna? La domanda non ha ancora trovato una risposta decisiva e convincente.
Innegabilmente il fascino del libro è dato anche dalla freschezza della lingua, asciutta, essenziale, ma sempre scintillante e briosa. Siamo conquistati tutti, piccoli e grandi, dall'originalità e dalla imprevedibilità della trama. Una fantasia inesauribile sorregge l'intera favola e avvince ineluttabilmente chi si pone in ascolto di questo straordinario narratore.
Ma sono spiegazioni che francamente non ci sembrano sufficienti. Quei pregi si ritrovano, magari in misura minore, in altri scritti collodiani che, fossero rimasti soli, non avrebbero assicurato al Lorenzini molta fama oltre gli ultimi decenni dell'Ottocento e di là da un ambito poco più che regionale. Se quelle pagine ancora ci interessano, è perché sono del padre di Pinocchio.
Tanto meno si può indicare tra le cause della riuscita "cosmica" del racconto il suo messaggio etico e il suo valore educativo.
C'è sì del moralismo facile e convenzionale ne Le avventure di Pinocchio. Ma è precisamente l'aspetto del libro che alla mia giovinezza l'aveva reso uggioso e insopportabile. Per fortuna - e me ne sono poi avveduto - è un moralismo alleggerito e superiormente riscattato dal distacco e dall'ironia dell'autore, il quale (è già stato notato) dimostra più simpatia per il suo sfaticato e trasgressivo protagonista che non per il Grillo parlante (il solo di tutta la storia che poteva forse aver letto I doveri di Giuseppe Mazzini).
C'è anche in quelle pagine, doverosamente, l'esaltazione del lavoro. Ma su questo argomento il Lorenzini si è sempre dimostrato allergico a ogni enfatizzazione e a ogni retorica. Proprio nel 1881 - anno di nascita dell'immortale burattino - a chi si congratulava con lui che aveva raggiunto il giorno bellissimo della pensione, rispondeva: "Potrà essere un bel giorno per chi ha sgobbato cento anni, ma per me, che non ho fatto nulla, è un giorno come tutti gli altri".
Si sente una certa condivisione e un'attitudine di simpatia nei confronti del suo accuratamente delineato "ragazzo di strada".
"L'uomo che lavora, dice il ragazzo di strada nella sua arguta ignoranza, non può essere fatto a immagine e somiglianza di Dio: perché Dio lavorò appena sette giorni e sono ormai seimila anni che riposa" (Collodi, Opere, Milano 1995, p. 181).
Penso che il Lorenzini si sarebbe meravigliato - e probabilmente anche divertito - nel sentirsi lodare come il cantore di quella religione del lavoro, "segno distintivo del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo stato italiano" (Spadolini, c.c., p. 387).
Egli del resto si è sempre compiaciuto di presentarsi non solo come uno scrittore ma anche come un lettore che non aveva propensioni pedagogiche prevalenti: “io chiamo belli i libri che mi piacciono, e se, oltre a piacermi, si provano anche a volermi istruire, chiudo un occhio e tiro via. All'opposto chiamo brutti i libri che mi annoiano...".
Come si può risolvere allora questa questione?
La mia ipotesi è che la forza intrinseca e l'attrazione nascosta di Pinocchio stanno nel fatto che vi si raffigura oggettivamente la realtà delle cose come è davanti agli occhi del Creatore, come è stata rivelata dal figlio di Dio, unico Salvatore e unico vero Maestro, come è da sempre offerta alle genti dalla predicazione ecclesiale.

"Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, una carisma profetico più alto della sua militanza politica. Così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo.
L'ortodossia, che non avrebbe potuto superare con le proprie vesti gli sbarramenti censori della dittatura culturale dell'epoca e della stessa coscienza esplicita dello scrittore, travestita da fiaba eruppe dal profondo dello spirito e risonò apertamente. In quella fiaba gli italiani di istinto riconobbero la loro canzone di sempre e gli uomini di tutti i paesi avvertirono inconsciamente la presenza cifrata di un messaggio universale" (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia, Milano 1998, pp. 16-17).

