Le porte sono sempre aperte. Di notte e di giorno. L’accoglienza nella parrocchia di Oujda, in Marocco, non ha orari. C’è sempre qualcuno a ricevere gli immigrati con lo spirito del samaritano: accudire chi soffre, chiunque esso sia, qualunque storia lasci alle sue spalle. «Non ci guida niente altro che la solidarietà», spiega Edwin Osaleh Duyani, missionario della Consolata e parroco di Oujda: «Non abbiamo altri fini né vogliamo offrire altro che un messaggio di amore verso chi viene da esperienze durissime». La Chiesa cattolica a Oujda è presente da decenni. Un’eredità lasciata dai colonizzatori francesi. E francese era il parroco quando, nel 2019, un gruppo di missionari della Consolata arriva nella zona. «Stavamo progettando di impegnarci a favore dei migranti», continua padre Edwin, che lavora nella parrocchia insieme a due confratelli: «Inizialmente si pensava di dar vita a una missione a Melilla, enclave spagnola in terra marocchina. Quando siamo arrivati a Oujda le condizioni ci sembravano però ottimali». La città è vicino al confine tra Marocco e Algeria. Una frontiera tribolata, spesso chiusa a causa delle tensioni politiche e diplomatiche tra Rabat e Algeri. Eppure così porosa da permettere il passaggio dei migranti verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla. «Molti migranti vengono qui per chiedere aiuto dopo un viaggio sofferto nel deserto», osserva padre Edwin. Qui «trovano quella realtà famigliare che è necessaria per ripristinare un minimo di serenità a perso ne che hanno vissuto esperienze durissime nel loro migrare».
Nella parrocchia, che ha locali molto grandi, i migranti hanno la possibilità di mangiare, dormire, lavarsi, cambiarsi d’abito. «Nel 2021 — continua il missionario — abbiamo accolto 2300 persone. Nei primi sei mesi di quest’anno ne abbiamo già ospitate un migliaio. Molti arrivano in condizioni terribili. Hanno ferite di tutti i tipi sul corpo, alcuni sono anche segnati nella psiche. Emigrare è un trauma che segna molti nel profondo dell’anima». Quando sono accolti nella parrocchia, i migranti vengono anche curati e assistiti nel miglior modo possibile. Li si aiuta a riprendersi dalle fatiche di un viaggio lunghissimo, iniziato nell’Africa subsahariana: Costa d’Avorio, Camerun, Guinea, Sudan, eccetera.
L’accoglienza ha anche un valore ecumenico. I missionari della Consolata lavorano infatti fianco a fianco con i membri della locale Chiesa evangelica. «Siamo due coordinatori, io e un evangelico», sottolinea padre Edwin: «Tra noi c’è un’ottima collaborazione e un’ottima intesa. Noi offriamo anche i locali per le loro funzioni religiose perché in città non hanno un luogo dove pregare». Del gruppo di accoglienza fanno parte anche due suore cattoliche che si prendono cura delle poche donne che arrivano e delle attività di formazione.
I missionari accolgono tutti e con tutti parlano e si confrontano. «Molti di questi ragazzi e di queste ragazze — continua — partono attratti dal miraggio benessere. Pensano che arrivati in Europa la loro vita possa conoscere una svolta e lì possano trovare tutto ciò di cui hanno bisogno. Non sanno che per i migranti la vita in Europa è tutt’altro che semplice. Le privazioni e le difficoltà continuano, accentuate anche da un ambiente e da un clima ai quali non sono abituati». I padri del la Consolata spiegano loro come stanno le cose, parlano delle difficoltà che possono incontrare nel loro viaggio e una volta arrivati a destinazione. Qualcuno, nonostante le parole dei missionari, decide di continuare il viaggio. Altri capiscono quanto è complicato raggiungere l’Europa, quanto velleitaria sia l’impresa e decidono di rientrare in patria. «Noi non abbiamo i mezzi né la struttura né le capacità di organizzare i viaggi di rientro — osserva padre Edwin — e per questo motivo, quando un ragazzo o una ragazza si convince a rientrare a casa, noi lo mettiamo in contatto con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni che organizza il rimpatrio. È un percorso lungo che può richiedere settimane o, addirittura, mesi. Nel frattempo, offriamo loro corsi di formazione». In questo modo, i migranti possono imparare i rudimenti di meccanica, falegnameria, elettrotecnica. Insegnamenti che potranno essere utili quando rientreranno a casa.
«Il nostro non è un centro di accoglienza», conclude padre Edwin: «La nostra è una parrocchia cattolica che accoglie chi bussa al nostro portone. Il nostro unico intento è aiutare chi ha bisogno. Il nostro, lo ripeto, è lo spirito del buon samaritano. Vogliamo essere vicino agli ultimi e a chi soffre, niente di più.
* Enrico Casale collabora con varie testate missionarie. Questo articolo è apparso nell’Osservatore Romano il 14 settembre 2022.
Carissimi amici, non finiró mai di ringraziarvi per la vostra solidarietà e vorrei anche condividere con voi una piccola esperienza fatta oltre confine in Ucraina in un viaggio nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.
Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedi 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si e unita Clara la volontaria infermiera che da settimane è con noi. Dopo 5 ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo alla frontiera.
Anche se non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina, tuttavia i tempi di controllo dei documenti sono lunghi: entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.
Abbiamo dei problemi con un documento del nostro veicolo e quindi siamo costretti a lasciare temporalmente i nostri aiuti presso la sala di una parrocchia di francescani prossima alla frontiera: saranno spediti posteriormente in un altro trasporto. Ad ogni modo non rinunciamo ad attraversare la frontiera per vedere in opera le molte iniziative solidali che si sono avviate in tutto il continente e decidiamo attraversare la frontiera a piedi.
Quando raggiungiamo il posto di frontiera dell’Ucraina ci offriamo per aiutare una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. che è tutto quel che è riuscita a portare a salvo, poi una soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto e lei fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.
Entrando in Ucraina notiamo una coda molto più lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia e vediamo l’impegno di tanti volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei... sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata.
Ci troviamo con un gruppo di volontari polacchi che fin dall’inizio sono qui presenti. ci troviamo con Magdalena che conoscevamo già. Lei ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio, ma tuttavia non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra. Solo da questa frontiera sono passate circa 700 mila persone su un totale di 2,7 milioni che hanno varcato il confine con la Polonia. I primi giorni -ci racconta- sono stati i più drammatici: ci sono video che mostrano code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Eppure quelli erano tra i più fortunati perché stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di quelli di adesso che aspettano all’aperto giorno e notte, anche per tre e quattro giorni, per poter passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative.
Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito delle stress e della stanchezza.
Ci colpisce molto la dignità di queste persone: non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fa fatica a vuotare il sacco. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiew...
Gli unici accompagnati da volontari e avvolti in coperte sono solo alcuni anziani su carrozzine un altro lato debole della popolazione.
Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare insieme a tutti voi.
*Luca Bovio è superiore dei missionari della Consolata in Polonia. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; +48 512.693.184