Il racconto della nascita del Salvatore nel Vangelo di Luca (2,1-20) trasmette un messaggio molto profondo sul significato del Natale, mostrandoci il volto misericordioso di Dio che Gesù è venuto a mostrarci con la sua vita. 

Mettersi dalla parte dei pastori di Betlemme, aiuta a comprendere molto bene la prospettiva di Luca.

Al tempo di Gesù i pastori erano discriminati, non potevano testimoniare né partecipare al culto perché considerati impuri, a causa della loro convivenza con animali, e disonesti, a causa delle loro violazioni dei confini territoriali. Le loro condizioni di vita precarie, scartati dalla società, religiosamente interdetti e, per questo, esclusi da ogni possibilità di salvezza. 

San Luca, in un modo quasi scandaloso, presenta i pastori come i primi destinatari dell’annuncio di Salvezza da parte degli Angeli. Incredibile, il Signore è venuto proprio per chi “è scartato”, e “non conta” e vive fuori dalla città, nelle periferie geografiche ed esistenziali.  

La nascita di Gesù è un evento unico e miracoloso, segnato dal canto degli Angeli e dalla gioia dei pastori che corrono a trasmettere ad altri la “buona notizia”.

Per questo, siamo invitati a contemplare l'importanza della fede e della speranza in questi nostri tempi difficili per l’umanità intera, poiché il messaggio di salvezza e di pace del Signore è destinato a tutti, in particolare a chi è escluso e discriminato.

Siamo, inoltre, sollecitati ad imitare i pastori che, subito dopo aver contemplato il bambino nella mangiatoia, non riescono a trattenere la gioia e corrono in tutta fretta ad annunciare ad altri la buona notizia della nascita del Salvatore.

Questo ci incoraggia a rispondere a nostra volta, con gioia e gratitudine, all'annuncio del suo amore e della sua grazia, per poi testimoniare questo messaggio a tutte le persone con cui viviamo e ai popoli con cui camminiamo.

Carissimi missionari, a tutti voi, sparsi nei quattro continenti, un augurio speciale di vicinanza affettuosa e incoraggiante, che questo Natale rafforzi la vostra fede e rinnovi il vostro impegno nella missione di testimoniare il volto misericordioso di Dio Padre pieno di amore e speranza, soprattutto ai più poveri. Possiate essere benedetti con la grazia di toccare innumerevoli vite e portare conforto a coloro che sono nel bisogno.

Come i pastori, anche noi andiamo a Betlemme, a incontrare il Bambino Gesù, sorgente di giustizia e pace, e poi, ripartiamo senza indugio nella Missione, per portare al mondo la consolazione e le benedizioni che abbiamo ricevuto. 

“Amiamo il Bambino di Betlemme! Amiamo il Bambino di Betlemme!… In questa festa non deve entrare solo la testa ma tutto il cuore. E chi non sente questo amore lo chieda a Gesù stesso per intercessione della SS. Vergine, che ardeva di amore mentre aspettava il suo Gesù”. (Così vi Voglio, n. 61). Buon Natale a tutti e tutte ovunque siate

* P. James Lengarin è Superiore Generale dei Missionari della Consolata

Messaggio completo in ITALIANO e INGLESE

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Nei miei studi di storia della Chiesa mi è stata chiesta la recensione di un libro non recente di un noto mediovalista italiano, molto conosciuto per le sue pubblicazioni ma anche per l’impegno di divulgazione che ha fatto di lui un personaggio abbastanza conosciuto anche fuori dai limiti della sua specializzazione storica. Si tratta di Alessandro Barbero e il libro di cui parlo è “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell'impero romano” (Laterza; 10° edizione di aprile 2010).

Voglio condividere alcuni aspetti della sua riflessione storica perché mi sembrano illuminanti anche per noi oggi che ogni giorno tocchiamo con mano le problematiche legate al problema migratorio. Queste le troviamo quasi sempre nella prima pagina dell’agenda politica italiana (e non solo) e sono uno dei temi più discussi e dibattuti in questo primo quarto del XXI secolo. Ebbene non è solo un problema di oggi, anche in una tappa importante della storia dell’Impero Romano la migrazione e la permeabilità della frontiera, il “limes” come lo chiamavano allora, era percepita come un problema.

