VI Domenica della Parola di Dio
Ne 8,2-4a.5-6.8-10; Sal 18; 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21
Con la Lettera Apostolica “Aperuit illis”, “aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture”, Papa Francesco istituì la Domenica della Parola di Dio – celebrata ogni III Domenica del Tempo ordinario – al fine di “riscoprire il senso pasquale e salvifico della Parola di Dio”. Questa domenica sarà dunque dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio.
Le letture che ci vengono proposte mettono in rilievo l’importanza della Parola di Dio; nella prima lettura Esdra, funzionario del re di Persia, e gli ebrei, tornati dall’esilio già da molto tempo, leggevano il libro della legge e ne spiegavano il senso. Nel Vangelo, invece, è Gesù che entra di sabato nella sinagoga dove si trovavano riuniti gli ebrei per la preghiera, l’ascolto della parola di Dio e il commento. Anch’Egli legge un brano della Torah e dà senso a quanto letto: “oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
La pagina del libro di Neemia è un racconto commovente sulla centralità della parola di Dio in mezzo al popolo d’Israele dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia. Esdra aveva fatto costruire “una tribuna di legno”, posta in alto, aveva convocato l’assemblea, portato la legge, cioè la Torah sulla tribuna e letto tutto il libro, dall’alba “fino a mezzogiorno”. Tutti stavano ad ascoltare. È impressionante notare come il popolo fosse attento, nonché affascinato dalla Parola: esso si metteva in piedi mentre si intronizzava il libro e tutti tendevano l’orecchio al libro. La parola era letta, poi seguiva la spiegazione del suo senso. Nelle nostre assemblee domenicali non tutti sono capaci di “tendere l’orecchio alla parola”.
Spesso siamo distratti da mille ed una cosa, siamo presenti solo fisicamente e nessuno si lascia commuovere dalla parola ascoltata. Viceversa, abbiamo sentito che durante la lettura il popolo era commosso, la parola lo faceva entrare in contatto con Dio e con la loro realtà personale ciò che non succede nelle nostre vite. Il popolo piangeva di gioia e di dolore. Quanti di noi piangono davanti all’ascolto? Il popolo piangeva di gioia per la gratitudine del dono della Parola e di dolore perché la Parola letta lo rendeva consapevole sia dei propri peccati, sia del bisogno di pentimento e conversione. La parola lasciava un segno nel cuore come dice Dio nel libro del profeta Isaia: “così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”.
Il popolo era consapevole che la Parola letta era la Parola di Dio; era Dio stesso che, di propria iniziativa, parlava al suo popolo perciò “tutto il popolo pregava, mentre ascoltava le parole della legge”. Pregava perché quella Parola era un dono di Dio, perciò essi erano disponibili all’ascolto della Parola ed erano desiderosi di saperne il senso.
La prima parte del testo del Vangelo (1,1-4) è un prologo letterario in cui Luca presenta la sua opera come il frutto di ricerche personali accurate su ogni circostanza accaduta "in mezzo a noi"; un'opera destinata "all'illustre Teofilo" perché abbia una conoscenza sicura, solida di ciò che gli è stato insegnato su Gesù (nel Vangelo) ma anche sulla sua Chiesa (Atti degli Apostoli). Infatti, negli Atti scrive: “Teofilo, nel mio primo libro ho scritto di tutto ciò che Gesù ha cominciato a fare e a insegnare”.
Il nome Theophilus deriva dal greco theophilos "Theo = Dio", "philos = amico o amore fraterno". Questo nome può essere tradotto come "amato di Dio" o "amico/amante di Dio". Anche se è possibile che la persona con questo nome Teofilo sia esistita perché Luca scrivesse la sua opera, vorrei sottolineare il valore simbolico del nome: esso indica tutti i credenti considerati non solo amati da Dio ma anche amanti di Dio. L'informazione che Luca ci offre è perché siamo amati da Dio e vuole rafforzare la nostra esperienza dell'amore che Dio ha per noi. Essendo coscienti di questo amore di Dio, siamo chiamati ad amare Dio, ad essere amanti di Dio. Per lasciarci commuovere dalla Parola di Dio, affascinare da essa, dobbiamo essere “teofilo”. Leggere la Parola di Dio essendo consapevoli che siamo amati e amanti di Dio.
