Nella missione, “nonostante le sfide da affrontare, dobbiamo sempre accompagnare il popolo di Dio perché il popolo non vede noi, ma Gesù che è in noi. Quindi più siamo vicini a loro, più Dio è presente. Questa è un'esperienza che mi ha aiutato molto nella mia vita”.
Queste sono parole di mons. Peter Munguti Makau, missionario della Consolata, in un'intervista rilasciata al Segretariato per la Comunicazione a Roma durante la sua prima visita ad limina nello scorso mese di settembre.
Il 28 settembre 2024, Papa Francesco lo ha nominato vescovo titolare della diocesi di Isiolo nel Kenya dove era stato fino a quel momento vescovo coadiutore. Il primo vescovo di quella giovane diocesi, creata il 15 febbraio 2023, era stato Mons. Anthony Mukobo, IMC, che ha raggiunto l’età canonica e si è dimesso.
Nell’intervista in inglese, che pubblichiamo di seguito, parlando ancora come vescovo coadiutore di Isiolo, Mons. Peter Makau ci racconta la sua storia e il percorso che ha fatto in diversi spazi missionari. Ricorda gli anni del seminario e del noviziato in Kenya; gli studi di teologia a Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo; la sfidante missione del Venezuela dove è stato anche superiore e, ancora una volta superiore, gli anni della presenza nella Regione IMC del Kenya e Uganda. Poi il 4 maggio 2024 e all’età di 49 anni Papa Francesco lo ha nominato vescovo.
Leggi anche: Mons. Anthony Mukobo: “La diocesi di Isiolo tra crescita e sfide pastorali”
Peter Munguti Makau è nato il 6 maggio 1975 a Nairobi dove ha ingressato nell’Istituto e ha fatto la sua formazione religiosa. L'anno di noviziato l’ha compiuto a Sagana (Kenya) dove ha emesso i primi voti il 6 agosto 1999. Pois ha fatto gli studi teologici a Kinshasa, RD Congo e è stato ordinato presbitero il 20 novembre 2004 nella Diocesi di Machakos (Kenya).
Dopo l'ordinazione è stato inviato in Venezuela dove ha lavorato nella pastorale e nell’animazione missionaria. È stato Superiore Delegato IMC per il Venezuela per due mandati (2014-2019). Poi, nel 2019 è tornato in Kenya come Superiore Regionale IMC.
Nominato dal Papa Francesco vescovo coadiutore della diocesi di Isiolo nel Kenya il 4 maggio 2024, la sua ordinazione episcopale ha avuto luogo il 27 luglio 2024, nella cattedrale di Sant'Eusebio nella Diocesi di Isiolo.
Situata nella parte centrale del Kenya, la diocesi ha una superficie di 25.700 km2 e una popolazione di 268 mila abitanti di cui il 19% sono cattolici. Ci sono 15 parrocchie, 74 istituzioni educative ed 11 di carità, tra cui 5 dispensari ed 1 maternità. Nella diocesi di Isiolo lavorano 27 sacerdoti diocesani e 6 sacerdoti religiosi, assieme ad altri 58 fra religiosi e religiose. Sono presenti anche 10 catechisti a tempo pieno e tantissimi laici impegnati nella cura pastorale delle comunità cristiane.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Segretariato per la Comunicazione
Il 28 settembre 2024, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Isiolo nel Kenya presentata da mons. Anthony Ireri Mukobo, missionari della Consolata, per ragioni di età. Gli succede mons. Peter Munguti Makau, anche lui missionario della Consolata, finora vescovo coadiutore della medesima Diocesi.
Il diacono Joseph Wagura, IMC, della comunità formativa di Porta Pia a Roma, ci racconta la visita di mons. Peter Makau alla loro comunità di Nomentana.
Quando ci è arrivata la notizia che mons. Peter Makau avrebbe celebrato la Santa Messa insieme a noi, siamo stati tutti contenti e desiderosi di incontrarlo anche perché per molti di noi lui era stato il nostro Superiore religioso in Kenya. Abbiamo quindi desiderato di incontrarlo per poterci congratulare con lui della sua nomina all’Episcopato ed esprimergli il nostro apprezzamento per essere stato una persona capace di vicinanza con tutti i suoi confratelli.
