In un mondo di scoperte scientifiche quotidiane, c'è la tendenza a puntare sempre al nuovo e a dimenticare il vecchio. C'è il rischio di correre per nuove discipline e corsi accademici e dimenticare le “materie tradizionali" come lo studio della storia. La mentalità progressista del mondo odierno vede l’attenzione al passato come un'occasione sprecata.
Molte persone credono che dovremmo continuare ad andare avanti, cercando sempre cose nuove e senza fare troppo riferimento al passato. In effetti, ci sono molti che vedono lo studio della storia come noioso e irrilevante oppure entrambe le cose. C'è la necessità, come Congregazione, di promuovere lo studio e le specializzazioni nel campo della storia perché ciò che oggi noi conosciamo e sappiamo di noi stessi è dovuto allo sforzo di alcuni nostri confratelli che in passato si sono impegnati e dedicato tempo ed energie alla raccolta di documenti e preparare studi approfonditi e scientifici sulla storia dell’Istituto.
Imparare la nostra storia potrebbe non sembrare importante al momento in cui gli eventi accadono, ma con il passare degli anni, iniziamo a comprenderne l'importanza. In verità, studiamo la storia affinché la storia non rimanga alle nostre spalle e anche perché essa ci aiuta a capire come gli eventi del passato hanno creato le premesse per lo sviluppo degli eventi fino ad oggi.
Le storie dei nostri primi missionari in diverse parti dell'Africa, narrano dei viaggi intrepidi che hanno fatto verso luoghi sconosciuti, il coraggio per superare le sfide e l’intraprendenza per sopravvivere in terre piene di imprevisti e pericoli senza precedenti. Con le lezioni del passato, non solo impariamo a conoscere noi stessi e come ci siamo sviluppati, ma anche la capacità di evitare errori e così essere in grado di creare percorsi migliori per le nostre società. Ciò significa che la storia non è semplicemente uno studio di situazioni ed eventi lontani da noi. Le persone a cui pensiamo nel passato, vissute per decenni in una certa missione, anche se non le abbiamo conosciute personalmente, le loro storie e le loro imprese, influenzano direttamente il modo in cui viviamo la nostra vita e missione oggi. Eventi ed imprese richiamati da delle semplici date del calendario hanno, però, segnato delle pietre miliari del processo storico che ha coinvolto il nostro Istituto.
L'ex presidente dell'American Historical Association, William H. MacNeill, ha scritto: "La conoscenza storica non è né più né meno che una memoria collettiva costruita con cura e critica” (In Chris Lorenz, La linea di confine: La Storia 'scientifica' fra costruzione e decostruzione del mito). Vale a dire che la ricerca storica costruisce e codifica avvenimenti e fatti che ci rendono un popolo. Ne consegue che dallo studio della nostra storia come Istituto, impariamo la strada che abbiamo fatto e che ci ha portati dove attualmente siamo e perché viviamo e ci comportiamo in un determinato modo. Lo studio della nostra vita, del nostro posto nel mondo e del nostro scopo e missione in un mondo che continuamente cambia e si evolve, ci fornisce spunti sulle possibili strategie che dovremmo usare per realizzare con successo la nostra missione.
Senza conoscere le storie che ci hanno formati e reso ciò che siamo, non potremmo comprendere tutti i nostri successi e fallimenti e ripeteremmo continuamente schemi senza costruire qualcosa di nuovo, di originale e migliore. Questo è il motivo per cui il filosofo spagnolo, George Santayana, nella sua monumentale opera, ha sottolineato che: "Coloro che non riescono a ricordare il passato sono destinati a ripeterlo" (Cfr. George Santayana, The Life of Reason: The Phases of Human Progress, Alpha Editions, 2023). Imparare dai nostri missionari che ci hanno preceduto è un passo importante per rendere il nostro futuro più luminoso.
Oggi, come ha scritto Papa Francesco, c'è bisogno di "sottolineare l'importanza di sviluppare un autentico senso della storia nei giovani studenti di teologia” (Lettera sul Rinnovamento dello studio della Storia nella Chiesa, 21 novembre 2024). È piuttosto scoraggiante vedere che come Istituto non siamo ancora riusciti a preparare un team di storici che potrà traghettarci verso un livello successivo. Molte Regioni hanno anni e anni di storia pieni di esperienze missionarie molto interessanti da raccontare, ma, purtroppo, non sono ancora documentate. Questo spiega il motivo per cui Papa Francesco - sempre nella stessa lettera - ha sollecitato a promuovere nei giovani studenti di teologia “una reale sensibilità storica. Con quest’ultima espressione voglio indicare non solo la conoscenza approfondita e puntuale dei momenti più importanti dei venti secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle, ma anche e soprattutto il sorgere di una chiara familiarità con la dimensione storica propria dell’essere umano”.