Siamo chiamati a riconoscere, allo stesso tempo, il privilegio dell'amore che Dio ha per l'umanità, ma anche a scoprire la missione che deriva da questo amore: amare Dio. Amare Dio prima di tutto per poi amarlo intensamente: "chi ama Dio si accontenta di piacergli, perché il premio più grande che possiamo desiderare è l'amore stesso. L'amore, infatti, viene da Dio, tanto che Dio stesso è amore" (San Leone Magno).
La seconda parte del Vangelo ci racconta il ritorno di Gesù a Nazareth quando, un sabato, si reca in sinagoga per leggere la Parola. Gli fu dato il libro e lesse il passo dal rotolo di Isaia (Is 61,1-2) in cui si racconta la vocazione e la missione del profeta. Mentre so gli astanti aspettano un commento di Gesù, egli si limita a dire loro che quello che avevano appena ascoltato, da quel giorno, si sarebbe compiuto: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato” (Lc 4,21). In Gesù, quella parola letta e Gesù diventano una sola cosa. Gesù è il messia atteso e tutte le Scritture ci parlano di Cristo e tutto è stato scritto in vista di Lui. Non si possono dunque ignorare le scritture poiché, come dice San Girolamo “Ignorare le Scritture è ignorare Cristo”.
Tutti noi che desideriamo essere Teofilo dobbiamo metterci all’ascolto della Parola di Dio affinché possiamo conoscere Cristo e vivere come Lui ci ha insegnato.
Il discepolo missionario, ora chiamato anche Teofilo, è consapevole che la sua fede “si fonda sulla Parola viva, non su un libro, come ha affermato Papa Francesco. Egli sa che, quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. Così, egli si nutre ogni giorno della Parola di Dio e si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro” ma afferma: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Is 62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11
La liturgia della Parola, nel parlare del disegno dell’alleanza tra Dio ed il suo popolo, ci fa sostare su due pagine bibliche ricchissime d’insegnamento sulla suddetta alleanza.
Nella prima Lettura Dio, attraverso la profezia d'Isaia, rinnova l'alleanza-matrimoniale con il popolo d'Israele e a seguito di tale rinnovamento, Israele non verrà più chiamata “abbandonata” ma sarà chiamata la gioia di Dio: mia gioia. Nel racconto del Vangelo, Giovanni presenta il primo dei “segni”: le nozze di Cana, simbolo nuziale dell’incontro tra Dio e l’umanità. Gesù dà il nuovo vino, il vino dell’amore per stabilire la nuova Alleanza poiché il vino è simbolo dell’amore felice tra uomo e donna, tra l’umanità e Dio. Il racconto si colloca nell’ambito della tradizione profetica: Gesù moltiplica il vino, come Elia la farina e l’ olio per la vedova di Serepta, come Eliseo l’olio per una vedova e i pani per il popolo.
Gerusalemme è la città simbolo di Israele e il suo popolo è caratterizzato per l’infedeltà all’alleanza con Dio. Ma Dio il cui amore è fedele vuole restaurare la sua relazione di amore con il suo popolo dandogli una nuova vita, con un matrimonio nuovo, immacolato e totalmente purificato. Questa nuova vita viene rappresentata dal cambiamento di nome che sta ad indicare una svolta nella vita di una persona.
Israele sarà chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Non più l’abbandonata, persona lasciata senza cure, protezione e amore; ma verrà chiamata piuttosto “la mia gioia”, “il mio compiacimento”. Ci fa ricordare Dio quando disse a Gesù: in te ho posto il mio compiacimento. Non si tratta solo del cambio di nome ma anche di relazione: un nuovo rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Infatti, la sua terra non sarà più detta devastata ma sposata e avrà un nuovo sposo. È ben chiaro che lo sposo è Dio come è scritto: “come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Siamo dunque chiamati ad accettare questa nuova relazione con Dio e non ci dobbiamo far trascinare dagli altri dei, ma dobbiamo sostenere la nuova relazione con Dio che è sempre fedele e misericordioso, è Lui che afferma: “ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”, (Os 2,21-22). La nuova relazione viene coronata con il vino nuovo.
L’Evangelista Giovanni è l’unico che fece iniziare la sua carriera di rabbi a Gesù inaugurando il suo ministero pubblico con le nozze a Cana, un piccolo villaggio della Galilea. Cana, in ebraico, significa creare oppure fondare. È in Cana, dunque, che Gesù opera il suo primo segno, cioè il primo miracolo che è il fondamento della nuova creazione e della nuova fondazione. A Cana, con il nuovo e buon vino, si realizza la fondazione della nuova alleanza.
