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“Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”

Cari fratelli e sorelle!

Nella bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia ho ricordato che “ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre” (Misericordiae Vultus, 3). L’amore di Dio, infatti, intende raggiungere tutti e ciascuno, trasformando coloro che accolgono l’abbraccio del Padre in altrettante braccia che si aprono e si stringono perché chiunque sappia di essere amato come figlio e si senta “a casa” nell’unica famiglia umana. In tal modo, la premura paterna di Dio è sollecita verso tutti, come fa il pastore con il gregge, ma è particolarmente sensibile alle necessità della pecora ferita, stanca o malata. Gesù Cristo ci ha parlato così del Padre, per dire che Egli si china sull’uomo piagato dalla miseria fisica o morale e, quanto più si aggravano le sue condizioni, tanto più si rivela l’efficacia della divina misericordia.

Nella nostra epoca, i flussi migratori sono in continuo aumento in ogni area del pianeta: profughi e persone in fuga dalle loro patrie interpellano i singoli e le collettività, sfidando il tradizionale modo di vivere e, talvolta, sconvolgendo l’orizzonte culturale e sociale con cui vengono a confronto. Sempre più spesso le vittime della violenza e della povertà, abbandonando le loro terre d’origine, subiscono l’oltraggio dei trafficanti di persone umane nel viaggio verso il sogno di un futuro migliore. Se, poi, sopravvivono agli abusi e alle avversità, devono fare i conti con realtà dove si annidano sospetti e paure. Non di rado, infine, incontrano la carenza di normative chiare e praticabili, che regolino l’accoglienza e prevedano itinerari di integrazione a breve e a lungo termine, con attenzione ai diritti e ai doveri di tutti. Più che in tempi passati, oggi il Vangelo della misericordia scuote le coscienze, impedisce che ci si abitui alla sofferenza dell’altro e indica vie di risposta che si radicano nelle virtù teologali della fede, della speranza e della carità, declinandosi nelle opere di misericordia spirituale e corporale.

Sulla base di questa constatazione ho voluto che la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2016 fosse dedicata al tema: “Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”. I flussi migratori sono ormai una realtà strutturale e la prima questione che si impone riguarda il superamento della fase di emergenza per dare spazio a programmi che tengano conto delle cause delle migrazioni, dei cambiamenti che si producono e delle conseguenze che imprimono volti nuovi alle società e ai popoli. Ogni giorno, però, le storie drammatiche di milioni di uomini e donne interpellano la Comunità internazionale, di fronte all’insorgere di inaccettabili crisi umanitarie in molte zone del mondo. L’indifferenza e il silenzio aprono la strada alla complicità quando assistiamo come spettatori alle morti per soffocamento, stenti, violenze e naufragi. Di grandi o piccole dimensioni, sono sempre tragedie quando si perde anche una sola vita umana.

I migranti sono nostri fratelli e sorelle che cercano una vita migliore lontano dalla povertà, dalla fame, dallo sfruttamento e dall’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, che equamente dovrebbero essere divise tra tutti. Non è forse desiderio di ciascuno quello di migliorare le proprie condizioni di vita e ottenere un onesto e legittimo benessere da condividere con i propri cari?

In questo momento della storia dell’umanità, fortemente segnato dalle migrazioni, quella dell’identità non è una questione di secondaria importanza. Chi emigra, infatti, è costretto a modificare taluni aspetti che definiscono la propria persona e, anche se non lo vuole, forza al cambiamento anche chi lo accoglie. Come vivere queste mutazioni, affinché non diventino ostacolo all’autentico sviluppo, ma siano opportunità per un’autentica crescita umana, sociale e spirituale, rispettando e promuovendo quei valori che rendono l’uomo sempre più uomo nel giusto rapporto con Dio, con gli altri e con il creato?

Di fatto, la presenza dei migranti e dei rifugiati interpella seriamente le diverse società che li accolgono. Esse devono far fronte a fatti nuovi che possono rivelarsi improvvidi se non sono adeguatamente motivati, gestiti e regolati. Come fare in modo che l’integrazione diventi vicendevole arricchimento, apra positivi percorsi alle comunità e prevenga il rischio della discriminazione, del razzismo, del nazionalismo estremo o della xenofobia?

La rivelazione biblica incoraggia l’accoglienza dello straniero, motivandola con la certezza che così facendo si aprono le porte a Dio e nel volto dell’altro si manifestano i tratti di Gesù Cristo. Molte istituzioni, associazioni, movimenti, gruppi impegnati, organismi diocesani, nazionali e internazionali sperimentano lo stupore e la gioia della festa dell’incontro, dello scambio e della solidarietà. Essi hanno riconosciuto la voce di Gesù Cristo: «Ecco, sto alla porta e busso» (Ap 3,20). Eppure non cessano di moltiplicarsi anche i dibattiti sulle condizioni e sui limiti da porre all’accoglienza, non solo nelle politiche degli Stati, ma anche in alcune comunità parrocchiali che vedono minacciata la tranquillità tradizionale.

Di fronte a tali questioni, come può agire la Chiesa se non ispirandosi all’esempio e alle parole di Gesù Cristo? La risposta del Vangelo è la misericordia.

In primo luogo, essa è dono di Dio Padre rivelato nel Figlio: la misericordia ricevuta da Dio, infatti, suscita sentimenti di gioiosa gratitudine per la speranza che ci ha aperto il mistero della redenzione nel sangue di Cristo. Essa, poi, alimenta e irrobustisce la solidarietà verso il prossimo come esigenza di risposta all’amore gratuito di Dio, «che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Del resto, ognuno di noi è responsabile del suo vicino: siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle, ovunque essi vivano. La cura di buoni contatti personali e la capacità di superare pregiudizi e paure sono ingredienti essenziali per coltivare la cultura dell’incontro, dove si è disposti non solo a dare, ma anche a ricevere dagli altri. L’ospitalità, infatti, vive del dare e del ricevere.

In questa prospettiva, è importante guardare ai migranti non soltanto in base alla loro condizione di regolarità o di irregolarità, ma soprattutto come persone che, tutelate nella loro dignità, possono contribuire al benessere e al progresso di tutti, in particolar modo quando assumono responsabilmente dei doveri nei confronti di chi li accoglie, rispettando con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che li ospita, obbedendo alle sue leggi e contribuendo ai suoi oneri. Comunque non si possono ridurre le migrazioni alla dimensione politica e normativa, ai risvolti economici e alla mera compresenza di culture differenti sul medesimo territorio. Questi aspetti sono complementari alla difesa e alla promozione della persona umana, alla cultura dell’incontro dei popoli e dell’unità, dove il Vangelo della misericordia ispira e incoraggia itinerari che rinnovano e trasformano l’intera umanità.