È un dato di fatto che nessuno può conoscere veramente la propria identità più profonda oppure quello che desidera diventare in futuro, senza considerare attentamente i legami che lo uniscono alle generazioni precedenti. Questo vale non solo per noi singolarmente, ma anche come comunità. Infatti, lo studio e la scrittura della storia ci aiutano a mantenere viva "la fiamma della coscienza collettiva” (Papa Francesco, Messaggio per la 53esima Giornata Mondiale della Pace 2020). Se ciò non viene fatto, tutto ciò che rimane di ciò che sperimentiamo si limita alla memoria personale di fatti legati ai nostri interessi o sensibilità, senza alcun collegamento reale con la comunità umana ed ecclesiale in cui viviamo. È un’occasione per invitare sempre più persone nell'Istituto a seguire corsi di specializzazione nei diversi ambiti della storica, perché in verità è l'unico modo in cui possiamo informare e formare le prossime generazioni non solo su ciò che abbiamo vissuto, ma anche su ciò che le nostre presenze in molti luoghi del mondo hanno significato.
Visita del canonico Giacomo Camisassa ai primi missionari in Kanya
Una “corretta sensibilità storica”, come lo chiama il papa Francesco, può aiutare ciascuno di noi a sviluppare un migliore senso delle proporzioni e della prospettiva per arrivare a comprendere la realtà così com'è e non come la immaginiamo o come vorremmo che fosse.
Ciò significa che se sviluppiamo un senso appropriato della storia riguardante il nostro Istituto, i missionari e le nostre missioni, faremmo un servizio grande ai missionari giovani superando la paura di un passato glorioso che rischia di andare perduto. Questo perché, mettendo da parte le astrazioni pericolose e disincarnate del nostro mondo odierno, diventeremmo capaci di relazionarci alla realtà così com'è e come ci chiama alla responsabilità etica, alla condivisione e alla solidarietà. In altre parole, lo studio della nostra storia può aiutarci a conoscere bene l'Istituto e ad amarlo così com'è, senza propagare sogni di una realtà che crea solo paura e scoraggiamento.
Venendo a conoscenza delle “imprese” compiute dai nostri missionari in passato, anche noi siamo in grado di appurare che la nostra famiglia missionaria non è particolarmente speciale e men che meno “alla deriva”. Anzi la conoscenza della storia ci aiuterà a metterci nei panni dei fratelli che ci hanno preceduto come uno stimolo per impegnarci sempre di più per la costruzione del Regno di Dio, per la conservazione della nostra memoria e per il rinnovamento di un Istituto all’altezza delle generazioni future.
* Padre Jonah M. Makau, IMC, Postulatore e direttore dell'Ufficio Storico.
In un mondo che oggi guarda troppo al futuro, molte persone non vedono il valore della storia. La preoccupazione per il futuro ci tiene sulle spine e l'ansia di raggiungere gli obiettivi prima ancora di averli stabiliti ci tiene svegli. La preoccupazione per il futuro sembra farci vivere nel futuro.
Questa tendenza è però controproducente, perché non c'è futuro senza uno sguardo al passato che trasformi il presente. Questo spiega perché la storia è fondamentale. Lo studio e la scrittura della storia mantengono viva la coscienza collettiva delle persone. Questo ci porta al punto di questa riflessione: Nel nostro Istituto dobbiamo far rivivere l'amore per la storia dell'Istituto. Siamo ciò che siamo grazie agli sforzi e ai sacrifici di molti missionari precedenti. Sappiamo quello che sappiamo dell'Istituto grazie a missionari che, oltre alle tante attività che potevano svolgere, hanno anche trovato il tempo di scrivere e documentare le cose.
La futura generazione dell'Istituto Missioni Consolata si aspetta di imparare da noi, così come noi abbiamo imparato dagli altri. L'Ufficio Storico dell'Istituto ci ricorda questo nobile dovere. Per chi non lo sapesse, l'Ufficio Storico dell'Istituto è uno degli uffici che assistono la Direzione Generale nelle attività previste dalla nostra Costituzione, numero 132. L'Ufficio storico ha quattro compiti principali.
Padre Gabriele Perlo con gruppo di giovani a Tuthu, la prima missione nel Kenya. Foto: Archivio IMC
Primo, raccogliere materiali, documenti e testi sul fondatore, sulla vita dell'Istituto e dei suoi membri, sulle missioni, sugli scritti e sui testi dei missionari (vivi e defunti). Secondo, conservare e curare la catalogazione scientifica di tutto il materiale, in modo da facilitarne la consultazione. Terzo, produrre il materiale sugli argomenti del primo punto. Infine, diffondere all'interno e all'esterno dell'Istituto quanto prodotto o raccolto.