Legittimità e correttezza di una lettura teologica

È quasi un luogo comune che i massimi libri italiani per l'infanzia - Pinocchio appunto, e il Cuore di De Amicis - siano del tutto areligiosi: non vi compare mai il nome di Dio e meno che meno c'è in essi qualche traccia o qualche flebile eco del culto cristiano. Possiamo convenirne, anche se nessun collodiano degno di questo nome dovrebbe sentirsi lusingato dall'accostamento.
Non meraviglia perciò che un commento teologico a Le avventure di Pinocchio sia stato accolto, fuori dall'area cattolica, con poco entusiasmo e molta sufficienza, in alcuni casi con qualche fastidio e persino con indignazione.
Si è parlato di "libro parallelo", e dunque estrinseco, gratuito e arbitrariamente giustapposto a quello del Lorenzini: un'operazione illegittima di annessione di un autore assolutamente "laico" a una "parrocchia" che non era la sua. Insomma, un ennesimo caso di invadenza clericale.
Per la verità, mi ero dato premura di informare i miei eventuali lettori del carattere innocente e pacifico dei miei intendimenti: lungi da me il pensiero - dicevo - "di incolonnare dietro i santi stendardi uno spirito laico e libero come il Collodi" (G. Biffi, o.c., p. 222).
Con giovanile impertinenza avevo anzi dichiarato che il pensiero dell'autore non mi interessava affatto: mi bastava rendermi conto della stupefacente analogia - di più, della perfetta concordanza - tra la struttura oggettiva del racconto e la struttura oggettiva della visione di fede.
Confessavo di essere stato ammaliato e divertito dal "gioco del Padre che si compiace di caricare del suo messaggio le parole più disparate, anche quelle che a un primo esame sembrerebbero disadatte o lontane" (o.c. p. 223). Che se il Lorenzini fosse stato ateo - scrivevo - "il gioco mi sarebbe piaciuto anche di più, perché sarebbe apparso più scintillante l'umorismo di Dio" (ib).
Il problema è dunque uno solo: quello di appurare la fondatezza di quella "analogia" e di quella "concordanza" di cui si parlava. Il volume da me pubblicato non mira ad altro.
Non potendo qui infliggere l'esposizione analitica dell'intero suo contenuto, mi limiterò a indicare gli elementi più rilevanti e, a mio parere, meno contestabili.

  1. La prima corrispondenza che si impone riguarda la concezione della storia del mondo e dell'uomo. Nell'Orlando Furioso - cui Pinocchio è stato giustamente paragonato per la felice arbitrarietà degli accadimenti e l'indole quasi marionettistica dei personaggi - la vicenda non ha un inizio necessario né una fine obbligata: il poema potrebbe cominciare e concludersi in qualsivoglia punto, senza che l'economia generale dell'opera ne risulti alterata. È la visione del paganesimo greco: la storia è una interminabile tela di Penelope. Qui invece c'è un avvio (creazione e fuga dal creatore) che è la premessa indispensabile e il senso di tutto ciò che poi avviene: c'è lo sviluppo di un dramma in cui si determina la scelta tra due opposti destini (quello di Pinocchio e quello di Lucignolo); c'è una "escatologia" conclusiva (ritorno al Padre e trasnaturazione). Vale a dire, qui c'è esattamente la prospettiva cristiana.
  2. Pinocchio all'origine non è "generato", è "costruito": c'è dunque una eterogeneità di natura col "costruttore". Ma il "costruttore" lo chiama subito "figlio". Il Creatore misteriosamente vuol essere anche "padre", in questo modo viene immessa nella creatura l'aspirazione a oltrepassare l'alterità e a elevarsi ontologicamente. È la verità della "vocazione soprannaturale": colui che è stato fatto dal niente è destinato a partecipare nella vita di grazia alla natura divina
  3. La nostra libertà è una libertà ferita. Pinocchio in tutte le occasioni capisce sempre qual è la cosa giusta da fare e la vorrebbe, ma sceglie infallibilmente la cosa sbagliata. È l'incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia in virtù del solo libero arbitrio, come è denunciata da san Paolo: "Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Rm 7, 29).
  4. La drammaticità della nostra condizione è accresciuta per la presenza attiva di forze estranee che spingono al male. Esse sono raffigurate primariamente dal Gatto e la Volpe, ma raggiungono la migliore e più efficace rappresentazione nell'Omino, corruttore mellifluo che conduce i ragazzi al Paese dei Balocchi. Non c'è in tutta la letteratura della cristianità immagine del demonio più intelligentemente effigiata. Tenero in apparenza, perfido nella realtà, è il nostro insonne nemico: "Tutti la notte dormono, e io non dormo mai" (Pinocchio c. 1).
  5. L'ideologia illuministica aveva diffuso l'orgogliosa affermazione di una possibile "autoredenzione" dell'uomo. Ebbene, tutta la seconda parte di questo libro (dal capitolo 16 alla fine) parrebbe costruita proprio per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente svigorito, esteriormente insidiato da esseri maligni più astuti di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza nonostante la sincerità dei suoi sforzi, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo al padre, di riportarlo a casa, di dargli una nuova natura. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini manifesta appunto questa necessaria mediazione salvifica, che secondo la fede è svolta dal Figlio di Dio fatto uomo, il quale prolunga la sua azione nella storia per mezzo della Chiesa.