Durante il XIV Capitolo Generale dell’anno 2023 a Roma, non ha mancato di farci visita e intrattenersi amichevolmente con tutti noi a cena. Durante la sua gradita visita ci ha incoraggiato a continuare il nostro impegno di studio e ci ha anche promesso di visitarci tutte le volte che dovesse rivenire a Roma.
La notizia che Papa Francesco il 4 maggio 2024 lo aveva nominato vescovo coadiutore della diocesi di Isiolo ci ha riempito di gioia. Adesso, la sua nomina come vescovo titolare della stessa diocesi ci rende ancora più felici.
Poco tempo fa, Mons. Peter Makau è venuto a Roma per la visita ad limina insieme agli altri vescovi del Kenya. Nonostante che la sua agenda fosse piena di impegni, è riuscito a ritagliarsi un po' di tempo per farci visita non solo come vescovo, ma soprattutto come amico e padre.
Mons. Anthony Mukobo e Mons. Peter Makau con i formatori riuniti nella casa generalizia a Roma Foto: Jaime C. Patias
Il 18 settembre 2024, per la seconda volta, quindi, ha fatto visita alla nostra comunità. In questa occasione ha celebrato la Santa Messa e poi si è fermato per condividere il pasto con noi. Nonostante che il vescovo non conosca l’italiano, tuttavia aiutandosi con lo spagnolo, che parla fluentemente, è riuscito a presiedere l’Eucarestia e rivolgersi ai cristiani presenti per l’omelia.
Facendo appello alla sua esperienza di Superiore della Regione del Kenya ci ha esortato a “creare un ambiente di famiglia e a ringraziare il Signore per tutti i doni che ci ha elargito”. Ci ha esortato anche “a vivere con intensità e gioia vera l’appartenenza alla famiglia dei missionari della Consolata”. Ci ha fatto notare inoltre la differenza che esiste tra la famiglia naturale e quella della Consolata. “Non vi è dubbio che noi tutti trascorreremo la maggior parte della nostra vita nell’Istituto, quindi, va amato come se fosse la nostra famiglia naturale”.
Inoltre, ha incoraggiato tutti a prendere sul serio lo studio. Si è detto felice che l’Istituto abbia deciso di dare un ulteriore tempo di studio ai suoi membri dopo la Teologia di base. “La specializzazione è una grande opportunità - ha continuato mons. Peter - che il nostro Istituto, a differenza di altri, offre ai suoi membri”. Ha inoltre notato che “tanti altri non hanno avuto questa opportunità, e quindi, voi che ora avete questo momento di grazia dovete farne tesoro perché il mondo aspetta persone competenti nel loro campo”. Egli ha anche sottolineato come lo studio dopo la Teologia di base offre un ulteriore vantaggio nel senso che prepara meglio ad affrontare le sfide del mondo moderno.
Mons. Peter Makau con la comunità formativa di Posta Pia a Roma
Ci ha poi ricordato che “la missione è lo scopo finale per cui noi siamo formati. Si dovrebbe essere sempre pronti per la missione”. Infine, ci ha confidato di non aver mai pensato che gli sarebbe stato affidato l’ufficio episcopale.
Ci ha esortati ad “essere sempre obbedienti e pronti a raggiungere qualsiasi zona missionaria a cui potremmo essere destinati. La nostra disponibilità è il dono più grande che possiamo fare all'Istituto. La missione ha bisogno di noi ed è per questo che ci stiamo preparando”. Ha concluso dicendosi pronto a riceverci qualora ci trovassimo a passare nell’area della sua diocesi.
Nell’indirizzo rivoltogli dal rappresentante della comunità è stato sottolineato che il vescovo ha sempre accolto con cuore paterno tutti i suoi confratelli. Ha inoltre ringraziato il vescovo per aver trovato il tempo per farci visita e sarà sempre il ben venuto nella nostra comunità. In fine gli abbiamo promesso un ricordo nella preghiera per il suo impegno episcopale e per la sua diocesi di Isiolo.
* Diac. Joseph Wagura, IMC, comunità di Porta Pia, Roma.
Nella basilica del Sacro Cuore di Koekelberg, il 28 settembre, Francesco si rivolge a vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, seminaristi e catechisti invitando all’impegno nell'evangelizzazione in un tempo di crisi: serve coraggio per avviare trasformazioni di consuetudini, modelli e linguaggi della fede. Misericordia e prossimità per chi ha subito abusi.