La Chiesa affianca tutti coloro che si sforzano per difendere il diritto di ciascuno a vivere con dignità, anzitutto esercitando il diritto a non emigrare per contribuire allo sviluppo del Paese d’origine. Questo processo dovrebbe includere, nel suo primo livello, la necessità di aiutare i Paesi da cui partono migranti e profughi. Così si conferma che la solidarietà, la cooperazione, l’interdipendenza internazionale e l’equa distribuzione dei beni della terra sono elementi fondamentali per operare in profondità e con incisività soprattutto nelle aree di partenza dei flussi migratori, affinché cessino quegli scompensi che inducono le persone, in forma individuale o collettiva, ad abbandonare il proprio ambiente naturale e culturale. In ogni caso, è necessario scongiurare, possibilmente già sul nascere, le fughe dei profughi e gli esodi dettati dalla povertà, dalla violenza e dalle persecuzioni.

Su questo è indispensabile che l’opinione pubblica sia informata in modo corretto, anche per prevenire ingiustificate paure e speculazioni sulla pelle dei migranti.

Nessuno può fingere di non sentirsi interpellato dalle nuove forme di schiavitù gestite da organizzazioni criminali che vendono e comprano uomini, donne e bambini come lavoratori forzati nell’edilizia, nell’agricoltura, nella pesca o in altri ambiti di mercato. Quanti minori sono tutt’oggi costretti ad arruolarsi nelle milizie che li trasformano in bambini soldato! Quante persone sono vittime del traffico d’organi, della mendicità forzata e dello sfruttamento sessuale! Da questi aberranti crimini fuggono i profughi del nostro tempo, che interpellano la Chiesa e la comunità umana affinché anch’essi, nella mano tesa di chi li accoglie, possano vedere il volto del Signore «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2 Cor 1,3).

Cari fratelli e sorelle migranti e rifugiati! Alla radice del Vangelo della misericordia l’incontro e l’accoglienza dell’altro si intrecciano con l’incontro e l’accoglienza di Dio: accogliere l’altro è accogliere Dio in persona! Non lasciatevi rubare la speranza e la gioia di vivere che scaturiscono dall’esperienza della misericordia di Dio, che si manifesta nelle persone che incontrate lungo i vostri sentieri! Vi affido alla Vergine Maria, Madre dei migranti e dei rifugiati, e a san Giuseppe, che hanno vissuto l’amarezza dell’emigrazione in Egitto. Alla loro intercessione affido anche coloro che dedicano energie, tempo e risorse alla cura, sia pastorale che sociale, delle migrazioni. Su tutti imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 12 settembre 2015

Memoria del Santissimo Nome di Maria

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Introduzione Teologico-Pastorale

Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio
(cfr 1 Pietro 2, 9)

Il fonte battesimale più antico che si trova in Lettonia risale al tempo di san Meinardo, il grande missionario evangelizzatore di questa nazione. Originariamente era situato nella cattedrale di Ikšķile, oggi si trova nella Cattedrale luterana di Riga, la capitale del Paese. La posizione del fonte battesimale, così vicina all’adornato pulpito della cattedrale, esprime chiaramente sia la relazione fra il Battesimo e l’annuncio, che la chiamata, comune a tutti i battezzati, di “annunziare le opere meravigliose” del Signore. Questo appello costituisce il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani del 2016. Ispirati dal brano dellaPrima Lettera di Pietro, i membri delle varie chiese cristiane lettoni hanno preparato i testi per la Settimana.

L’evidenza archeologica suggerisce che il cristianesimo sia stato introdotto nella Lettonia orientale nel X secolo dai missionari bizantini. La maggior parte dei documenti, tuttavia, fa risalire  le origini cristiane della Lettonia al XII e XIII secolo, grazie all’opera missionaria di San Meinardo e, successivamente, di altri missionari germanici. La capitale, Riga, fu una delle prime città ad adottare le idee di Lutero nel XVI secolo. Nel XVIII secolo missionari Moravi (Herrnhut Brethern) diedero nuovo impulso e approfondirono la fede cristiana nei secoli. I loro discendenti avrebbero avuto un ruolo di primo piano nel porre le fondamenta dell’indipendenza nazionale nel 1918.

Il passato, con i suoi periodi di conflitto e di sofferenza, ha avuto conseguenze visibili nella vita della Lettonia di oggi. È una triste circostanza che l’uso della forza ad opera di alcuni dei primi missionari e dei crociati diedero una contro-testimonianza al messaggio del Vangelo. Nel corso dei secoli, la terra di Lettonia è stata teatro di scontri religiosi e politici ad opera di vari poteri nazionali e confessionali. L’avvicendarsi dei poteri politici in diverse parti del Paese ha spesso avuto la conseguenza di un cambiamento dell’appartenenza confessionale delle persone. Oggi, la Lettonia è un crocevia dove si intersecano regioni cattoliche, protestanti e ortodosse.

La Lettonia è esistita come stato dal 1918 fino al 1940 nella scia della Prima Guerra mondiale e della caduta degli impero russo e germanico. La Seconda Guerra mondiale e le decadi che si sono succedute, con le ideologie totalitarie atee – il Nazismo e il Comunismo – hanno portato devastazione alla terra e alla popolazione della Lettonia, fino alla caduta dell’Unione Sovietica nel 1991. In quegli anni i cristiani sono stati uniti in una comune testimonianza al Vangelo – anche fino al martirio.

Il Bishop Sloskans’ Museum in Lettonia raccoglie questa comune testimonianza custodendo un elenco di cristiani martirizzati, appartenenti alle Chiese ortodosse, luterane, battiste e cattoliche. I cristiani scoprirono la loro comune partecipazione al “popolo regale di sacerdoti” di cui parla l’apostolo Pietro, anche attraverso torture prolungate, esilio e morte a causa della loro fede in Gesù Cristo. Questo legame nella sofferenza ha creato una profonda comunione fra i cristiani di Lettonia, mediante la quale hanno riscoperto il loro sacerdozio battesimale, e in esso poterono offrire le loro sofferenze in unione con le sofferenze di Gesù, per il bene del prossimo.