Con l'avvicinarsi della fine dell'anno, l'Ufficio Storico invita tutti noi a partecipare allo sforzo di recuperare la memoria storica del nostro Istituto. Sarebbe incoraggiante se ogni missionario fosse abbastanza attento da identificare gli “oggetti” che definiscono la nostra identità, o che rimandano alla nostra storia, ma soprattutto se si mettesse in contatto con i superiori per capire come prendersi cura di questo materiale. È doloroso quando lasciamo le parrocchie con tutti gli oggetti storici dei missionari, che avrebbero dovuto essere conservati dall'Istituto.
L'Ufficio Storico chiede a tutti noi di essere orgogliosi di ciò che siamo, e quindi di essere disposti e pronti a fare lo sforzo necessario per ricordare la testimonianza di molti missionari che hanno definito una certa epoca della vita dell'Istituto.
In secondo luogo, l'Ufficio Storico invita tutti noi a ricordare il dovere di comunicare la nostra storia. Non basta accumulare bei ricordi dell'Istituto che hanno fatto la sua storia. Abbiamo tutti il dovere di condividere, comunicare e far sì che le nuove generazioni sappiano chi siamo e cosa siamo stati nel corso degli anni. Lo sforzo di raccontare la nostra storia è molto importante. Attribuisce un significato all'esistenza di ciascuno di noi. Ci permette di essere radicati in ciò che siamo. E dà un significato a ciò che è stato raggiunto finora.
Padre Jonah M. Makau, IMC, Direttore dell'Ufficio Storico
In terzo luogo, l'Ufficio Storico ricorda a tutti noi il dovere di mantenere vivi i diversi “strumenti” che hanno caratterizzato la nostra storia. Questi strumenti includono, tra l'altro, i diari dei nostri missionari. Questi sono una fonte preziosa di informazioni su ciò che sappiamo della vita dell'Istituto agli inizi. Anche il fondatore San Giuseppe Allamano trovò il modo di seguire la vita dei missionari e di vedere, mentre era a Torino, come si svolgeva l'organizzazione delle missioni. I musei e i centri culturali sono altri strumenti in cui abbiamo raccolto i simboli della nostra storia. Abbiamo il dovere di mantenerli vivi, facendoli conoscere di più alle persone che ci circondano.
Infine, Ufficio Storico ci invita a conservare e a far conoscere le opere di tanti missionari operosi che, giorno e notte, lottano per mantenere vive le vicende del loro lavoro. Abbiamo un patrimonio prezioso, espresso dalla testimonianza di molti missionari. In verità, il dono più grande che abbiamo è l'esempio e la testimonianza dei nostri missionari. Abbiamo il dovere di rendere la loro vita e i loro scritti parte di noi, perché solo così possiamo far parte della loro grande storia.
Mentre ci avviciniamo alla fine dell'anno, l'Ufficio Storico ci ricorda che nessuno può conoscere veramente l'identità più profonda o ciò che desidera essere in futuro senza occuparsi dei legami che lo uniscono alle generazioni precedenti. Quindi risvegliare un adeguato senso della storia con l'avvicinarsi del nuovo anno ci aiuterà a sviluppare un migliore senso delle proporzioni e della prospettiva nel comprendere la realtà dell'Istituto e dell'intera Chiesa, così com'è e non come la immaginiamo o vorremmo che fosse. Questo tipo di sforzo servirà come misura correttiva all'approccio sbagliato che vede le cose da una difesa trionfalistica della nostra funzione o del nostro ruolo nella Chiesa.
* Padre Jonah M. Makau, IMC, Direttore dell'Ufficio Storico, Roma
L'arazzo di Giuseppe Allamano visualizzata sulla facciata della Basilica di San Pietro in Vaticano nel giorno della canonizzazione il 20 ottobre 2024. Foto: Jaime C. Patias
Carlo Zacquini è un fratello Missionario della Consolata che ha raggiunto l’Amazzonia brasiliana alla fine degli anni sessanta... e non l’ha mai abbandonata. Molto, nella missione del Catrimani, parla di lui.
Quando sono arrivato non parlavo nemmeno portoghese, mi hanno dato una grammatica e un dizionario e ho dovuto cominciare da solo e senza aiuto ma non capivo niente. Dovevano essere certamente una buona grammatica e un buon dizionario ma non erano pensate per uno straniero: ci sarebbe stato bisogno di una guida o di una persona che mi potesse aiutare. Ho chiesto al nostro superiore di andare in una scuola della prelazia per assistere a qualche classe di portoghese assieme ai bambini ma lui mi ha risposto che non era necessario. Quindi sono stato assegnato a dei lavori manuali per i quali non avevo molto bisogno di usare il portoghese, la mia professione era meccanico aggiustatore ed ero andato là per montare una scuola professionale, e così lavoravo dalla mattina alla sera.