Una Chiesa “che non chiude mai le porte”, che a tutti offre “un’apertura sull’infinito”, che sa “guardare oltre”. Una Chiesa “serva di tutti senza soggiogare nessuno”, in grado di imparare, con la misericordia, a non rimanere “col cuore di pietra” dinnanzi alle sofferenze delle vittime di abusi. Ancora, una Chiesa capace di aiutare chi sbaglia a rialzarsi, perché esistono errori ma “nessuno è perduto per sempre”.
È questa la Chiesa che Papa Francesco ha indicato come modello ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai consacrati e alle consacrate, ai seminaristi e agli operatori pastorali del Belgio riuniti nella basilica del Sacro Cuore di Koekelberg, a Bruxelles.
Il Pontefice ha raggiunto l’edificio sacro alla periferia della città dopo una tappa fuori programma nella chiesa di Saint-Gille per fare colazione con un gruppo di poveri e rifugiati che gli hanno regalato una birra prodotta nella parrocchia per finanziare le opere caritative. Nel suo percorso in auto lungo il grande spazio verde antistante alla basilica, la quinta più grande al mondo, Francesco benedice diversi bambini che gli vengono avvicinati.
Papa Francesco nella basilica del Sacro Cuore di Koekelberg
Rivolgendosi ai presenti, per descrivere al meglio l’immagine di una Chiesa “che evangelizza, vive la gioia del Vangelo e pratica la misericordia”, Francesco si avvale di una metafora artistica, facendo riferimento a un’opera del pittore belga Magritte, “L’atto di fede”, che rappresenta una porta chiusa dall’interno, ma “sfondata al centro” e “aperta sul cielo. È uno squarcio - descrive - che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi”.
Parlando della Chiesa belga, il Papa la definisce “in movimento”, impegnata a trasformare la presenza delle parrocchie sul territorio, a dare un forte impulso alla formazione dei laici e in generale a “essere Comunità vicina alla gente, che accompagna le persone e testimonia con gesti di misericordia”.
Nel suo discorso più volte interrotto da applausi, che prendeva spunto dalle domande poste nel corso delle testimonianze da diversi membri della Chiesa locale, Francesco propone alcune tracce di riflessione sviluppate attorno a tre parole: evangelizzazione, gioia, misericordia.
L’evangelizzazione, spiega, è la “prima strada da percorrere”, perché “i cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo” affinché “a tutti venga nuovamente annunciata la buona notizia che Gesù ha portato nel mondo, facendone risplendere tutta la bellezza”. La crisi, tempo “per scuoterci, per interrogarci e per cambiare”, ci mostra che “siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo ‘di minoranza’, o meglio - precisa Francesco - di testimonianza”.
Questo richiede il coraggio di una conversione ecclesiale, per avviare queste trasformazioni pastorali che riguardano anche le consuetudini, i modelli, i linguaggi della fede, perché siano realmente a servizio dell’evangelizzazione.
Anche ai preti, sottolinea, occorre il “coraggio” di non limitarsi a “conservare o gestire un patrimonio del passato”, ma di essere “pastori innamorati di Cristo” e “attenti a cogliere le domande di Vangelo” mentre “camminano con il Popolo santo di Dio”. Se il Signore “apre i nostri cuori all’incontro con chi è diverso da noi”, il Papa chiarisce che “nella Chiesa c’è spazio per tutti” e “nessuno dev’essere la fotocopia dell’altro. L’unità nella Chiesa non è uniformità, ma è trovare l’armonia delle diversità!”.
In questo senso il processo sinodale, rimarca riferendosi a una precedente testimonianza, “dev’essere un ritorno al Vangelo”, non deve “avere tra le priorità qualche riforma ‘alla moda”’, ma chiedersi come possiamo far arrivare il Vangelo “in una società che non lo ascolta più o si è allontanata dalla fede”.
Religiose ascoltano il Papa
Passando al secondo fulcro del suo intervento, la gioia, Francesco esplicita che non si parla “delle gioie legate a qualcosa di momentaneo”, ma di “una gioia più grande, che accompagna e sostiene la vita anche nei momenti oscuri o dolorosi, e questo è un dono che viene dall’alto, che viene da Dio”.