L’esperienza di pregare e cantare insieme – incluso l’Inno nazionale Dio benedica la Lettonia –, ebbe un’importanza notevole nella riconquista dell’indipendenza della Lettonia nel 1991. Ferventi preghiere per la libertà furono elevate in molte chiese in tutta la città. Uniti nel canto e nella preghiera, cittadini indifesi costruirono barricate nelle strade della Lettonia e rimasero fianco a fianco in sprezzo dei carri armati sovietici.

L’oscurità dei totalitarismi del XX secolo, tuttavia, ha reso molte persone indifferenti alla verità su Dio Padre, sulla Sua rivelazione in Gesù Cristo e sulla potenza vivificatrice dello Spirito Santo. Ma il periodo post-sovietico è stato un periodo di rinnovamento per le chiese. Molti cristiani oggi si riuniscono per pregare in piccoli gruppi e durante celebrazioni ecumeniche. Consapevoli che la luce e la grazia di Cristo non hanno ancora pervaso e trasformato tutte le persone in Lettonia, i cristiani vogliono lavorare e pregare insieme affinché le ferite storiche, etniche, ideologiche che ancora deturpano la società possano essere guarite.

La chiamata ad essere “popolo di Dio”

L’apostolo Pietro si rivolge ai cristiani dicendo che, nella loro ricerca di senso prima del loro incontro con il Vangelo, essi non erano un popolo. Ma, attraverso la chiamata ad essere il “popolo che Dio ha acquistato per sé”, hanno ricevuto la potenza della salvezza di Dio in Cristo Gesù, sono diventati il “popolo di Dio”. Questa realtà è espressa nel Battesimo, comune a tutti i cristiani, nel quale siamo rinati dall’acqua e dallo Spirito (cfr. Gv 3, 5). Nel Battesimo moriamo al peccato per risorgere con Cristo ad una nuova vita di grazia in Dio. Rimanere in questa nuova identità in Cristo è una sfida permanente e quotidiana.

  • Come comprendiamo la nostra comune chiamata ad essere “popolo di Dio”?
  • Come esprimiamo la nostra identità battesimale come “popolo regale di sacerdoti”?

In ascolto delle “opere meravigliose” di Dio

Il Battesimo ci apre ad un nuovo emozionante cammino di fede che unisce ogni nuovo cristiano con il popolo di Dio attraverso tutte le epoche. La parola di Dio – le Scritture su cui cristiani di tutte le tradizioni pregano, studiano e riflettono – è il fondamento della reale, seppure incompleta comunione. Nei testi della Bibbia che abbiamo in comune, ascoltiamo gli atti salvifici di Dio nella storia della salvezza, come la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, ela grande opera meravigliosa di Dio: la resurrezione di Gesù dai morti, che ha dato accesso a tutti noi alla nuova vita; oltre a ciò, la lettura della Bibbia, in atteggiamento di preghiera, porta i cristiani a riconoscere le opere meravigliose di Dio anche nella loro vita.

  • In quale modo ci accorgiamo e rispondiamo alle “opere meravigliose di Dio” nel culto e nella preghiera, nell’azione in favore della giustizia e della pace?
  • In quale modo valorizziamo la Scrittura quale Parola che dà vita, che ci chiama ad una maggiore unità e ad una più grande missione?

Responso e annuncio

Dio ci ha scelti non come un privilegio: ci ha resi santi non nel senso che i cristiani sono più virtuosi degli altri; ci ha scelti per raggiungere uno scopo. Siamo santi solo nella misura in cui siamo impegnati nel servizio a Dio, che è sempre quello di portare il suo amore a tutte le persone. Essere un popolo di sacerdotale significa essere al servizio del mondo. I cristiani vivono la loro chiamata battesimale e rendono testimonianza alle opere meravigliose di Dioin molti modi:

Sanando le ferite: le guerre, i conflitti e gli abusi hanno ferito la vita del popolo lettone, e di molti altri paesi, a livello emotivo e relazionale. La grazia di Dio ci aiuta a chiedere perdono per gli ostacoli che impediscono la riconciliazione e la guarigione, a ricevere misericordia, e a crescere nella santità.

Ricercando la verità e l’unità: la consapevolezza della nostra comune identità in Cristo ci chiama ad adoperarci per rispondere alle questioni che ancora dividono i cristiani. Siamo chiamati, come i discepoli sulla strada di Emmaus, a condividere le nostre esperienze e a scoprire così che, nel nostro comune pellegrinaggio, Gesù Cristo è in mezzo a noi.

Impegnandosi attivamente per promuovere la dignità umana: i cristiani, che sono stati condotti “fuori dalle tenebre” verso la “luce meravigliosa” del Regno, riconoscono la straordinaria dignità di ogni vita umana. Attraverso progetti comuni di servizio sociale e caritativo, siamo inviati a raggiungere i poveri, i bisognosi, le persone affette da dipendenze e gli emarginati.

  • Considerando il nostro impegno per l’unità dei cristiani, di che cosa dovremmo chiedere perdono?
  • Conoscendo la misericordia di Dio, come ci adoperiamo per progettI sociali e caritatevoli con altri cristiani?

Presentazione del materiale

La celebrazione ecumenica usa dei simboli: una Bibbia, una candela illuminata, e il sale per esprimere visivamente le “opere meravigliose” che, come cristiani battezzati, siamo chiamati ad annunciare al mondo. Sia la luce che il sale sono immagini che Gesù usa nel suo Discorso della Montagna (cfr. Mt 5, 13-16). Queste immagini descrivono la nostra identità cristiana: “Siete voi il sale… Siete voi la luce” e descrivono la nostra missione: “sale del mondo… luce del mondo”.

Il sale e la luce sono immagini di ciò che i cristiani devono dare agli uomini e alla donne nel nostro tempo: noi attingiamo ad una parola di Dio che dà sapore alla vita spesso senza significato e vuota; e noi attingiamo a una parola che guida e aiuta le persone a vedere e comprendere se stesse nel mondo.

È stato chiesto a rappresentanti di vari progetti ecumenici in Lettonia di riflettere su un tema specifico richiesto e di portare la loro esperienza di lavoro insieme. Le loro riflessioni costituiscono la base del materiale offerto per ciascuno degli Otto giorni della Settimana di preghiera.

 

 

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“E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”. ( Lc.2,41-52)                                 

Oggi siamo invitati a guardare la sacra Famiglia di Nazareth, dove albergò il cuore di Dio. In essa crebbe Gesù “in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini”.