Gli indigeni li ho scoperti quando alcuni di loro, di passaggio in città, tendevano le loro amache in un portico della Prelazia e si alloggiavano da noi. Loro venivano in città cercando di risolvere alcuni problemi e dovevano ricorrere alle istituzioni statali incaricate degli indigeni, si trattava quasi sempre di funzionari che non risolvevano un bel niente. L’unico appoggio esterno che ricevevano era quello della chiesa e per quello si fermavano con noi.
Loro parlavano un portoghese molto elementare e quindi io riuscivo a capirli magari anche meglio degli altri; anni dopo vennero pubblicati in un libro chiamato “Ritorno alla Maloca” tanti dei loro racconti che il padre Silvano Sabatini aveva registrato. Ricordo la testimonianza di un leader che era venuto in città per recuperare una giovane donna che una famiglia aveva portato a Boa Vista con tantissime promesse, poi alla fine tutte disattese, ma che alla fine lavorava gratuitamente nella casa.
Molto presto mi sono innamorato della causa degli indigeni e della missione in mezzo a loro. La prima volta che ho abbandonato la città è stato per raggiungere un gruppo di indigeni non contattato che era stato avvistato: li abbiamo potuti raggiungere e siamo stati con loro tre giorni. È stata una cosa veramente fantastica: io sono rimasto super impressionato da questa esperienza e da quel momento ho cercato di fare tutto quello che era possibile per poter andare a lavorare con questa popolazione.
Quella missione, dove ho passato tutta la mia vita missionaria, è stata fondata quando io ero già là ma stavo lavorando alla famosa scuola che era stato il mio primo lavoro. I primi missionari nella missione del Catrimani sono stati p. Giovanni Calleri e p. Bindo Mendolesi che erano partiti alla fine del 1965. Loro con delle barche e un certo numero di uomini, la maggior parte di loro indigeni, avevano disceso il Rio Branco e risalito il Rio Catrimani, superando anche rapide e cascate, fino a un certo punto dove decisero fermarsi e organizzare una prima sede della missione aprendo anche una piccola pista di atterraggio. Gli indigeni erano nei paraggi ma non vicino al fiume grande anche perché quello è il regno di una quantità straordinaria di zanzare che fanno, per dirlo nel migliore modo possibile, la vita quasi impossibile. Questo gli indigeni lo sapevano e invece noi no. Io usavo pantaloni lunghi, mettevo le calze sopra i pantaloni, usavo anche camicie con maniche lunghe e anche così non ero al sicuro del tutto.
Quando io raggiunsi quella missione, pochi mesi dopo essere stata aperta, c’era già la pista che si poteva usare, anche se poi ho dovuto lavorarci non poco per metterla in buone condizioni. Ero andato là perché Calleri era andato via e il padre Bindo era anche parecchio stanco: non riusciva a imparare la lingua e non riusciva nemmeno a cominciare a battezzare e far catechesi; per lui quella non era una missione.
Mi avevano mandato per fargli compagnia durante un mese e alla fine di quel mese ci sarebbe stata la visita canonica che avrebbe dovuto prendere delle decisioni con rispetto alla nuova missione. Quando arrivò l’aereo che doveva portare i visitatori da quello scendono il superiore generale Fiorina, il vescovo, il superiore regionale... c’era spazio solo per il padre Bindo che aveva l’intenzione di tornare a Boa Vista.
Non era per niente facile rimanere là. Anche a me sarebbe piaciuto dire che volevo tornare a Boa Vista ma né ebbi il coraggio di farlo soprattutto perché temevo che se l’avessi fatto forse non mi avrebbero più rimandato indietro e io ci tenevo a continuare quella avventura.
Loro rimasero con noi non più di due o tre ore; in quel tempo il padre Fiorina, Superiore Generale, mi convocò nella baracca di paglia che era la nostra casa e mi chiese se volevo rimanere in quella missione. Quando dissi di sì la mia consacrazione al Catrimani era completa. Certamente avrei magari anche dovuto dire che erano finite le munizioni per la caccia così necessaria per mettere qualcosa sotto i denti; anche la baracca non era stata ben costruita, aveva il tetto troppo alto e quando pioveva forte ci pioveva dentro; anche la barca aveva problemi... ad ogni modo accettai la decisione e non aggiunsi nient’altro; le cose materiali si sarebbero poco a poco sistemate.