A partire dal primo secolo dopo Cristo questo Impero era considerato all’esterno prospero, aveva una economia stabile e delle frontiere sufficientemente militarizzate con l’intenzione di gestire i flussi migratori ma i popoli barbari, che si sentivano costantemente minacciati dalla fame e dalla guerra e non riuscivano sopravvivere con le poche risorse a loro disposizione, finivano per bussare, sempre più numerosi, alle porte dell’impero romano. 

Per affrontare questa crisi l’Impero esercitava su di loro diverse strategie: se alcune prevedevano l’allontanamento forzato dal territorio altre invece preferivano l’accoglienza di massa o, in alternativa, si offrivano piccoli aiuti umanitari o si fissavano quote di ingresso. “L’accoglienza dei profughi o il reinsediamento forzato dei popoli sconfitti sono strumenti di cui le autorità romane dell’età giulio-claudia si avvalgano con una certa libertà, rispondendo in innanzitutto a esigenze di sicurezza, e solo secondariamente a opportunità economiche e demografiche” (p. 16).

In realtà le frontiere, spesso erano solo un limite più simbolico che reale, e invece attorno a loro si svilupparono vere e proprie società di confine fondate su scambi commerciali e sfruttamento della forza lavoro delle popolazioni barbare. La linea artificiale che segnava il confine dell'Impero romano, anche se in alcuni punti fortificata e difesa, quasi mai era totalmente impermeabile, anzi tutto il contrario, era lo spazio di incontro di mondi radicalmente diversi ma anche costantemente in dialogo perché in qualche modo avevano bisogno l’uno dell’altro. 

Così che, per esempio, durante il principato di Marco Aurelio e dopo la peste conosciuta con il nome di “antonina”, si complicò la gestione dei confini a causa della riduzione dei militari e della manodopera agraria e allora l’autorità imperiale utilizzò gli strumenti dell’accoglienza sistematica per favorire l’insediamento nel territorio romano; per il ripopolamento delle campagne, impoverite dalla guerra e dalle epidemie, si reclutava manodopera libera fra i popoli barbari. 

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Dal punto di vista commerciale, agricolo e fiscale, l’autorità imperiale decise di affidare la gestione dei vasti territori ai barbari fino al punto che quest’ultimi si arruolarono nell’esercito romanizzandosi e assimilandosi nel “melting pot”. 

Dopo duemila anni, ancora oggi, avvengono situazioni analoghe alle frontiere dell’Unione Europea: rifugiati percossi, derubati, umiliati, espulsi, bloccati alle frontiere e altri ancora vittime di tratta per sfruttamento lavorativo e schiavitù da debito, sempre altamente a rischio di re-trafficking. Nonostante l'inasprimento dei controlli alle frontiere europee, il problema dell'immigrazione è diventato un fenomeno caratterizzato da una complessità crescente. Sono passati duemila anni di storia e le idee sul da farsi sembrano ancora povere e confuse... eppure la storia di questo continente europeo deve tanto e sotto tanti punti di vista ai fenomeni migratori che hanno trasferito in un senso e nell’altro forza lavoro, tecnologie, idee e perfino religioni.

Sono con voi perché, ora come mai, il futuro di tutti dipende dal presente che scegliamo. Sono con voi perché la devastazione del creato è un’offesa a Dio, un peccato non solo personale ma strutturale che si riversa sull’essere umano, soprattutto sui più deboli, un grave pericolo che incombe su ciascuno e che rischia di scatenare un conflitto tra le generazioni. Sono con voi perché il cambiamento climatico è «un problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita umana» (Esort. ap. Laudate Deum, 3). Sono con voi per porre la domanda a cui siamo chiamati a rispondere ora: lavoriamo per una cultura della vita o della morte? Vi chiedo, in modo accorato: scegliamo la vita, scegliamo il futuro! Ascoltiamo il gemere della terra, prestiamo ascolto al grido dei poveri, tendiamo l’orecchio alle speranze dei giovani e ai sogni dei bambini! Abbiamo una grande responsabilità: garantire che il loro futuro non sia negato.

È acclarato che i cambiamenti climatici in atto derivano dal surriscaldamento del pianeta, causato principalmente dall’aumento dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana, che negli ultimi decenni è diventata insostenibile per l’ecosistema. L’ambizione di produrre e possedere si è trasformata in ossessione ed è sfociata in un’avidità senza limiti, che ha fatto dell’ambiente l’oggetto di uno sfruttamento sfrenato. Il clima impazzito suona come un avvertimento a fermare tale delirio di onnipotenza. Torniamo a riconoscere con umiltà e coraggio il nostro limite quale unica via per vivere in pienezza.