Perciò la festa odierna della Santa Famiglia, è una degna celebrazione della “famiglia cristiana”, perché ci presenta il mistero della vita di Gesù Bambino con i suoi Genitori, come un prolungamento della celebrazione natalizia. Osserviamo la Santa Famiglia di Nazareth. Gesù dopo di aver santificato la nostra “natura umana” facendosi uomo come noi, a Natale, con la festa odierna della Santa Famiglia, Gesù viene a santificare anche la nostra “famiglia umana”, come membro eletto, obbedendo con sottomissione ai suoi, per 30 anni. Così Natale è festa dell’”Amore di Dio”, e la Santa Famiglia è la festa di tutti i “membri della famiglia umana”.

/ Il Vangelo odierno di S. Luca, è uno dei brani più difficili da interpretare, e ci narra l’unico episodio dell’adolescenza di Gesù: cioè la “sua salita a Gerusalemmecon i suoi Genitori, in occasione della festa di Pasqua, quando giunse all’età di 12 anni (per un Ebreo,12 anni, è l’età religiosa in cui si è “maggiorenni”(Deut. 16,16), e inoltre la “sua sosta e il suo ritrovamento nel Tempio”, all’insaputa dei suoi.

E’ ovvio che la narrazione non è una semplice descrizione di cronaca del fatto in questione: la narrazione è letta alla luce degli “eventi pasquali”. Se non si tiene presente questa prospettiva pasquale, la lettura autentica dell’episodio riesce incomprensibile. 

> Ogni ebreo, compiuti i 12 anni, aveva l’obbligo di recarsi al Tempio di Gerusalemme per celebrarvi la Pasqua ebraica istituita da Mosè, per ricordare la liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù d’Egitto. In questa circostanza si offre al Tempio il sangue di un agnello scannato. Poi, arrostito l’agnello al fuoco, lo mangiano con erbe amare e con pane non lievitato in ricordo della fretta nell’uscire dall’Egitto. Ora la S. Famiglia non ometteva mai questo pellegrinaggio, anche se risiedevano a Nazareth(140 Km. da Gerusalemme), e non si permettevano alcuna dispensa per il lungo viaggio. Pertanto nella Città santa, tutto procede bene fino al momento del ritorno, otto giorni dopo l’arrivo. Approfittando della calca del giorno di partenza, il ragazzo Gesù si sottrae deliberatamente alla vigilanza dei suoi per restare a Gerusalemme. Fino alla sera della prima tappa, Maria e Giuseppe credono che Gesù, nel cammino, si sia unito al gruppo dei parenti e conoscenti, e si accorgono dopo un giorno che Gesù non è ritornato con loro. Ritornano con angoscia a Gerusalemme e soltanto al terzo giorno della separazione, lo trovano nelle adiacenze del Tempio, seduto tra i maestri in scienze religiose. Ritrovato Gesù nel Tempio, Maria rivela il suo stato d’animo, il suo amore materno, la sua vivissima sensibilità per la perdita del figlio diletto, e la sua grande delicatezza che la induce a far presente l’angoscia di Giuseppe prima che la propria.

/ Da notare che Maria gli ha appena parlato di suo padre Giuseppe, mentre Gesù parla del Padre suo celeste e di tutto ciò che lo lega a Lui. Prende perciò le distanze dai suoi Genitori e si dichiara al servizio di suo Padre. La risposta misteriosa  e il linguaggio di Gesù trova impreparati Maria e Giuseppe nel capirlo! “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio”? La volontà di Dio Padre è rivelata per la prima volta da Gesù dodicenne, come superiore a tutti i rapporti umani. L’adolescente Gesù incomincia ad acquistare una certa “indipendenza” in rapporto alla famiglia. Contemporaneamente assume le sue “responsabilità” davanti a Dio. Pertanto questa autonomia sconvolge i piani dei suoi Genitori. Nel Tempio, a 12 anni, il giovane Gesù vivrà anticipatamente il proprio destino pasquale. Maria, che con “angoscia” ha cercato per “3 giorni” il Figlio, ritroverà la sua “angoscia” e il suo dolore durante ancora i “3 giorni”della Passione del Figlio. La scomparsa e il ritrovamento di Gesù rievoca la sua morte e risurrezione.

/ Le vie di Dio non sono le nostre. La risposta di Gesù a sua Madre non si richiama a sentimenti umani, ma alla fedeltà al disegno del Padre su di Lui. Egli deve compiere la volontà del Padre, e questo “deve” guiderà tutta la sua vita. Per Gesù la sottomissione giunge fino alla morte; ma, siccome Dio è suo Padre, si tratterà di un’ubbidienza filiale, compiuta in un fiducioso abbandono.  Questa sua volontà lo condurrà alla passione, morte e risurrezione, per farlo poi passare dopo 3 giorni, nella gloria, cioè nella casa del Padre. Pertanto la descrizione del primo viaggio di Gesù a Gerusalemme, è presentato da Luca nella luce della Pasqua. Tutta la vita di Gesù è una continua ricerca del Padre, uno “stare” nella sua casa, e se è vero che la volontà del Padre è l’anima di tutto il comportamento di Gesù, (“mio cibo è fare la volontà del Padre mio”, dirà Gesù stesso(Gv.4,34), e “se uno fa la volontà di Dio, è mio fratello, mia sorella e mia madre”( Mc.3,35), questo atteggiamento di totale adesione e consacrazione alla volontà del Padre, trova il suo ufficiale inizio nella scena del Tempio di Gerusalemme.

/ Da notare ancora che nel Vangelo di Luca, la prima parola pronunciata da Gesù ( qui nel Tempio) e l’ultima sulla croce, sarà proprio “Padre”.  Così Gesù ci insegna che l’uomo deve assegnare a Dio il primo posto nella sua vita. Ma Maria e Giuseppe non potevano allora comprendere la risposta di Gesù: tuttavia Mariaserbava tutte queste cose nel suo cuore”. Il mistero del Figlio si rivelerà gradatamente a Maria; la sua angoscia prefigura la sofferenza al Calvario e dei 3 giorni della sepoltura di Gesù, e Maria appare in questo un vero modello di Madre.

> Poi Gesù ritorna a Nazareth, in famiglia, e per 18 anni vive la normale condizione umana senza colpi di scena. Cosa fa durante quegli anni, di cui non sappiamo nulla?.. Assimilato in tutto ai suoi contemporanei, egli cresce, prega, lavora e serve gli uomini, prima di darci, poi, la sua Parola.