Oggi se dovessi rifarlo lo rifarei esattamente allo stesso modo, volevo rimanere con quella gente della quale tra l’altro capivo ancora abbastanza poco. Non ero affatto preparato per quell’incontro, per quella cultura, per studiare una lingua sconosciuta (non si sapeva di qualcuno che l’avesse studiata e se magari questi studi ci fossero noi non ne avevamo accesso). Addirittura non sapevo nemmeno come si chiamasse questo popolo: si usavano nomi comuni e generici per indicarlo.
Che si chiamassero Yanomami... l’ho saputo quando un giorno, mentre stavo sistemando delle cose nella mia baracca, ho sentito due uomini adulti che parlavano fra di loro e sembrava stessero indicando loro stessi con questo nome. Li ho interpellati e mi hanno confermato il nome e anche detto che tutti gli altri, me compreso, si chiamavano Nap. Era la prima volta che sentivo quel nome, dopo vari mesi. Chissà quante volte avevano detto quella parola anche in mia presenza, ma io non l’avevo mai percepito. Nap era per indicare persone straniere e anche persone pericolose.
Quando sono tornato a Boa Vista la prima volta ero così malconcio che mi hanno subito portato all’ospedale dove sono rimasto due mesi. Appena mi hanno dimesso sono partito in fretta e furia per comprare alcune cose di cui avremmo avuto bisogno nella missione e sono ritornato.
Il primo anno sono stato alla fine quasi tutto l’anno da solo fino a quando mi ha raggiunto il padre Saffirio. Erano quelli i giorni in cui il padre Calleri, che si era imbarcato in una missione pericolosa, aveva smesso di comunicare via radio e si stava temendo il peggio. La prima notizia della morte di Calleri io la seppi dalla radio “Voice of America” che era l’unica che si poteva sentire. Poche settimane dopo il silenzio radio la sua spedizione venne ritrovata massacrata.
Con il padre Saffirio abbiamo fatto abbastanza tempo assieme e assieme è un modo di dire perché quando io dovevo tornare a Boa Vista per essere curato all’ospedale Saffirio era nel Catrimani. Poi magari ci davamo il cambio, io al Catrimani e lui all’ospedale. Era davvero una missione difficile. Oggi noi là abbiamo una piantagione e prodotti che possiamo coltivare, raccogliere e consumate ma allora si era al principio e non c’era niente di tutto questo. Nemmeno gli Yanomami coltivavano alcunché. Da buoni cacciatori e raccoglitori, ogni giorno andavano in foresta per raccogliere o cacciare quello di cui avevano bisogno per sfamarsi. Al principio io li seguivo con la mia calibro 22 che è risultata essere abbastanza efficiente: tutto quel che cadeva dagli alberi era commestibile; il frutto della cacciagione si divideva fra tutti con un criterio tipico degli Yanomami.
Noi poco a poco abbiamo introdotto anche “rinnovamenti” nei costumi degli Yanomami: utensili, strumenti di lavoro per l’agricoltura. Ci eravamo anche inventati una specie di “moneta interna”: dei piccoli cartellini colorati che erano consegnati a cambio di lavoro o servizi prestati. Le buste erano tutte assieme ma nessuno ha mai pensato sottrarre ad altri i cartellini... per la loro mentalità tutto era per la comune utilità.
Immagine di una comunità Yanomami. Foto Sabatini. Archivio IMC
Non è un futuro affatto facile... in tutti questi anni si è fatto proprio di tutto per eliminarli in qualche modo: l’abbandono, l’invasione delle terre, la contaminazione dei fiumi, lo sfruttamento minerario, la mancanza di servizi... tutto congiura contro i popoli indigeni amazzonici come gli Yanomami.
Certamente tanto è stato fatto come per esempio quella campagna internazionale per mezzo della quale si è giunti al riconoscimento e alla protezione del loro territorio ancestrale che è il più grande del Brasile. Quindi ci sono tutti gli strumenti legali... ma non sempre sono rispettati. In modo drammatico, soprattutto durante il governo Bolsonaro che era un nemico giurato degli indigeni, si stava cercando di annullare tante conquiste.
La strada che il governo militare aveva costruito nelle prossimità di questo territorio, era costata milioni di dollari e l’abbiamo sfruttata anche noi (e in parte anche mantenuta) per non dipendere troppo dai taxi aerei che erano costosi, incerti e a volte anche pericolosi. Ma alla fine abbiamo rinunciato perché era diventata la via di ingresso di ogni genere di cose e persone che venivano a fruttare le ricchezze dell’Amazzonia e a distruggere l’unico ambiente nel quale gli Yanomami possono vivere degnamente. La situazione a volte degenerava a tal punto che c’erano anche stati degli scontri armati ai quali gli Yanomami non prendevano opporsi né per numero né per capacità militare ed erano costretti a fuggire.