Che cosa ostacola questo percorso? Le divisioni che ci sono tra noi. Ma un mondo tutto connesso, come quello odierno, non può essere scollegato in chi lo governa. Il compito a cui siamo chiamati oggi non è nei confronti di ieri, ma nei riguardi di domani; di un domani che, volenti o nolenti, o sarà di tutti o non sarà.

Colpiscono, in particolare, i tentativi di scaricare le responsabilità sui tanti poveri e sul numero delle nascite. Sono tabù da sfatare con fermezza. Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti, mentre il divario tra i pochi agiati e i molti disagiati non è mai stato così abissale. Questi sono in realtà le vittime di quanto accade: pensiamo alle popolazioni indigene, alla deforestazione, al dramma della fame, dell’insicurezza idrica e alimentare, ai flussi migratori indotti. 

Qual è la via d’uscita? Quella che state percorrendo in questi giorni: la via dell’insieme, il multilateralismo. Infatti, «il mondo sta diventando così multipolare e allo stesso tempo così complesso che è necessario un quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere […]. Si tratta di stabilire regole universali ed efficienti» (Laudate Deum, 42). È preoccupante in tal senso che il riscaldamento del pianeta si accompagni a un generale raffreddamento del multilateralismo, a una crescente sfiducia nella Comunità internazionale.

È essenziale ricostruire la fiducia, fondamento del multilateralismo. Ciò vale per la cura del creato così come per la pace: sono le tematiche più urgenti e sono collegate. 

Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame» (Lett. enc. Fratelli tutti, 262; cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 51) e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico.

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È compito di questa generazione prestare orecchio ai popoli, ai giovani e ai bambini per porre le fondamenta di un nuovo multilateralismo. Perché non iniziare proprio dalla casa comune? I cambiamenti climatici segnalano la necessità di un cambiamento politico. Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato. Abbracciamo una visione alternativa, comune: essa permetterà una conversione ecologica, perché «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali» (Laudate Deum, 70). 

Testo completo ITALIANO e INGLESE

Testimoniare l’amore

Cara famiglia di “Vida y Misión”. È sempre più difficile per me scrivervi, scrivere della missione.

Come descrivere Dio? Come descrivere la sua Missione? Come descrivere l'AMORE?

Quando lascio gli innumerevoli canali che costituiscono l’estuario dell’Orionoco, il loro ritmo e la loro bellezza semplice e multiforme, mi è difficile descrivere ciò che viviamo lì.

Oggi, piena di gratitudine verso nostro Signore e la sua ostinata fiducia nella mia fragilità, provo a direlo a voi che vi impegnate così tanto per rendete possibile la missione per mezzo della quale il mistero dell'Amore continua ad abbattere barriere e frontiere.

Vorrei iniziare ringraziando tutti anche perché state collaborando nel lento processo di guarigione di Maria Eucelis, una catechista della nostra parrocchia. Grazie a Dio e ai vostri sforzi si sta riprendendo. Tra qualche settimana terminerà le sedute di radioterapia e chemioterapia, in preparazione dell'intervento chirurgico per rimuovere il tumore. Vi invio la sua foto: è di una settimana e mezzo fa ma non vorrei disturbarla di nuovo per farne una più recente anche se lei è sempre sorridente e di buon umore. È molto timida e grata a tutti: cercherò di farle registrare un audio per ringraziarvi personalmente.

"Il bene non fa rumore e il rumore non fa il bene". Questo era stato il consiglio di un uomo buono, Giuseppe Allamano, fondatore della nostra famiglia missionaria. 

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Poi cominciamo anche la celebrazione del mese di Ottobre, mese missionario. Questo mese inizia con la figura di Santa Teresa di Lisiuex, una giovane donna che ha dedicato la sua adolescenza e la sua giovinezza a testimoniare l'AMORE. Diceva: "nel cuore di mia Madre, la Chiesa, sarò l'AMORE". Lei ha quindi abbattuto le mura del convento dove ha trascorso i brevi anni della sua vita, a partire dall'esperienza di Dio che ha vissuto. Caratteristica di questa esperienza intima era la consapevolezza di essere speciale, unica, per Dio, che lei trattava come suo Padre amorevole.