È la gioia del cuore suscitata dal Vangelo: è sapere che lungo il cammino non siamo soli e che anche nelle situazioni di povertà, di peccato, di afflizione, Dio è vicino, si prende cura di noi e non permetterà alla morte di avere l’ultima parola.
Dal Papa arriva l’esortazione affinché il predicare, il celebrare, il servire e fare apostolato lascino trasparire “la gioia del cuore” e non “il sorriso finto, del momento”. La gioia “è la strada”, e quando la fedeltà “appare difficile” dobbiamo mostrare che essa è un “cammino verso la felicità” perché, “intravedendo dove conduce la strada, si è più pronti a iniziare il cammino”.
Infine, la terza via, quella della misericordia.
Il Vangelo, accolto e condiviso, ricevuto e donato, ci conduce alla gioia perché ci fa scoprire che Dio è il Padre della misericordia, che si commuove per noi, che ci rialza dalle nostre cadute, che non ritira mai il suo amore per noi. Fissiamo nel cuore: mai Dio ritira il suo amore per noi.
Questo, ha proseguito il Pontefice, “a volte può sembrarci ‘ingiusto’, perché noi applichiamo semplicemente la giustizia terrena che dice: ‘chi sbaglia deve pagare’”. Tuttavia, la giustizia di Dio è superiore, e chi ha sbagliato è sì “chiamato a riparare i suoi errori”, ma per guarire nel cuore “ha bisogno dell’amore misericordioso di Dio”, che “perdona tutto” e “perdona sempre”. È con la sua misericordia che Dio “ci giustifica” nel senso che “ci rende giusti, perché ci dona “un cuore nuovo, una vita nuova”.
Il Papa si sofferma anche sulla questione degli abusi: “C’è bisogno di tanta misericordia, per non rimanere col cuore di pietra dinanzi alla sofferenza delle vittime, per far sentire loro la nostra vicinanza", "offrire tutto l’aiuto possibile” e imparare a essere una Chiesa “che si fa serva di tutti” senza “soggiogare nessuno”. “Sì – ripete – perché una radice della violenza consiste nell’abuso di potere, quando usiamo i ruoli che abbiamo per schiacciare gli altri o per manipolarli”.
Il pensiero di Francesco va poi ai carcerati, per i quali la misericordia è un tema cruciale. Quando io entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre.
Papa Francesco tra la folla
Se “è giusto seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali”, la pena per il Papa “dev’essere una medicina”, portare alla guarigione, perché, ribadisce con forza, “bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia – conclude – sempre, sempre misericordia”.
Della chiamata della Chiesa a essere “un segno di comunione e di integrazione” in un Paese “crocevia dell’Europa e del mondo” ha parlato, nel suo saluto al Papa, monsignor Luc Terlinden, arcivescovo di Mechelen-Brussel e presidente della Conferenza episcopale belga.
Il presule mette in evidenza le sfide e le opportunità che “l’accoglienza degli stranieri e la mescolanza delle popolazioni” rappresentano “per la Chiesa, per la pastorale, per la teologia” in un mondo che “sta cambiando profondamente e sta diventando più secolare”.
In particolare il presidente dell’episcopato belga si sofferma sull’importanza di “testimoniare la tenerezza di Dio per ogni essere umano, al di là di ogni frontiera" e di "riconoscere in ognuno una sorella o un fratello”.
* Lorena Leonardi - Città del Vaticano. Originalmente Pubblicato in: www.vaticannews.va
Abbiamo appena vissuto nella Chiesa colombiana un evento che non voglio perdere, che ci riempie di speranza e che segna la nostra storia: l'ordinazione del primo vescovo nero del Paese, monsignor Wiston Mosquera Moreno.
Quello che voglio fare qui non è dare la notizia, sicuramente ha già fatto il giro del mondo e i miei lettori la conoscono, ma riflettere sulla vita della Chiesa e cercare di vedere, con la lente d'ingrandimento della fede, le intenzioni dello Spirito Santo in questo evento.
Per questo voglio riportare alcune delle cose che ho sentito mentre seguivo la cerimonia, presieduta dall'arcivescovo di Cali, Luis Fernando Rodríguez Velásquez, che si è svolta nella chiesa cattedrale di San Pedro Apóstol.