È difficile dare una dimensione a questo sterminio e a queste morte: non esiste un censimento sicuro del numero di indigeni e nemmeno un registro delle causa di morte.
Dopo il periodo terribile di Bolsonaro è arrivato il governo di Lula che, pur non essendo specialmente sensibile alla situazione indigena anche perché le sue estrazioni sono molto diverse, si è dichiarato a favore delle minoranze etniche ed è disposto a riparare molti dei danni che sono stati fatti.
Non sarà facile, sarà un lavoro duro e anche molto lungo: ci sono poche persone preparate per poter risolvere certi problemi in mezzo a una popolazione come quella; ci sono molti medici che si offrono come volontari per andare, ma non sanno cosa fare; la mancanza di interpreti e di una minima conoscenza di questa popolazione tante volte è perfino controproducente. Io spero solo che possano persistere in questa lotta perché la situazione è terribile e i bambini continuano a morire.
Poi bisogna anche sottolineare che, malgrado le buone intenzioni del governo, in varie occasioni la polizia non è riuscita a mandare via i garimpeiros. Loro sono ben organizzati, ben armati e sufficientemente protetti. Le minacce sono all’ordine del giorno e fanno desistere o posticipare azioni che sarebbero necessarie ed urgenti. La legge è bella ma come sempre quando il danneggiato è un povero che non ha peso politico, militare ed economico... allora non sempre si applica come si dovrebbe.
L'unità nella diversità è una cosa lodevole. Ogni volta che si parla di “unità nella diversità” si cerca di trasmettere l’idea che, anche se spesso siamo molto diversi, possiamo comunque stare insieme e trattare di raggiungere un obbiettivo comune. È un altro modo per dire che la diversità di idee, visioni del mondo e prospettive non significa necessariamente inimicizia o rivalità. Quando non c'è diversità, possiamo metterci d'accordo molto velocemente su ogni tipo di questione ma solo perché la pensiamo allo stesso modo. Ma sai qual è il lato negativo di tutto questo? Quando non ci sono punti di vista divergenti, non c'è nemmeno crescita o progresso; la mancanza di punti di vista divergenti può sembrare inizialmente gradevole, ma prima o poi le persone si annoiano per la monotonia e perdono interesse per una unità insipida: se non viene introdotta una visione divergente si corre il pericolo che l’intera costruzione crolli.
Nel nostro Istituto, quando si parla del Beato Giuseppe Allamano e di Mons. Perlo, c'è un disagio che attraversa la mente della maggior parte dei missionari. Non è infatti un segreto che i due avessero modi molto diversi di vedere le cose, ma credo che a prescindere dalle loro differenze di personalità, carattere e modo di fare le cose, la loro unità era evidente nel desiderio di vedere crescere un Istituto migliore e più forte. Non so se sei d'accordo oppure no, ma io sarei dell’idea di chiamare Mons. Perlo il “soldato dimenticato” del nostro Istituto. Nella mia responsabilità come formatore in alcune occasione gli studenti mi hanno chiesto: “perché diamo tanto credito al padre Allamano per l'Istituto quando in verità quando si parla di missione l'unico di cui sentiamo parlare è di Mons. Perlo?” Non chiedermi come ho risposto alla loro preoccupazione e lasciamo questo tema per un’altra occasione. Per adesso voglio solo spiegare perché chiamo Mons. Perlo in questo modo. Lo chiamo “Soldato” perché la sua combattività a favore della missione è fuori discussione; e lo considero “dimenticato” perché molto spesso non ricordato, ignorato e trascurato. Nella vita di Mons. Perlo mi sembra che bisogna riconoscere alcuni aspetti che sono importanti.
In primo luogo, anche se la decisione di fondare un Istituto Missionario è legata al carisma di Giuseppe Allamano, lui sapeva che la sua salute non gli avrebbe permesso di andare in missione; aveva bisogno di bisogno di qualcuno forte che andasse ad aprire le missioni in Africa; detto in termini “militari” il padre Allamano aveva bisogno di qualcuno che andasse in trincea. Padre Perlo fu tra i primi quattro missionari che Giuseppe Allamano ha inviato nelle trincee della missione ed è stato un pioniere nel nostro primo approccio a una concreta realtà di missione. Il pioniere è una persona che crea un percorso, è un innovatore, uno che assicura che le cose funzionino con le buone o con le cattive. Un pioniere è qualcosa di simile alle fondamenta che in una casa né sono visibili né sono belle come le pareti esterne, ma senza di loro nessun edificio può sostenersi. I primi quattro missionari che hanno aperto la missione a Tuthu sono autentici pionieri; nonostante le loro debolezze sono grandi uomini degni di ammirazione. Sfortunatamente nella nostra narrazione il loro credito sembra svanire.