Non mi resta allora che rivendicare l'intemerata correttezza metodologica della mia lettura.
A darne una giusta valutazione, il pensiero personale del Lorenzini, le idee diffuse nella società in cui viveva, la cultura all'epoca dominante, non vanno chiamate in causa. Il nocciolo del problema si riduce ad accertare se ci sia o non ci sia questa sorprendente correlazione tra il racconto collodiano, come è in se stesso a prescindere dagli intenti dell'estensore, e la storia della salvezza, come è contenuta e proclamata nell'annuncio evangelico.
Né gli studiosi della vita e delle opere del Collodi né i critici letterari né gli indagatori del nostro Ottocento, propriamente parlando, hanno a questo proposito qualcosa da dire. Competente a giudicare se la struttura oggettiva di una narrazione sia o no conforme alla struttura oggettiva della verità rivelata è il teologo e, in ultima analisi, il magistero della Chiesa.
Senza dubbio, questo modo di accostarsi a Pinocchio abbastanza spregiudicato e divertito non è esente da un certo gusto di cantare fuori dal coro.
Ma proprio per questo - se non mi illudo - non è troppo lontano dallo stile e dall'estro del Collodi. Se è presunzione, posso ancora sperare nella misericordia del Signore e nella vostra.

Libro “laico” o libro “cattolico”?
Dall'Introduzione al Pinocchio illustrato da Mario Ceroli

Una parola che nelle pubblicazioni ricorre spesso a proposito di Pinocchio è l'aggettivo “laico”. È sembrata spesso a molti una qualifica ovvia e indiscutibile: quasi una specie di “dogma”.
Noi non abbiamo difficoltà “a priori” né obiezioni di principio che ci impediscano di ratificarla. E tuttavia riteniamo che anche in questo caso sia più utile non rinunciare a un attento esame e a una valutazione criticamente fondata.

I VARI SIGNIFICATI DI “LAICO”

“Laico” è vocabolo tipicamente ecclesiale. Nasce e tuttora sussiste entro la “societas christiana”: solo in tempi relativamente recenti è trasmigrato per altri lidi. A rischio di apparire pedanti e forse anche uggiosi, tentiamo una breve rassegna dei vari sensi che esso è andato via via assumendo.
Originariamente ed etimologicamente designa colui che, avendo ricevuto il battesimo, appartiene al “popolo di Dio” (in greco: “laòs”). In partenza, esprime dunque un concetto affermativo (che indica “appartenenza”) e di per sé conviene a tutti i cristiani.
Ben presto però il termine fu riservato a quei battezzati che non sono annoverabili né tra il clero né tra i monaci o comunque tra i religiosi. Assunse quindi una connotazione particolare e negativa (in quanto esprimeva una “non appartenenza”).
Da qualche secolo (e segnatamente in Italia) “laico” ha cominciato a denotare colui che si dichiara indipendente dall'autorità, dalla dottrina, dalle direttive della Chiesa, e intende sottrarsi alla sua influenza.
Può arrivare a configurare, nei casi estremi, un'attitudine decisamente anticlericale, antiecclesiale e perfino antireligiosa. Ma in questa ipotesi è più corretto e meno ambiguo parlare non di “laicità”, bensì di “laicismo”.
Infine si può definire “laico” chi, senza essere programmaticamente ostile, nel presentare le idee, i fatti, le persone evita ogni evocazione di natura teologica o cultuale.

L'ATTEGGIAMENTO DEL COLLODI

Come si poneva il Collodi nei confronti della religione e della Chiesa? Non mancano nei suoi scritti giornalistici - ed è ovvio - le punte polemiche contro il potere temporale del papa. C'è anche qualche osservazione contro il celibato ecclesiastico, ed è una cosa normale: è curioso che così spesso gli scapoli impenitenti vogliano a tutti costi far sposare i preti. Nel complesso però bisogna riconoscere che non emerge mai in lui un vero e proprio anticlericalismo e, meno che meno, una disistima per la fede cristiana.
“Non sono un miscredente - disse un giorno alla madre. - A Dio ci credo. Stia tranquilla che ci credo”.
Anche le pagine di Pinocchio confermano queste notizie. Se non ha ambizioni teologiche, né presenta preti e frati, il libro di Collodi non si mette nemmeno in opposizione religiosa, non trasuda quell'anticlericalismo che fa capolino continuamente in altri scrittori per l'infanzia del tempo. Quella del Lorenzini era una religiosità silenziosa, che stava fedele alla sublimità del Cristianesimo.