È stato commovente vedere Doña María Jerónima Moreno, di 99 anni di età, consegnare suo figlio a Dio e riceverlo come un altro Cristo; l'offerta che la donna ha fatto e deposto sull'altare di quella cattedrale era stata preparata 57 anni prima, lì ad Andagoya, nel profondo Chocó, sull'altare della vita, quando l'ha concepito e partorito, quando l'ha allattato con il latte e la fede, e poi quando ha lavorato perché il ragazzo e il seminarista potessero crescere e ascoltare la chiamata del Signore e dei poveri. In lei, seduta sulla sua sedia a rotelle, si poteva vedere la dignità del popolo nero, una dignità fatta di umiltà, resilienza, celebrazione, lotta e amore di Dio (…).
Doña María Jerónima Moreno, di 99 anni di età, madre del nuovo vescovo di Quibdó.
Senza la messa di sua madre, senza il suo donarsi per amore ogni giorno, non avremmo avuto la messa del nostro fratello Winston, che ora è il nuovo vescovo di Quibdó. Quella madre del Chocó rifletteva nella chiesa, in mezzo a tanti vescovi e sacerdoti, tutta la bellezza del sacerdozio di Cristo, il dono di sé, l'amore fino all'estremo; la sua pelle nera, già rugosa d'amore, era il migliore dei paramenti che si indossavano in quel momento.
È stato un altro il sentimento che mi ha travolto mentre seguivo la cerimonia; per i miei molti anni in Africa, tra i Samburu e i Turkana del Kenya, ho un cuore nero e sono addolorato per l'esclusione che ha caratterizzato il nostro Paese e si è riflessa anche nella Chiesa. Nei suoi versi il poeta venezuelano Andrés Eloy Blanco diceva all'artista che decorava i templi: “Ogni volta che dipingi chiese, dipingi bellissimi angioletti, ma non ti sei mai ricordato di dipingere un angioletto nero”. Queste parole calzano con precisione anche per una chiesa che non si è mai ricordata di eleggere un vescovo nero. Finalmente oggi siamo più inclusivi, almeno un po' di più, e questo rende la Chiesa ciò che è per natura: kata holos, cattolica, universale.
Eravamo felici di vedere l'Eucaristia celebrata con la passione della costa del Pacifico, al ritmo di marimba, grancassa, cununo e guasá; eravamo felici di vedere una Chiesa con il volto nero e che cantava: “Oggi è il giorno del nostro gruppo etnico; oggi lo metteremo in evidenza. Siamo tutti felici, la messa sta per iniziare”.
La cattedrale di San Pietro Apostolo a Cali in Colombia
Anche il nuovo vescovo ha letto la sua vocazione in questo modo e lo ha detto quando ha preso la parola per ringraziare al termine della cerimonia: “Un passo sulla giusta strada dell'inclusione in questa lunga e ricca storia di evangelizzazione dei popoli del continente americano. Tutti sappiamo che dobbiamo continuare a muoverci in questa direzione e non solo nella Chiesa colombiana, ma in tutte le istituzioni se vogliamo davvero un Paese più inclusivo, più egualitario, più sviluppato e prospero e meno insensibile all'abissale e scandalosa arretratezza in cui versano ampie regioni del Paese”.
Confesso che molte volte, quando assisto alle ordinazioni di diaconi, sacerdoti e vescovi, mi sembra di trovarmi in “ordinazioni assolute” –proibite dagli antichi canoni ma ancora comuni nella pratica– dove uomini ricevono il sacramento per se stessi, senza alcuna relazione con il popolo di Dio, senza una comunità di cui prendersi cura, ma a volte solo un ufficio da gestire e un onore da ostentare. E sembra che sia così perché né il vescovo consacrante, né il nuovo diacono, presbitero o vescovo, alludono alle comunità a cui sono destinati, come se il loro ministero potesse essere sulla luna o in un angolo del nulla, scollegato dal popolo che dovrebbero pascere. Nelle omelie che accompagnano questi riti si parla di tante cose, del Christus Dominus, del ministero dei vescovi, della dignità episcopale.... ma senza approdare “alle gioie e alle speranze, ai dolori e alle angosce degli uomini (e delle donne) del nostro tempo” (Gaudium et Spes) e di coloro che devono essere serviti con i doni ricevuti nel sacramento.