Il centro del racconto non è dunque un semplice matrimonio, dove non compare la sposa e solo di passaggio, ma un espediente per conoscere più a fondo Gesù, per rispondere alla domanda che attraversa tutto il quarto Vangelo: chi è Gesù?
Alle nozze, Maria si accorge della mancanza del vino, quello che, secondo la tradizione profetica, indica un elemento tipico del banchetto messianico. Nelle nozze manca l'essenziale; manca quello che rappresenta l'abbondanza del banchetto e la gioia della festa. Tutto sta per finire. Tutto è triste. Maria va da Gesù e lo informa “ non hanno più vino”. Gesù, nella sua risposta, sembra indifferente alla mancanza del vino: “Donna, che vuoi da me?”. Immediatamente, Gesù aggiunge “non è ancora giunta la mia ora”, però “Sua madre disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Maria è obbediente al Figlio e chiede che la sua parola sia ascoltata e realizzata, infatti, i servitori furono davvero obbediente al Maestro. Su sua richiesta i servitori riempirono d'acqua le anfore e le portarono a Gesù, appena assaggiato, non era più acqua ma vino: un vino nuovo e buono.
Nella nuova relazione tra Dio e il suo popolo si deve ascoltare Maria che continua a dire “non hanno più vino”. Maria è una presenza silenziosa ma significativa; una presenza osservante che nota ogni singola mancanza. Maria si accorge della necessità della gente e interviene presso il figlio. Maria è obbediente e raccomanda l'ascolto e l’obbedienza: “qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Infatti, i servitori ubbidiscono. Se si obbedisce a Gesù, ci sarà un nuovo vino, una nuova e vera felicità, nella nuova alleanza, nella nuova relazione tra Dio e il suo popolo.
L’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino “ fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui” (Gv 2,11)
Dunque, anche per Papa Francesco, in queste nozze Gesù lega a sé i suoi discepoli con una Alleanza nuova e definitiva. A Cana i discepoli di Gesù diventano la sua famiglia e a Cana nasce la fede della Chiesa. A quelle nozze tutti noi siamo invitati, perché il vino nuovo non verrà più a mancare.
Il discepolo missionario si sente invitato “a riscoprire che Gesù non si presenta a noi come un giudice pronto a condannare le nostre colpe, né come un comandante che ci impone di seguire ciecamente i suoi ordini; si manifesta come Sposo dell’umanità: come Colui che risponde alle attese e alle promesse di gioia che abitano nel cuore di ognuno di noi”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Is 40,1-5.9-11; Sal 103; Tt 2,11-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22
Nella festa del Battesimo del Signore che conclude il tempo del Natale, la liturgia della Parola ci parla del battesimo di Gesù, nel Vangelo di Luca e del nostro nella Lettera di San Paolo a Tito: “Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo … affinchè, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.” Si tratta dunque di un passaggio: dal battesimo di Gesù al nostro.
Il profeta Ezechiele disse ad Israele che, dopo il peccato verso Dio, aveva meritato l’esilio e che se desiderava rivivere nuovamente con Lui e ricevere il suo Spirito, doveva essere totalmente purificato, pronunciando il simbolismo dell’acqua, “Vi aspergerò con acqua e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli”.
È nell’ambito di questa purificazione che la narrazione del battesimo di Gesù è inserita nel contesto della missione di Giovanni il Battista che, predicando la conversione del cuore, la venuta del regno di Dio e il portare frutto con le buone opere, annunzia colui che battezzerà “in Spirito Santo e fuoco”. Mentre il popolo si faceva battezzare “con acqua” cioè il battesimo di conversione e di pentimento, entra in scena Gesù che, tra la folla, viene anche lui per essere battezzato.
L’evangelista Luca sottolinea anzitutto che il battesimo di Gesù avviene mentre Egli era insieme a “tutto il popolo”. Non descrive il rituale del battesimo di Gesù, egli Lo mette in scena già battezzato: mentre tutto il popolo veniva battezzato, Gesù riceve anche lui il battesimo. Gesù, figlio di Dio, nell’anonimato, si nasconde in mezzo alla gente che si sente peccatrice ma e bisognosa di conversione e di purificazione. La gente va da Giovanni per fare il battessimo di immersione. Gesù non aveva peccato ma si mescola alla folla peccatrice, non aveva bisogno del battesimo di pentimento e di conversione; eppure, si mette in fila per riceverlo.