In secondo luogo, da buon “soldato” il padre Perlo era molto esigente nel compiere il suo dovere. Quando le persone sono dure con gli altri ma indulgenti e morbide con se stesse li chiamiamo dittatori ma padre Perlo non era così: era duro con gli altri, ma lo era soprattutto con se stesso. Forse avrebbe dovuto capire che non tutti erano forti come lui ma qualsiasi leader ti dirà che se sei un pioniere e le persone devono dipendere dalla tua direzione per la crescita e il progresso, la morbidezza è una debolezza. Quando nella mente dei tuoi seguaci si insinua l’idea che un progetto “è difficile per non dire impossibile”, questo è morto in partenza. La stessa cosa è successa con Giovanni Marco e San Paolo; quando questo iniziò a mostrare rallentamenti mentre accompagnava San Paolo nel suo secondo viaggio missionario, questi lo congedò e scelse Sila come suo compagno di viaggio (cf. Atti 15,37-39). Padre Perlo era un bulldozer come San Paolo, entrambi uomini dal carattere forte. Era necessario esserlo se l'Istituto doveva prendere forma e impiantarsi tra le popolazioni Kikuyu e Meru in Kenya, una terra nella quale il padre Allamano non ha mai messo piede.
In terzo luogo spero che tu sia d’accordo con me sul fatto che le idee senza azioni sono inutili. È vero anche che senza una buona idea non si può fare nulla, ma abbiamo mai pensato a cosa sarebbe successo con le buone idee del padre Allamano se non avessero trovato una brava persona per metterle in atto? Cosa sarebbe successo se i quattro missionari pionieri fossero stati dei deboli che non potevano sostenere nessuna idea? Ti dirò io cosa sarebbe successo: i cento ventidue anni di esistenza dell'Istituto sarebbero nel migliore dei casi pochi anni, nel peggiore solo pochi mesi. Se le idee di Giuseppe Allamano non si fossero incarnate nel carisma del padre Perlo, oggi il Fondatore sarebbe stato un altro padre Ortalda, l'uomo delle scuole apostoliche per la formazione dei missionari, morto nel 1880 frustrato dopo il fallimento dei suoi progetti. Senza l’impegno del padre Perlo il progetto dell’Allamano sarebbe rimasto solo un’idea. Lui era pratico e pragmatico fino il fondo ed è buono ricordare che poi è anche diventato il fondatore di un fiorentissimo istituto religioso femminile in Kenya: le Suore dell'Immacolata!
Insomma, non è mia intenzione elevare padre Perlo sopra il nostro Fondatore. Come hanno notato più volte i miei studenti, quando si parla di missione, si parla di padre Perlo e non potremmo parlare dell’Istituto Missioni Consolata, nei suoi primi passi in Africa, senza fare riferimento a Lui. Giuseppe Allamano ha fatto molto nel gestire tutto da Torino ma l'uomo che aveva gli stivali per terra era padre Perlo e i suoi primi compagni. La sua influenza non può essere sottovalutata dato perché, anche se andò inizialmente in missione come economo del gruppo, in breve tempo ne fu il superiore. Ogni impresa che l'Istituto conseguì in quegli anni fu da lui intrapresa o da lui ispirata: è l'uomo che ha dovuto sopportare le punture delle spietate zanzare africane; l'uomo che ha attraversato i fiumi prima di costruirvi ponti; l'uomo che ha dato forma a quello che oggi chiamiamo con orgoglio IMC. Le sue impronte segnano la grande storia del nostro Istituto missionario.
Non sorprende che il padre Allamano lo abbia rispettato per quanto fosse difficile assecondarlo. Quelli che sono abbastanza onesti ti diranno che i due erano complementari: l’Allamano rappresenta lo stile religioso dell'Istituto e invece Perlo ne rappresenta quello missionario; era pregevole il suo desiderio di vedere predicato il vangelo ovunque, immediatamente e con qualunque mezzo a disposizione. Pensando alla cattiva immagine che abbiamo di lui nell’istituto vale la pena citare un detto swahili: "Mnyonge muue lakini haki yake mpe" (anche se devi uccidere l'uomo debole, almeno riconosci il suo diritto). Sarebbe come dire che, indipendentemente dai molti punti che potresti avere contro una certa persona, almeno devi riconoscere ed apprezzare ciò che di positivo c’è in lui. A questo missionario, “soldato dimenticato”, dovremmo essere assolutamente grati e come persone riconoscenti, credo che sia giunto il tempo per noi, come Istituto, di fare qualcosa per ricordarlo... magari anche una statua, ma è una mia opinione.