/ La S. Famiglia non era una famiglia “senza problemi”. Maria e Giuseppe hanno voluto condividere la condizione di quel Figlio sconcertante, seguendolo passo passo nella rivelazione del suo mistero. Lo “vedono” con gli occhi del corpo, ma non lo “comprendono” se non con gli occhi della fede. Ed è proprio per questa loro disponibilità totale che meritano tutta la nostra ammirazione. Osserviamo, intanto, i diversi loro ruoli nella S. Famiglia:

Il ruolo di Gesù: appare già come il Salvatore che deve compiere il disegno del Padre celeste.

Il ruolo di Maria: la Madre non capisce tutto, ma china la fronte e si adegua al volere di Dio.

Il ruolo di Giuseppe: rimane un po’ in ombra, come spettatore pensoso, meravigliato di ciò che

                                      sta accadendo in quel Figlio “non suo”..

/ Ora dal rispetto di questi diversi ruoli, nasce l’armonia della Famiglia di Nazareth, una meravigliosa sinfonia d’amore. Ed è proprio quello che spesso oggi “non accade”nelle nostre famiglie!  Il punto mancante è la sana educazione e la pietà. La Televisione diventa la balia e la “mamma” alla quale si affidano i bambini per ore e ore. Anni fa il ruolo maggiore dell’educazione veniva svolto dalla famiglia, al 75%. Oggi al contrario, circa il 75% dell’influenza sull’educazione dei figli è affidato e svolto dai mass media.. e il restante 25% da: famiglia, chiesa e scuola messi insieme.. E’ un dato spaventoso su cui dovremmo riflettere!..Nella Famiglia di Nazareth i loro ruoli  erano perfettamente rispettati e accettati anche nei momenti difficili. Non si dica che a Nazareth era più facile fare famiglia!. Avere un Figlio di Dio come “figlio”, non è una cosa facile. Per Giuseppe, fare il custode di un figlio che non è suo, non è una cosa facile. Ma docili al disegno di Dio, Gesù, Maria e Giuseppe hanno realizzato perfettamente il loro ruolo creando la piena comunione.

> A riguardo dei figli poi, diciamo che il bambino non viene al mondo naturalmente buono, perché tutti noi veniamo al mondo feriti dal peccato, inclini all’egoismo e a ogni sorta di male, di qui la necessità di non trascurare la sana educazione. Perciò occorre educare i figli, aiutarli a formarsi un carattere, dialogare con i propri figli, stare con essi, ascoltarli. Il nemico numero uno del dialogo non è la severità, ma l’ira. A volte il dialogo esige anche chiedere scusa per gli sbagli. Questo educa all’onestà, alla stima reciproca. Quando non si riesce più a “parlare al proprio figlio di Dio”, resta ancora una possibilità: “parlare a Dio del proprio figlio”, affidarlo al Signore, così come è..

/ La grande consolazione dei genitori è fare come fecero Maria e Giuseppe nei riguardi di Gesù, farli crescere “in età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini,” fino alla piena maturità.

 

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Ho visto per l'ultima volta Jacques Le Goff qualche giorno prima che morisse. Ero andato a trovarlo a casa sua, al quinto piano di un palazzo nella zona nord di Parigi. Nel suo studio tappezzato di libri, davanti alla scrivania sepolta da una montagna di carte - "uno dei miei difetti è il disordine", ripeteva spesso - abbiamo iniziato a parlare di San Francesco e di Papa Bergoglio, confrontando la figura del santo medievale con quella del papa contemporaneo.

Affaticato, ma come sempre lucido e rigoroso, Le Goff mi ha raccontato come era nato il suo interesse per l'autore del Cantico delle creature , a cui ha poi dedicato il saggio San Francesco d'Assisi ( Laterza). E mi ha spiegato la sua curiosità nei confronti del nuovo Papa, nella cui azione vedeva diversi elementi di continuità con il santo. Mentre ascoltavo i suoi ricordi e le sue riflessioni, non immaginavo che una settimana dopo lo storico francese si sarebbe spento in un ospedale parigino. Quella che segue è una parte della nostra ultima conversazione.

Come mai si è occupato di San Francesco?
"È un interesse che coltivo da anni, dalla prima volta che vidi Assisi nel dopoguerra. Ero un giovane storico attratto dall'Italia, un paese in cui ero già stato diverse volte, anche perché la famiglia di mia madre veniva dalla zona d'Imperia".

Cosa la colpì di Assisi?
"Innanzitutto la topografia dei luoghi. Per me il legame tra la storia e la geografia è sempre stato essenziale, e ad Assisi la vicenda sociale e spirituale di Francesco si esprimeva geograficamente. Da un lato, la collina con la città che rappresentava la vita commerciale e politica del tempo. In seguito, la solitudine e la lontananza dell'eremo delle Carceri, simbolo della nuova forma di solitudine monastica proposta dal francescanesimo. Infine, la natura che circonda la chiesa di San Damiano, il luogo della nuova ecologia spirituale di San Francesco. Insomma, di fronte a quei luoghi, mi sembrò di vedere un'incarnazione particolarmente evidente di un movimento storico ".

Qual era il suo rapporto con la religione?
"Ho iniziato a interessarmi al francescanesimo nel momento in mi allontanavo definitivamente dalla religione cattolica. Da giovane avevo ricevuto un'educazione religiosa. Mia madre, secondo la tradizione italiana, era molto cattolica e devota. Mio padre invece era un figlio dell'"affaire Dreyfus", quindi laico e anticlericale. Nonostante tale differenza, i miei genitori furono molto uniti e la religione non fu mai un soggetto di disputa".

La sua formazione è il risultato di queste due tradizioni?
"Sì, anche se durante la giovinezza prevalse l'influenza di mia madre. In seguito però mi sono progressivamente allontanato dalla fede. Quando arrivai ad Assisi, guardai a San Francesco con gli occhi dello storico e non del credente. M'interessavano soprattutto le sue azioni e le sue scelte più che quello che poteva rappresentare sul piano religioso". 

Per lei qual è l'aspetto centrale della figura di San Francesco?
"La modernità. Di fronte alla nuova società in mutazione egli individua chiaramente il problema della ricchezza e delle disuguaglianze. Tale consapevolezza lo spinge a prendersi cura della povertà. D'altra parte, se l'attuale papa ha scelto il suo nome per la prima volta nella storia della chiesa, è proprio per via di tale modernità, nel cui solco egli s'inscrive. E se c'è un elemento comune a San Francesco e a Papa Bergoglio, è proprio la lotta contro il denaro e la difesa dei poveri"

Due epoche diverse, ma una stessa preoccupazione?
"Nel XIII secolo, per soddisfare i bisogni dell'economia e in particolare del commercio, l'uso del denaro diventa sempre più importante. Questa evoluzione produce però alcuni eccessi contro cui si batte San Francesco. Anche oggi assistiamo a una revisione degli atteggiamenti nei confronti del denaro, solo che non si tratta più di una reazione a una novità, come nel XIII secolo, ma di una reazione a una crisi, quella che ha travolto l'economia all'inizio del XXI secolo. Papa Francesco è il papa della crisi. Probabilmente una parte dei cardinali che l'hanno eletto hanno visto in lui l'uomo capace di aiutare la Chiesa e la società a superare questa fase del mondo capitalista".