È in questo momento e in questo gesto che Luca sottolinea la grandezza e la bellezza del battesimo di Gesù: il quale compie il più grande gesto di umiltà e di abbassamento: facendosi battezzare si mescola e solidarizza con tutto il popolo. Gesù facendosi immergere da Giovanni il Battista nelle acque del fiume Giordano solidarizza con tutti i suoi fratelli e sorelle e si manifesta come Dio in mezzo agli uomini. Ecco un gesto di umiltà, di sottomissione a Dio e di totale solidarietà con i fratelli peccatori. Gesù non ha bisogno del battesimo ma si fa battezzare per indicare la sua vera missione: facendosi simile agli uomini, eccetto nel peccato, prende su di sé i nostri peccati per risorgere a una nuova vita.
Nel battesimo, Gesù si fa accanto all’uomo concreto per salvarlo; mettendosi tra i peccatori, Gesù vuole mostrarsi solidale con il peccatore di tutti i tempi, inserirsi umilmente nel sofferto cammino di tutta l’umanità, abbracciando la condizione della gente povera e vulnerabile, manifestando così una meravigliosa solidarietà con il suo popolo, con gli ultimi, con i peccatori.
Il secondo elemento che Luca annota e che merita la nostra riflessione è che mentre Gesù è in preghiera, dopo il Battesimo, viene consacrato Messia dallo Spirito Santo e riconosciuto dal Padre quale era ed è veramente, cioè il Figlio amato, il Figlio del compiacimento del Padre. Gesù è rivelato da Dio come suo Figlio, come il suo prediletto, come il testimone gradito dell’azione salvifica del Padre verso l’uomo, proprio perché compie già il mistero della volontà di accoglienza, di perdono, di comunione, di salvezza che Dio desidera. Nel momento della solidarietà, Dio rivela la vera identità di Gesù: il Figlio, l’amato.
Con il battesimo di Gesù inizia una nuova era per l’umanità: in cui il Figlio di Dio agirà nella storia. Tutto ciò che Gesù compirà nel corso del suo ministero, sarà molto importante perché sarà fatto dal Figlio di Dio stesso. Un’era nuova è cominciata sotto il potere di Dio e in essa tutti i piani di Dio saranno realizzati. Un’ era di fratellanza perché in Gesù siamo tutti fratelli, Gesù Figlio di Dio si è fatto fratello di ogni uomo immerso nelle acque del peccato, ogni uomo unto dallo Spirito, ogni uomo che ha sentito dire “tu sei il mio figlio”.
Come ha sottolineato Papa Francesco, il Suo Battesimo è strettamente connesso al nostro, Gesù si fa carico delle nostre necessità. Di noi che mendichiamo l’amore di Dio, di nostro Padre. Anche tu e io, afferma papa Francesco, possiamo imitare Gesù, uscire e farci carico delle necessità degli altri, «è anche questo il modo in cui possiamo sollevare gli altri: non giudicando, non suggerendo cosa fare, ma facendoci vicini, compatendo, condividendo l’amore di Dio».
Il discepolo missionario è chiamato a imitare Cristo e un modo concreto di farlo è occuparci dei bisogni degli altri e non tanto dei nostri. “Uscire da noi stessi, guardare il bisognoso, che necessita della nostra attenzione, del nostro tempo, del nostro sorriso, ecc. Imitiamo Cristo sollevando lo sguardo verso il prossimo. Questa è la strada della vera felicità, perché c’è più felicità nel dare che nel ricevere”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
58ª Giornata Mondiale della Pace
Nm 6, 22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21
La traduzione dei testi biblici di questa giornata, ci mette davanti ad un verbo: custodire. Nella cosiddetta benedizione sacerdotale di Aronne, la più antica benedizione trasmessa dalla Bibbia, si prega affinché “Dio ci custodisca”, mentre nella narrazione evangelica si dice che Maria custodiva tutte le cose nel suo cuore.
Nella prima delle benedizioni ci sono due invocazioni: “Il Signore ti benedica e ti custodisca”. Si tratta, in primo luogo, di ricevere la vita stessa da Dio e Dio comunica la sua vita, come fece con Adamo, con il suo spirito, attraverso il suo soffio, il suo vento, Dio comunica e dà la vita. La benedizione, oltre a darci la felicità ci comunica la vita stessa di Dio, una vita che non va perduta e distrutta, ma va custodita. Ecco allora la seconda invocazione: Dio che ti ha comunicato la vita possa custodirla.