“LAICITÀ” DI PINOCCHIO

Si può allora parlare di una “laicità” di Pinocchio? Si può e si deve, se con ciò si intende sottolineare l'assenza nel libro di ogni elemento ecclesiastico e cultuale nonché di ogni esplicito riferimento alle tematiche religiose.
E non è certo una latitanza casuale: descrivere nell'Italia dell'Ottocento le borgate, il paesaggio, la vita associata, senza che nel racconto compaia mai nemmeno incidentalmente un campanile, un parroco, un rito, non poteva che essere il risultato di una intenzionalità. L'unico cenno di religiosità si trova - ripetuto alla lettera due volte - nel comportamento dei pescatori che assistono alla scomparsa in mare prima di Geppetto e poi del burattino: “Brontolando sottovoce una preghiera si mossero per tornare alle loro case” (cap. XXIII). Ma il particolare ha motivazioni puramente artistiche, per la concretezza della scena rappresentata.
A parte ciò, non c'è traccia di qualche estrinseca utilizzazione del “divino” o del “religioso”: del “surnaturel plaqué”, come dicevano un tempo i teologi francesi. In questo senso la “laicità” di Pinocchio è incontestabile.
Ma è una “laicità” analoga, per intenderci, a quella del racconto evangelico del “figlio prodigo”, dove (a differenza di quel che avviene in altre parabole di Gesù) non si ricordano né Abramo né Mosé né i profeti né i sacerdoti né il tempio. O alla “laicità” del Cantico dei Cantici, che pure ha nutrito la letteratura mistica di ogni tempo.

“CATTOLICITÀ” DI PINOCCHIO

Pinocchio è un libro “cattolico”? Se con questo termine si intende alludere alla letteratura edificante o apologetica o catechetica che così viene talvolta denominata, bisogna rispondere senza esitazione di no. Per altri due aspetti si può dare invece un giudizio positivo.
In primo luogo, se ci si rifa all'origine del nome: “cattolico” significa etimologicamente “secondo il tutto” (“kath'olon”). Si può quindi intendere con questo aggettivo una visione delle cose, una mentalità, una proposta di comportamento e di vita che rifugga per quanto è possibile da ogni parzialità e da ogni selezione arbitraria tra le “verità sostanziali”.
Pinocchio è “cattolico” perché in esso coesistono e reciprocamente si integrano e si equilibrano il realismo disincantato nel valutare le tristi situazioni di fatto che inevitabilmente si incontrano e la fiducia nella possibilità di raggiungere un destino di gioia; la consapevolezza della debolezza umana e la speranza di un aiuto decisivo dall'alto; il senso della giustizia e il primato della misericordia; il coraggio tanto di guardare in faccia al male quanto di credere nella vittoria finale del bene. E così via.
Ma in un senso ancora più rigoroso questo libro può essere considerato “cattolico”, ed è per la perfetta corrispondenza tra il racconto collodiano e la storia della salvezza come è proclamata nell'annuncio evangelico, tra la struttura della sua vicenda e la struttura intrinseca all'ortodossia, tra le “verità sostanziali” che esso propone e i caposaldi dell'insegnamento della Chiesa.

CONCLUSIONE

Gesù ha detto: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25). Queste cose: cioè i misteri del Regno di Dio, dell'uomo e del suo destino.

Proprio nel decennio in cui nascevano Le avventure di Pinocchio uomini straordinariamente dotti e perspicaci elaboravano e facevano conoscere le loro dottrine: Friedrich Nietzsche pubblicava le sue opere più importanti ed enunciava l'ideologia del “superuomo” e della “volontà di potenza”; uscivano i volumi di “Das Kapital” di Karl Marx; Sigmund Freud portava a termine il suo percorso accademico. In quegli anni venivano così poste dai “sapienti” e dagli “intelligenti” le premesse del mare di lacrime che nel secolo ventesimo avrebbe irrigato la terra.

All'opposto, in Carlo Lorenzini si è in modo singolare pienamente avverata un'altra parola profetica del Signore: “Se non diventere come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 18, 3). Il Collodi si è fatto piccolo coi piccoli, e in tal modo ha potuto diventare annunciatore del Regno, maestro di vita, seminatore di consolazione e di gioia.

Fonte http://www.gliscritti.it/

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