La critica della ricchezza è accompagnata dal bisogno di nuove forme di spiritualità da contrapporre al materialismo figlio del denaro?
"Certamente. Nel XIII secolo ciò è particolarmente evidente. San Francesco predica la necessità del ritorno al Vangelo, al cui interno si trovano le basi per combattere gli eccessi della ricchezza. Basti pensare alla celebre frase: "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli". La spiritualità contemporanea è meno facile da decifrare. Oggi, accanto al fascino del denaro sempre molto forte, si manifesta un sospetto crescente nei confronti della ricchezza e delle sue manifestazioni. Da qui una domanda di spiritualità che però forse non ha più molto a che vedere con la spiritualità cristiana. In ogni caso, la modernità di Papa Francesco, come quella del santo d'Assisi, nasce dalla volontà di lottare contro la materializzazione della società, dello spirito e delle religioni, riprendendo contemporaneamente la tradizione dei Vangeli per rimetterla al centro della riflessione e della pratica del mondo cattolico".

Il Vangelo delle origini in opposizione ai padri della Chiesa?
"In parte è così. Ma va anche segnalato che, contrariamente a tutte le eresie emerse tra il XII e XIII secolo, Francesco è rimasto all'interno della Chiesa perché provava il bisogno dei sacramenti. Proprio perché si tratta di una modernizzazione che è anche un ritorno alle origini, in lui c'è una volontà di rinnovamento senza però rompere con le istituzioni. Come mi sembra stia facendo il nuovo Pontefice".

Quale altro aspetto della modernità di San Francesco le sembra particolarmente importante?
"La tematica dell'ecologia mi sembra che possa parlare in maniera significativa al nostro tempo. L'ecologia implica un bisogno di spiritualità non necessariamente legata a una religione. Può quindi essere condivisa da tutti". 

Quali sono le caratteristiche della preoccupazione ecologista di San Francesco?
"Se guardiamo come si esprime il santo d'Assisi e come costruisce il francescanesimo, notiamo che egli prende le distanze dal più grande movimento sociale del suo tempo, vale a dire lo sviluppo delle città. Ad essa San Francesco contrappone la natura e la strada, visto che promuove la predicazione "in via". Inoltre, se c'è un'opera letteraria che possiamo considerare ecologista è proprio Il cantico delle creature . La preoccupazione nei confronti della natura è un tratto importante della sua predicazione, anche se per ora mi sembra che Papa Francesco non lo abbia particolarmente sottolineato. Forse perché è una tematica meno sentita in quel mondo dell'America latina da cui proviene".La Repubblica

 

Fonte: www.sanfrancescopatronoditalia.it

Credits Ansa

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Udienza ai partecipanti al Convegno promosso dalla Congregazione per il Clero in occasione del 50.mo anniversario dei Decreti Conciliari “Optatam totius” e “Presbyterorum ordinis”

 

Signori Cardinali,

cari fratelli Vescovi e sacerdoti,

fratelli e sorelle,

rivolgo a ciascuno un cordiale saluto ed esprimo un sincero ringraziamento a Lei, Cardinale Stella, e alla Congregazione per il Clero, che mi hanno invitato a partecipare a questo Convegno, a cinquant’anni dalla promulgazione dei Decreti conciliari Optatam totius e Presbyterorum ordinis.

Mi scuso di aver cambiato il primo progetto, che era che venissi io da voi, ma avete visto che il tempo non c’era e anche qui sono arrivato in ritardo!

Non si tratta di una “rievocazione storica”. Questi due Decreti sono un seme, che il Concilio ha gettato nel campo della vita della Chiesa; nel corso di questi cinque decenni essi sono cresciuti, sono diventati una pianta rigogliosa, certamente con qualche foglia secca, ma soprattutto con tanti fiori e frutti che abbelliscono la Chiesa di oggi. Ripercorrendo il cammino compiuto, questo Convegno ha mostrato tali frutti e ha costituito una opportuna riflessione ecclesiale sul lavoro che resta da fare in questo ambito così vitale per la Chiesa. Ancora resta lavoro da fare!

Optatam totius e Presbyterorum ordinis sono stati ricordati insieme, come le due metà di una realtà unica: la formazione dei sacerdoti, che distinguiamo in iniziale e permanente, ma che costituisce per essi un’unica esperienza di discepolato. Non a caso, Papa Benedetto, nel gennaio 2013 (Motu proprio Ministrorum institutio) ha dato una forma concreta, giuridica, a questa realtà, attribuendo alla Congregazione per il Clero anche la competenza sui seminari. In questo modo lo stesso Dicastero può iniziare a occuparsi della vita e del ministero dei presbiteri sin dal momento dell’ingresso in seminario, lavorando perché le vocazioni siano promosse e curate, e possano sbocciare nella vita di santi preti. Il cammino di santità di un prete inizia in seminario!

Dal momento che la vocazione al sacerdozio è un dono che Dio fa ad alcuni per il bene di tutti, vorrei condividere con voi alcuni pensieri, proprio a partire dal rapporto tra i preti e le altre persone, seguendo il n. 3 di Presbyterorum ordinis, nel quale si trova come un piccolo compendio di teologia del sacerdozio, tratto dalla Lettera agli Ebrei: «I presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati, vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli».

Consideriamo questi tre momenti: “presi fra gli uomini”, “costituiti in favore degli uomini”, presenti “in mezzo agli altri uomini”.

Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano; lì apprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si abitua alle relazioni. Anche i preti hanno una storia, non sono “funghi” che spuntano improvvisamente in Cattedrale nel giorno della loro ordinazione. È importante che i formatori e i preti stessi ricordino questo e sappiano tenere conto di tale storia personale lungo il cammino della formazione. Nel giorno dell’ordinazione dico sempre ai sacerdoti, ai neo-sacerdoti: ricordatevi da dove siete stati presi, dal gregge, non dimenticatevi della vostra mamma e della vostra nonna! Questo lo diceva Paolo a Timoteo, e lo dico anch’io oggi. Questo vuol dire che non si può fare il prete credendo che uno è stato formato in laboratorio, no; incomincia in famiglia con la “tradizione” della fede e con tutta l’esperienza della famiglia. Occorre che essa sia personalizzata, perché è la persona concreta ad essere chiamata al discepolato e al sacerdozio, tenendo in ogni caso conto che è solo Cristo il Maestro da seguire e a cui configurarsi.