Sì, Teresa si sentiva ostinatamente amata da Dio anche nella sua fragilità e nel suo peccato. Si sentiva privilegiata da questo amore che la traboccava fino a contagiare le sorelle con cui condivideva la sua vita di lavoro e di preghiera.

Sentendosi oggetto dell'infinita misericordia e della fiducia illimitata di Dio, è stata guarita dalle sue ferite, libera di servire e amare, di ripristinare le relazioni interrotte e forte di fronte al dolore e alla sofferenza della malattia.

L'opera dell'AMORE nell'argilla di Teresa ha illuminato e ridato forza ed entusiasmo a un giovane sacerdote missionario che corrispondeva con lei.

L'offerta della sua vita per l'AMORE, attraverso la preghiera e il servizio nel suo convento di suore carmelitane, ha rotto la barriera delle mura ed è diventata universale.

Oggi ci viene ricordato che la missione, al di là dell'aiuto umanitario, consiste nell'essere testimoni dell'AMORE, l'AMORE che dà vita, che crea e ricrea, che dà dignità, che si fida e incoraggia, che sceglie ciò che è nascosto, ciò che non fa rumore, che sceglie ciò che non conta, per iniziare la missione, per iniziare la nuova umanità. Missione è vivere e condividere la nostra esperienza di Dio.

* P. Andrés Garcias lavora a Nabasanuka (Venezuela)

Dal discorso pronunciato nel viaggio apostolico a Marsiglia durante il momento di raccoglimento con i leader religiosi nei pressi del memoriale dedicato ai marinai e ai migranti dispersi in mare.

Cari fratelli e sorelle, grazie per essere qui. Dinanzi a noi c’è il mare, fonte di vita, ma questo luogo evoca la tragedia dei naufragi, che provocano morte. Siamo riuniti in memoria di coloro che non ce l’hanno fatta, che non sono stati salvati. Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti. Penso a tanti fratelli e sorelle annegati nella paura, insieme alle speranze che portavano nel cuore. Davanti a un simile dramma non servono parole, ma fatti. Prima ancora, però, serve umanità, serve silenzio, pianto, compassione e preghiera. 

Troppe persone, in fuga da conflitti, povertà e calamità ambientali, trovano tra le onde del Mediterraneo il rifiuto definitivo alla loro ricerca di un futuro migliore. E così questo splendido mare è diventato un enorme cimitero, dove molti fratelli e sorelle sono privati persino del diritto di avere una tomba, e a venire seppellita è solo la dignità umana. Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può.

Non possiamo rassegnarci a vedere esseri umani trattati come merce di scambio, imprigionati e torturati in modo atroce –lo sappiamo, tante volte, quando li mandiamo via, sono destinati ad essere torturati e imprigionati–; non possiamo più assistere ai drammi dei naufragi, dovuti a traffici odiosi e al fanatismo dell’indifferenza. L’indifferenza diventa fanatica. Le persone che rischiano di annegare quando vengono abbandonate sulle onde devono essere soccorse. È un dovere di umanità, è un dovere di civiltà!

Il Cielo ci benedirà, se in terra e sul mare sapremo prenderci cura dei più deboli, se sapremo superare la paralisi della paura e il disinteresse che condanna a morte con guanti di velluto. In questo, noi rappresentanti di diverse religioni siamo chiamati a essere di esempio. Dio, infatti, benedisse il padre Abramo. Egli fu chiamato a lasciare la sua terra d’origine e «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Ospite e pellegrino in terra straniera, accolse i viandanti che passarono nei pressi della sua tenda (cfr Gen 18): «esule dalla sua patria, privo di casa, fu lui stesso casa e patria di tutti» (S. Pietro Crisologo, Discorsi, 121). E «a ricompensa della sua ospitalità, ottenne di avere una discendenza» (S. Ambrogio di Milano, De officiis, II, 21). Alle radici dei tre monoteismi mediterranei c’è dunque l’accoglienza, l’amore per lo straniero in nome di Dio. E questo è vitale se, come il nostro padre Abramo, sogniamo un avvenire prospero. Non dimentichiamo il ritornello della Bibbia: “l’orfano, la vedova e il migrante, lo straniero”. Orfano, vedova e straniero: questi sono quelli che Dio ci comanda di custodire.

Fratelli, sorelle, affrontiamo uniti i problemi, non facciamo naufragare la speranza, componiamo insieme un mosaico di pace!

Discorso completo

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