Nel giorno di San Francesco d’Assisi abbiamo visitato la comunità di Rivoli dove ci sono tre dei nostri missionari: P. Claudio Fattor, P. Gianfranco Testa e P. Mario Dotta. Rivoli è un luogo molto importante per la storia della nostra congregazione: in questa casa il Beato Giuseppe Allamano ha soggiornato e lui stesso racconta come l’ha avuta. “Mons. Demichelis che aveva fondato un collegio di maestre -racconta lo stesso Allamano a un gruppo di studenti- un giorno mi fa chiamare e chiede di andarlo a vedere. Era molto malato ma aveva qualcosa da dirmi che non riusciva ad esprimere. Allora la serva tira fuori un foglio e me lo dà, dicendo che il malato aveva detto di consegnarlo a me personalmente. Io lo guardo e vedo che era il suo testamento; lo apro e vedo che mi lascia erede di tutte le sue sostanze. Sono rimasto stupito e non sapevo come spiegare quella cosa. Così mi ha lasciato la casa della Consolatina e questa di Rivoli. Voi che siete giovani ricordatevi di queste cose”. Fu a Rivoli che il fondatore redasse le nostre prime costituzioni che hanno guidato il nostro istituto; oggi, l'ufficio che il fondatore usava, è stato trasformato in una cappella.
Più tardi, la sera, siamo andati a Messa nella parrocchia di Maria Regina Delle Missioni, una parrocchia da anni diretta dai Missionari della Consolata dove padre Pietro Morreti è parroco e padre Gigi Anataloni vice parroco. Ci siamo uniti ai parrocchiani per un momento di preghiera che, nella festa di San Francesco d’Assisi, era orientata attorno a temi di carattere ambientale. Alcuni di noi hanno anche avuto modo di condividere con i parrocchiani la loro esperienza missionaria.
La Sacra di San Michele è un imponente complesso architettonico religioso di epoca romanica che è stata fondata intorno all’anno mille e dal 1994 è il monumento simbolo della Regione Piemonte. Nata come abbazia benedettina, è uno dei più antichi luoghi di culto dedicati all’Arcangelo Michele; i padri Rosminiani ne sono gli attuali custodi.
Dal XII al XV secolo visse il periodo del suo Massimo splendore storico, divenendo uno dei principali centri della spiritualità benedettina in Italia. Nel XIX secolo vi fu insediata la Congregazione dei padri Rosminiani. Nel 2015, il sito è stato uno dei vincitori del concorso fotografico Mondiale. Nel 2016 il museo del complesso monumentale abbaziale è stato visitato da oltre 100.000 persone.
La parte settentrionale del complesso, oggi in rovina, fu costruita nel XII secolo come “Nuovo monastero”, per il quale furono aggiunte tutte le strutture per la vita di molte decine di monaci: celle, biblioteca, cucine, refettorio, Officine. Dalle basi di quello che probabilmente era l’antico Castrum di epoca romana, l’abate Ermengardo, che resse il monastero dal 1099 al 1131, fece realizzare questa opera ardita, partendo dall’impressionante basamento di 6 metri che dalla base a picco raggiunge la vetta.
Il monastero subì un parziale decadimento nel 1629, a causa del passaggio delle truppe francesi del generale Nicolas de Catinat. Un successive degrado avvenne durante l’Assedio di Torino del 1706. Di questa parte, infatti, rimangono oggi solo dei ruderi, affacciati verso la Val Susa: si doveva trattare di un edificio di ben cinque piani, la cui imponenza è manifestata da muraglioni, archi e pilastri, ad oggi ancora parzialmente visibili.
Con la comunità IMC di Rivoli Torinese
Luca Minuto è un sacerdote che va in giro in bicicletta per incontrare spacciatori, prostitute e disperati. Da dieci anni lui si occupa di questa particolare pastorale sulla strada e ha una spiccata attenzione per i poveri. Con 41 anni lui si considera un sacerdote di strada. “Faccio più catechesi qui che in chiesa” dice ridendo. “Muoversi in bicicletta fa bene e così sto più vicino alla gente. Tratto sempre di fermarmi da chi ha bisogno”. Vice parroco nella chiesa di Madonna di Campagna, si dedica a cercare le anime perse che annegano nelle paludi della vita. Per essere vicino e amico dei ragazzi di strada, ci spiega, ci vuole tempo: lui ha impiegato più di un anno per conoscere qualcosa di questa umanità sofferente.