Mi piace in questo senso ricordare quel fondamentale “centro di pastorale vocazionale” che è la famiglia, chiesa domestica e primo e fondamentale luogo di formazione umana, dove può germinare nei giovani il desiderio di una vita concepita come cammino vocazionale, da percorrere con impegno e generosità.

In famiglia e in tutti gli altri contesti comunitari – scuola, parrocchia, associazioni, gruppi di amici – impariamo a stare in relazione con persone concrete, ci facciamo modellare dal rapporto con loro, e diventiamo ciò che siamo anche grazie a loro.

Un buon prete, dunque, è prima di tutto un uomo con la sua propria umanità, che conosce la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un discepolo del Signore. La formazione umana è quindi una necessità per i preti, perché imparino a non farsi dominare dai loro limiti, ma piuttosto a mettere a frutto i loro talenti.

Un prete che sia un uomo pacificato saprà diffondere serenità intorno a sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col Signore. Non è normale invece che un prete sia spesso triste, nervoso o duro di carattere; non va bene e non fa bene, né al prete, né al suo popolo. Ma se tu hai una malattia, sei nevrotico, vai dal medico! Dal medico spirituale e dal medico clinico: ti daranno pastiglie che ti faranno bene, ambedue! Ma per favore che i fedeli non paghino la nevrosi dei preti! Non bastonare i fedeli; vicinanza di cuore con loro.

Noi sacerdoti siamo apostoli della gioia, annunciamo il Vangelo, cioè la “buona notizia” per eccellenza; non siamo certo noi a dare forza al Vangelo – alcuni lo credono -, ma possiamo favorire o ostacolare l’incontro tra il Vangelo e le persone. La nostra umanità è il “vaso di creta” in cui custodiamo il tesoro di Dio, un vaso di cui dobbiamo avere cura, per trasmettere bene il suo prezioso contenuto.

Un prete non può perdere le sue radici, resta sempre un uomo del popolo e della cultura che lo hanno generato; le nostre radici ci aiutano a ricordare chi siamo e dove Cristo ci ha chiamati. Noi sacerdoti non caliamo dall’alto, ma siamo chiamati, chiamati da Dio, che ci prende “fra gli uomini”, per costituirci “in favore degli uomini”. Mi permetto un aneddoto. In diocesi, anni fa... Non in diocesi, no, nella Compagnia c’era un prete bravo, bravo, giovane, due anni di prete. E’ entrato in confusione, ha parlato col padre spirituale, con i suoi superiori, con i medici e ha detto: “Io me ne vado, non ne posso più, me ne vado”. E pensando a queste cose - io conoscevo la mamma, gente umile - gli ho detto: “Perché non vai dalla tua mamma e le parli di questo?”. E’ andato, ha passato tutta la giornata con la mamma, è tornato cambiato. Gli ha mamma gli dato due “schiaffi” spirituali, gli ha detto tre o quattro verità, lo ha messo a posto, ed è andato avanti. Perché? Perché è andato alla radice. Per questo è importante non togliere la radice da dove veniamo. In seminario devi fare la preghiera mentale… Sì, certo, questo si deve fare, imparare… Ma prima di tutto prega come ti ha insegnato tua mamma, e poi vai avanti. Ma sempre la radice è lì, la radice della famiglia, come hai imparato a pregare da bambino, anche con le stesse parole, incomincia a pregare così. Poi andrai avanti nella preghiera.

Ecco il secondo passaggio: “in favore degli uomini”.

Qui c’è un punto fondamentale della vita e del ministero dei presbiteri. Rispondendo alla vocazione di Dio, si diventa preti per servire i fratelli e le sorelle. Le immagini di Cristo che prendiamo come riferimento per il ministero dei preti sono chiare: Egli è il “Sommo Sacerdote”, allo stesso modo vicino a Dio e vicino agli uomini; è il “Servo”, che lava i piedi e si fa prossimo ai più deboli; è il “Buon Pastore”, che sempre ha come fine la cura del gregge.

Sono le tre immagini a cui dobbiamo guardare, pensando al ministero dei preti, inviati a servire gli uomini, a far loro giungere la misericordia di Dio, ad annunciare la sua Parola di vita. Non siamo sacerdoti per noi stessi e la nostra santificazione è strettamente legata a quella del nostro popolo, la nostra unzione alla sua unzione: tu sei unto per il tuo popolo. Sapere e ricordare di essere “costituiti per il popolo” -popolo santo, popolo di Dio -, aiuta i preti a non pensare a sé, ad essere autorevoli e non autoritari, fermi ma non duri, gioiosi ma non superficiali, insomma, pastori, non funzionari. Oggi, in entrambe le Letture della Messa si vede chiaramente la capacità di gioire che ha il popolo, quando viene ripristinato e purificato il tempio, e invece l’incapacità di gioia che hanno i capi dei sacerdoti e gli scribi davanti alla cacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù. Un prete deve imparare a gioire, non deve mai perdere, meglio così, la capacita di gioia: se la perde c’è qualcosa che non va. E vi dico sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura. Ai preti rigidi… Lontano! Ti mordono! E mi viene alla mente quella espressione di sant’Ambrogio, secolo IV: “Dove c’è la misericordia c’è lo spirito del Signore, dove c’è la rigidità ci sono soltanto i suoi ministri”. Il ministro senza il Signore diventa rigido, e questo è un pericolo per il popolo di Dio. Pastori, non funzionari.

Il popolo di Dio e l’umanità intera sono destinatari della missione dei sacerdoti, a cui tende tutta l’opera della formazione. La formazione umana, quella intellettuale e quella spirituale confluiscono naturalmente in quella pastorale, alla quale forniscono strumenti e virtù e disposizioni personali. Quando tutto questo si armonizza e si amalgama con un genuino zelo missionario, lungo il cammino di una vita intera, il prete può adempiere alla missione affidata da Cristo alla sua Chiesa.