In questa consacrazione episcopale abbiamo sperimentato qualcosa di diverso: era una ordinazione chiaramente orientata al popolo di Dio e ai poveri da servire. (…) Nel prendere la parola, il nuovo ministro ha avuto ben presente in mente e cuore quel popolo per il quale è stato consacrato, un popolo che ha sofferto la guerra, la violenza di tutti gli attori armati, il razzismo di un Paese che si crede bianco, la piaga del narcotraffico, la disperazione dei migranti che si avventurano nelle giungle del Darien, le economie minerarie e illegali, l'impoverimento che producono le multinazionali e i megaprogetti.
Ancora una volta cito le parole del neo-ordinato: “Tornandomene a casa, ora come vescovo e pastore di un gregge come questo, ho ben chiaro che il lavoro pastorale che tutti i miei predecessori hanno svolto deve continuare, con una voce chiara in difesa dei diritti umani individuali e collettivi, collaborando con le varie organizzazioni sociali e ONG che lavorano per la pace e la riconciliazione in tutto il Pacifico colombiano, per il rispetto e la dignità delle comunità vulnerabili e di quelle persone che, attraversando la regione del Darién, vanno in cerca di migliori condizioni di vita per le loro famiglie”. (…) Sembra che, grazie a Dio, non abbiamo avuto un vescovo a suo agio nel mondo delle idee, ma uno che ha iniziato toccando le ferite del popolo crocifisso, le stesse di Cristo oggi.
I fedeli cristiani del Chocó hanno consegnato al nuovo vescovo l'immagine mutilata del Cristo di Bojayá
Al termine della celebrazione, prima che egli benedicesse il popolo di Dio e rivolgesse loro una parola, un gruppo di fedeli cristiani del Chocó ha consegnato al nuovo vescovo l'immagine del Cristo mutilato di Bojayá; un segno forte che collega il suo ministero alle vittime della violenza in Colombia (Il Cristo rotto di Bojayá, è il simbolo emblematico del peggior massacro che sia mai accaduto in Colombia. Il 2 Maggio del 2002 i membri del blocco 58 delle FARC, in uno scontro armato con un gruppo paramilitare, lanciarono una bomba che cadde all’interno della chiesa dove si erano rifugiate quasi tutte le famiglie del villaggio. Morirono più di 100 persone; anche l’immagine del Crocifisso fu dilaniata e rimase senza braccia e senza gambe).
(…) Se un pastore non tocca le ferite di Cristo in coloro che soffrono e non le bacia, quale benedizione può avere per il popolo di Dio? Quale parola ispirata può dire ai suoi cristiani e al mondo che lo ascolta? Benedetto questo episcopato che inizia toccando e baciando il Cristo del suo popolo.
“Beati gli operatori di pace”, è il motto scelto dal nuovo vescovo per camminare con il suo popolo e con la Chiesa colombiana. Vi ringrazio”, ha detto rivolgendosi ai vescovi presenti, ”per tutta la vostra vicinanza e le vostre preghiere per questo nuovo fratello che viene a promuovere con voi il compito di cercare una pace duratura nel Paese”. Che sia così, monsignor Winston, che il Cristo di Bojayá e il popolo risorto del Chocó ti rendano pastore secondo il cuore di Dio. Le buone intenzioni dello Spirito Santo sono evidenti.
* Padre Jairo Alberto Franco Uribe, colombiano, missionario saveriano di Yarumal, ha lavorato in Kenya. Originalmente pubblicato in: www.religiondigital.org
Dall'11 al 16 settembre 2024, in Tanzania si è celebrato il suo quinto Congresso Eucaristico Nazionale, nella città di Dar Es Salaam, in continuità con le precedenti conferenze tenutesi ogni quattro anni. Vi hanno partecipato migliaia di persone. Lo slogan della conferenza era ‘Fraternità, guarigione del mondo: siete tutti fratelli’.
Sono stati presentati sette argomenti e, in breve, li condividiamo qui di seguito.
Il vescovo ha sottolineato l'importanza della Santa Messa nella vita della Chiesa, sottolineando che è una questione di responsabilità prepararla in modo appropriato. Ogni celebrazione della Santa Messa è un atto unico per la sua santità. È nostro dovere e obbligo celebrarla con profondo rispetto.
Fedeli allo Stadio Uhuru durante la chiusura del Congresso
2. La fraternità cristiana come strumento importante per lo sviluppo della dignità umana (di Padre Joseph Mosha dell'Arcidiocesi di Dar es Salaam).