Qui però viene sottolineato l’aspetto passivo: quello dell’uomo che si lascia comunicare la vita e che si lasci custodire, curare da quello che è l’Autore. Siamo una custodia di Dio, un oggetto prezioso che viene custodito, protetto, come se nell’ essere umano vi fosse un’assenza di reazione. Invece, oltre a pensare alla benedizione come qualcosa che cade su di noi, pensiamo anche al nostro lasciarci andare e abbandonare nelle mani di Dio affinché Questi possa comunicare la sua vita e ci possa custodire senza la nostra resistenza. Questo è l’atteggiamento di Maria che si è rende subito disponibile e diviene una Eva, quella che ha saputo custodire il giardino di Dio: Maria custodisce perché si è lasciata creare plasmare come nuova creatura, ma anche si è lasciata custodire da Dio.
Il brano del Vangelo della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, Regina della Pace, ci offre due semplicissime ma ricchissime righe sulla figura di Maria “quella che sa custodire nel suo cuore”. Per ben due volte, Luca afferma che Maria custodisce nel suo cuore. In un primo momento, davanti a quanto era stato detto ai pastori e che essi divulgarono, Luca afferma che “Maria custodiva tutte le cose, mentre meditava nel suo cuore”. “Maria custodiva tutte queste parole, meditandole in cuor suo”.
Io preferisco questa traduzione. Molti anni dopo Gesù dodicenne dopo lo smarrimento, è ritrovato nel tempio tra i dottori, il terzo giorno Maria e Giuseppe ritornano a Nazareth, Gesù scende con loro e Luca afferma: “sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51).
In ambedue i versetti, Luca usa il verbo greco per definire il verbo “custodire” che assume una sfumatura più profonda quando Luca premette una preposizione diversa, in 2,19 Luca usa la preposizione syn che dà il senso di raccogliere insieme, mettere insieme, in 2,51, usa la preposizione dia, che dà il senso dell’ intensità e della durata. Maria custodiva intensamente e profondamente ed in modo costante
Si può dire che Maria tesoreggiasse, trattenendo insieme nel suo cuore non solo avvenimenti, ma anche notizie, faceva memoria di ogni singola cosa che vedeva e sentiva; nel suo cuore tutto era come una reliquia. Lo stesso verbo rimanda anche a quello usato da Dio, “shamar” in ebraico, quando diede il comando ad Adamo ed Eva nel consegnare loro il giardino: “dovete custodire, curare questo giardino, dovete fare tesoro di esso”.
Maria non solo ascolta, ma mette assieme tutto, confronta, ne prende cura e ne fa tesoro senza buttare gettare nulla, Lei fa memoria o conserva. Luca sottolinea che lei non butta getta nulla di ciò che viene da Dio, di ciò che ella ha visto e udito. Maria non butta getta nulla: sia di ciò che viene sia dall’Angelo, sia da sua cugina Elisabetta, sia dai pastori, sia da quello che Gesù diceva: tutto custodiva e si domandava quale era il senso di tutto quello ciò che accadeva.
Maria ha un cuore che è la custodia di tutto ciò che le accade. Il suo cuore però non è una semplice bottiglia che trattiene un liquido, non è un semplice contenitore. Anche Papa Francesco si domanda: “Che cosa vuol dire custodire la Parola di Dio?”
Per il Santo Padre “Custodire la Parola di Dio vuol dire che il nostro cuore si apre, si è aperto a quella Parola come la Terra si apre per ricevere i semi. La Parola di Dio è un seme e viene seminata. E Gesù ci ha detto che cosa succede con il seme: “alcuni cadono lungo il cammino e vengono gli uccelli e li mangiano; questa Parola non è custodita, questi cuori non sanno riceverla”. Infatti, “custodire la Parola di Dio significa sempre meditare cosa dica a noi questa Parola con quello che succede accade nella vita” cioè confrontare gli avvenimenti della nostra vita, ciò che vediamo, udiamo e viviamo, con ciò che Dio vuole. E’ necessario confrontare con la Parola di Dio la nostra stessa vita.
Attraverso questo atteggiamento Maria era capace di vedere, nel volto del bambino deposto nella mangiatoia, la manifestazione della bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini. Solo custodendo tutte queste cose, nel senso di confrontare con la volontà del Signore e la parola di Dio si può elaborare una sintesi profonda di ciò che stava accadendo a Maria perché Lei era stata capace di entrare nella profondità degli avvenimenti, era stata capace di interpretare i fatti, la vita stessa senza buttare gettare nulla: ne fa un tesoro.