Infine, ciò che dal popolo è nato, col popolo deve rimanere; il prete è sempre “in mezzo agli altri uomini”, non è un professionista della pastorale o dell’evangelizzazione, che arriva e fa ciò che deve – magari bene, ma come fosse un mestiere – e poi se ne va a vivere una vita separata. Si diventa preti per stare in mezzo alla gente: la vicinanza. E mi permetto, fratelli vescovi, anche la nostra vicinanza di vescovi con i nostri preti. Questo vale anche per noi! Quante volte sentiamo le lamentele dei preti: “Mah, ho chiamato il vescovo perché ho un problema… Il segretario, la segretaria, mi ha detto che è molto occupato, che è in giro, che non può ricevermi prima di tre mesi…”. Due cose. La prima. Un vescovo sempre è occupato, grazie a Dio, ma se tu vescovo ricevi una chiamata di un prete e non puoi riceverlo perché hai tanto lavoro, almeno prendi il telefono e chiamalo e digli: “E’ urgente? non è urgente? quando, vieni quel giorno…”, così si sente vicino. Ci sono vescovi che sembrano allontanarsi dai preti… Vicinanza, almeno una telefonata! E questo è amore di padre, fraternità. E l’altra cosa. “No, ho una conferenza in tale città e poi devo fare un viaggio in America, e poi…”. Ma, senti, il decreto di residenza di Trento ancora è vigente! E se tu non te la senti di rimanere in diocesi, dimettiti, e gira il mondo facendo un altro apostolato molto buono. Ma se tu sei vescovo di quella diocesi, residenza. Queste due cose, vicinanza residenza. Ma questo è per noi vescovi! Si diventa preti per stare in mezzo alla gente.

Il bene che i preti possono fare nasce soprattutto dalla loro vicinanza e da un tenero amore per le persone. Non sono filantropi o funzionari, i preti sono padri e fratelli. La paternità di un sacerdote fa tanto bene.

Vicinanza, viscere di misericordia, sguardo amorevole: far sperimentare la bellezza di una vita vissuta secondo il Vangelo e l’amore di Dio che si fa concreto anche attraverso i suoi ministri. Dio che non rifiuta mai. E qui penso al confessionale. Sempre si possono trovare strade per dare l’assoluzione. Accogliere bene. Ma alcune volte non si può assolvere. Ci sono preti che dicono: “No, da questo non ti posso assolvere, vattene via”. Questa non è la strada. Se tu non puoi dare l’assoluzione, spiega e dì: “Dio ti ama tanto, Dio ti vuole bene. Per arrivare a Dio ci sono tante vie. Io non ti posso dare l’assoluzione, ti do la benedizione. Ma torna, torna sempre qui, che ogni volta che tu torni ti darò la benedizione come segno che Dio ti ama”. E quell’uomo o quella donna se ne va pieno di gioia perché ha trovato l’icona del Padre, che non rifiuta mai; in una maniera o nell’altra lo ha abbracciato.

Un buon esame di coscienza per un prete è anche questo; se il Signore tornasse oggi, dove mi troverebbe? «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). E il mio cuore dov’è? In mezzo alla gente, pregando con e per la gente, coinvolto con le loro gioie e sofferenze, o piuttosto in mezzo alle cose del mondo, agli affari terreni, ai miei “spazi” privati? Un prete non può avere uno spazio privato, perché è sempre o col Signore o col popolo. Io penso a quei preti che ho conosciuto nella mia città, quando non c’era la segreteria telefonica, ma dormivano con il telefono sul comodino, e a qualunque ora chiamasse la gente, loro si alzavano a dare l’unzione: non moriva nessuno senza i sacramenti! Neppure nel riposo avevano uno spazio privato. Questo è zelo apostolico. La risposta a questa domanda: il mio cuore dov’è?, può aiutare ogni prete a orientare la sua vita e il suo ministero verso il Signore.

Il Concilio ha lasciato alla Chiesa “perle preziose”. Come il mercante del Vangelo di Matteo (13,45), oggi andiamo alla ricerca di esse, per trarre nuovo slancio e nuovi strumenti per la missione che il Signore ci affida.

Una cosa che vorrei aggiungere al testo – scusatemi! – è il discernimento vocazionale, l’ammissione al seminario. Cercare la salute di quel ragazzo, salute spirituale, salute materiale, fisica, psichica. Una volta, appena nominato maestro dei novizi, anno ’72, sono andato a portare alla psicologa gli esiti del test di personalità, un test semplice che si faceva come uno degli elementi del discernimento. Era una brava donna, e anche brava medico. Mi diceva: “Questo ha questo problema ma può andare se va così…”. Era anche una buona cristiana, ma in alcuni casi era inflessibile: “Questo non può” – “Ma dottoressa, è tanto buono questo ragazzo” - “Adesso è buono, ma sappia che ci sono giovani che sanno inconsciamente, non ne sono consapevoli, ma sentono inconsciamente di essere psichicamente ammalati e cercano per la loro vita strutture forti che li difendano, così da poter andare avanti. E vanno bene, fino al momento in cui si sentono bene stabiliti e lì incominciano i problemi” – “Mi sembra un po’ strano…”. E la risposta non la dimentico mai, la stessa del Signore a Ezechiele: “Padre, Lei non ha mai pensato perché ci sono tanti poliziotti torturatori? Entrano giovani, sembrano sani ma quando si sentono sicuri, la malattia incomincia ad uscire. Quelle sono le istituzioni forti che cercano questi ammalati incoscienti: la polizia, l’esercito, il clero… E poi tante malattie che tutti noi conosciamo che vengono fuori”. E’ curioso. Quando mi accorgo che un giovane è troppo rigido, è troppo fondamentalista, io non ho fiducia; dietro c’è qualcosa che lui stesso non sa. Ma quando si sente sicuro… Ezechiele 16, non ricordo il versetto, ma è quando il Signore dice al suo popolo tutto quello che ha fatto per lui: l’ha trovato appena nato, e poi l’ha vestito, l’ha sposato… “E poi, quando tu ti sei sentita sicura, ti sei prostituita”. E’ una regola, una regola di vita. Occhi aperti sulla missione nei seminari. Occhi aperti.

Confido che il frutto dei lavori di questo Convegno – con tanti autorevoli relatori, provenienti da regioni e culture diverse – potrà essere offerto alla Chiesa come utile attualizzazione degli insegnamenti del Concilio, portando un contributo alla formazione dei sacerdoti, quelli che ci sono e quelli che il Signore vorrà donarci, perché, configurati sempre più a Lui, siano buoni preti secondo il cuore del Signore, non funzionari! E grazie della pazienza.

 

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