Il relatore ha spiegato come la fraternità è intrinsecamente un atto dell’essere umano, legato al fatto del suo essere stato creato a somiglianza e immagine di Dio, e Gesù Cristo, nutrendoci del suo corpo e del suo sangue, diventa nostro fratello. Dobbiamo riconoscere, e fare nostra la fraternità cristiana per poter guarire le tante ferite che affliggono l'umanità.
3. La Santa Eucaristia e le piccole comunità di base (di Padre Benno Kikudo della Conferenza episcopale della Tanzania).
Come il titolo suggerisce, le piccole comunità di base dovrebbero essere comunità eucaristiche. Il fulcro e centro di tutto è Cristo. Cosa si dovrebbe fare per rendere questo fattibile? Si dovrebbero preparare e implementare piani e strategie pastorali con l'obiettivo di rafforzare le famiglie, le comunità, i gruppi di giovani, i bambini e le madri, affinché possano vivere una vita eucaristica. Ciò deve essere fatto attraverso seminari, workshop e programmi pedagogici.
Il vescovo ha sottolineato che la Santa Eucaristia è Cristo stesso. Accettare Cristo ci rende capaci di vivere come Cristo ha vissuto. Gesù Cristo non fece il male, e in tutta la vita non fece altro che il bene. Quindi, è dovere di ogni cattolico amare e desiderare di ricevere Cristo regolarmente, preparandosi bene.
Ha avvertito, tuttavia, che sarebbe una bestemmia se ricevessimo la Santa Eucaristia e allo stesso tempo continuassimo a fare il male, perché ciò darebbe l'impressione che sia Cristo che riceviamo, colui che ci fa fare il male, in quanto dovremmo essere ciò che mangiamo.
Ha spiegato come la Dottrina della Chiesa indica che la famiglia e il mondo hanno bisogno di guarigione e come Cristo è il vero guaritore, idea affermata anche dagli altri relatori. Ogni famiglia dovrebbe ricercare, ricevere e abbracciare Cristo come vero cibo e vera bevanda.
Ha basato il suo intervento sul fatto che le persone (per vari motivi, inclusa la difficoltà di vita) sono sempre in ricerca di soluzioni ai loro problemi, al punto da ritrovarsi ad entrare in sette per trovare “miracoli” e “vuote benedizioni”. Alcuni di loro acquistano da falsi pastori, falsi oggetti religiosi come olio, terra, foglie, che ritengano siano in possesso di poteri magici. In seguito si rendono conto che invece di essere curati, sono stati imbrogliati, derubati economicamente e la loro fede vacilla.
Per affrontare questa sfida, la Chiesa cattolica deve fare uno sforzo deliberato per preparare un piano pastorale strategico, per identificare e aiutare quei figli e figlie della Chiesa che si sono perduti.
Il Cardinale del Tanzania, Protas Rugambwa e il Nunzio Angelo Accatino durante la cerimonia di chiusura.
Ha sottolineato il lavoro missionario svolto e i suoi frutti oggi, di cui il Congresso Eucaristoco n’è parte, e come molto si potrebbe dire di questo congresso. L’argomentazione del Vescovo si è basata sulla realtà presente Tanzaniana e Africana a livello politico, culturale, economico, religioso.
Fraternità e guarigione sono le parole più usate considerando la situazione che questa nazione sta affrontando oggi. C'è preoccupazione e paura nella società Tanzaniana a causa di ondate di violazione dei diritti umani come rapimenti, omicidi, abusi sui deboli, bullismo. Ecco perché, alla chiusura del congresso, la Conferenza Episcopale Tanzaniana (TEC), ha rilasciato una dichiarazione congiunta che condanna tali azioni, sottolineando che la nostra società ha bisogno di guarigione. La vera guarigione si trova nel Gesù dell'Eucaristia che ci chiama alla tavola del dialogo e della comunione.
Come missionari della Consolata, qual è il nostro contributo per guarire il mondo? Qual è il nostro ruolo nel costruire un mondo fraterno con i principi di giustizia e uguaglianza? Viviamo la vita fraterna nelle nostre comunità? Che San Giuseppe Allamano, nostro fondatore, ci aiuti a impegnarci sempre di più nel nostro Carisma.
* Padre Paulino Madeje, IMC, è il direttore della rivista Enendeni.
Il logo del Congresso che riporta anche lo slogan