Discepolo missionario è colui che sull’esempio di Maria è capace di essere una custodia, come afferma Papa Francesco: “Custodire la Parola di Dio si fa con questo lavoro: il lavoro di cercare cosa significhi questo in questo momento, cosa mi vuole dire il Signore in questo momento, questa situazione in confronto con la Parola di Dio come si capisce. É leggere la vita con la Parola di Dio e questo significa custodire”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Sir 24,1-4.12-16; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
In questa II Domenica dopo Natale, la liturgia ci popone il prologo del vangelo di Giovanni, cioè i primi diciotto versetti nei quali l’evangelista riesce a rinchiudere, riassumere e riformulare tutto il vangelo, per cui ogni singola parola è ricca di significati. Ebbene, questo prologo inizia correggendo il primo libro della Bibbia, il libro della Genesi.
Il libro della Genesi, lo sappiamo, inizia con le parole “In principio Dio creò il cielo e la terra”; ebbene, l’evangelista non è d’accordo; l’evangelista scrive che “In principio c’era il”, ed è un termine greco, che viene tradotto con “verbo” o “parola”, “logos”, che ha una vasta gamma di significati. Il logos nella Bibbia è la parola creatrice che realizza il progetto di Dio nella creazione. Quindi questo logos, questa parola, è il progetto di Dio che viene realizzato nella creazione.
Il versetto centrale di tutto il prologo è quello più importante. Infatti, scrive l’evangelista al versetto 12 “A quanti però lo hanno accolto” questo progetto - cioè, un uomo con la condizione divina, questo era il progetto di Dio sull’umanità - “ha dato il potere di diventare i figli di Dio”.
Ebbene, la seconda lettura di oggi è il miglior commento a questo inizio del prologo di Giovanni. Ce l’abbiamo nella lettera agli Efesini di Paolo (Ef 1,3-6.15-18), con un testo che, se compreso, cambia veramente il rapporto con Dio e il rapporto con gli altri.
Inizia Paolo la lettera agli Efesini con una benedizione al Signore, dice che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale. Spirituale non significa eterea, evanescente, ma che agisce nello Spirito; perché? “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”.
Ecco, come ha scritto l’evangelista Giovanni, che Dio in principio non creò il cielo e la terra, ma, prima ancora di creare il cielo e la terra, c’era questo progetto sull’umanità, un uomo con la condizione divina, e lo stesso dice Paolo. Quindi prima della creazione del mondo ci ha scelti.
Noi non veniamo al mondo, alla luce per un caso, veniamo perché Dio ci ha scelti. Dio, prima ancora di creare il mondo, ha pensato a ognuno di noi perché voleva manifestarsi attraverso ognuno di noi in una forma nuova, originale e creativa, voleva arricchire la creazione con la nostra presenza.
E dice che ci ha scelti per essere “santi”, santi significa separati da ogni forma di male, e immacolati al suo cospetto. Cosa significa immacolato? Dio è nella purezza e l’immacolato è colui che non ha ostacoli, non ha barriere per entrare in comunione con questo Dio che è puro. Quello che rende impuro l’uomo nei vangeli, lo sappiamo, è il male che volontariamente si fa agli altri.
Ma continua qui l’apostolo Paolo, dice “predestinandoci” - c’è quindi una predestinazione - “ad essere suoi figli adottivi”. L’adozione alla quale si riferisce Paolo non è l’istituto che noi conosciamo, l’accoglienza in seno alla famiglia per amore di un bambino, no; si rifà a un’istituzione giuridica in voga a quel tempo, con la quale il regnante non lasciava mai il proprio regno in eredità a uno dei figli, ma sceglieva tra i propri ufficiali, tra i propri generali, colui che pensava avesse la capacità di portare avanti il suo regno e lo adottava come figlio.
Quindi era il gesto con il quale normalmente l’imperatore sceglieva qualcuno che portasse avanti il suo impero. Abbiamo, per esempio, nella storia imperatori come Traiano, come Adriano, come Marco Aurelio che sono stati tutti adottati dall’imperatore precedente.
Allora cosa significa questa adozione a figli adottivi? Che Dio, il creatore, ha tanta stima in ognuno di noi, si fida tanto di ognuno di noi che ci crede capaci di collaborare alla sua azione creatrice. Per Gesù Dio non ha creato il mondo, Dio lo crea e ha bisogno di ognuno di noi per continuare a creare questo mondo. Allora il brano del vangelo e l’augurio che ci facciamo in questo inizio dell’anno è di comprendere, accogliere questo progetto di un Dio che ci ha creati per creare, siamo vivi per vivificare gli altri e poi amiamo per rendere gli altri capaci di accogliere l’amore.
* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).