Nella basilica del Sacro Cuore di Koekelberg, il 28 settembre, Francesco si rivolge a vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, seminaristi e catechisti invitando all’impegno nell'evangelizzazione in un tempo di crisi: serve coraggio per avviare trasformazioni di consuetudini, modelli e linguaggi della fede. Misericordia e prossimità per chi ha subito abusi.
Una Chiesa “che non chiude mai le porte”, che a tutti offre “un’apertura sull’infinito”, che sa “guardare oltre”. Una Chiesa “serva di tutti senza soggiogare nessuno”, in grado di imparare, con la misericordia, a non rimanere “col cuore di pietra” dinnanzi alle sofferenze delle vittime di abusi. Ancora, una Chiesa capace di aiutare chi sbaglia a rialzarsi, perché esistono errori ma “nessuno è perduto per sempre”.
È questa la Chiesa che Papa Francesco ha indicato come modello ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai consacrati e alle consacrate, ai seminaristi e agli operatori pastorali del Belgio riuniti nella basilica del Sacro Cuore di Koekelberg, a Bruxelles.
Il Pontefice ha raggiunto l’edificio sacro alla periferia della città dopo una tappa fuori programma nella chiesa di Saint-Gille per fare colazione con un gruppo di poveri e rifugiati che gli hanno regalato una birra prodotta nella parrocchia per finanziare le opere caritative. Nel suo percorso in auto lungo il grande spazio verde antistante alla basilica, la quinta più grande al mondo, Francesco benedice diversi bambini che gli vengono avvicinati.
Papa Francesco nella basilica del Sacro Cuore di Koekelberg
Rivolgendosi ai presenti, per descrivere al meglio l’immagine di una Chiesa “che evangelizza, vive la gioia del Vangelo e pratica la misericordia”, Francesco si avvale di una metafora artistica, facendo riferimento a un’opera del pittore belga Magritte, “L’atto di fede”, che rappresenta una porta chiusa dall’interno, ma “sfondata al centro” e “aperta sul cielo. È uno squarcio - descrive - che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi”.
Parlando della Chiesa belga, il Papa la definisce “in movimento”, impegnata a trasformare la presenza delle parrocchie sul territorio, a dare un forte impulso alla formazione dei laici e in generale a “essere Comunità vicina alla gente, che accompagna le persone e testimonia con gesti di misericordia”.
Nel suo discorso più volte interrotto da applausi, che prendeva spunto dalle domande poste nel corso delle testimonianze da diversi membri della Chiesa locale, Francesco propone alcune tracce di riflessione sviluppate attorno a tre parole: evangelizzazione, gioia, misericordia.
L’evangelizzazione, spiega, è la “prima strada da percorrere”, perché “i cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo” affinché “a tutti venga nuovamente annunciata la buona notizia che Gesù ha portato nel mondo, facendone risplendere tutta la bellezza”. La crisi, tempo “per scuoterci, per interrogarci e per cambiare”, ci mostra che “siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo ‘di minoranza’, o meglio - precisa Francesco - di testimonianza”.
Questo richiede il coraggio di una conversione ecclesiale, per avviare queste trasformazioni pastorali che riguardano anche le consuetudini, i modelli, i linguaggi della fede, perché siano realmente a servizio dell’evangelizzazione.
Anche ai preti, sottolinea, occorre il “coraggio” di non limitarsi a “conservare o gestire un patrimonio del passato”, ma di essere “pastori innamorati di Cristo” e “attenti a cogliere le domande di Vangelo” mentre “camminano con il Popolo santo di Dio”. Se il Signore “apre i nostri cuori all’incontro con chi è diverso da noi”, il Papa chiarisce che “nella Chiesa c’è spazio per tutti” e “nessuno dev’essere la fotocopia dell’altro. L’unità nella Chiesa non è uniformità, ma è trovare l’armonia delle diversità!”.
In questo senso il processo sinodale, rimarca riferendosi a una precedente testimonianza, “dev’essere un ritorno al Vangelo”, non deve “avere tra le priorità qualche riforma ‘alla moda”’, ma chiedersi come possiamo far arrivare il Vangelo “in una società che non lo ascolta più o si è allontanata dalla fede”.
Religiose ascoltano il Papa
Passando al secondo fulcro del suo intervento, la gioia, Francesco esplicita che non si parla “delle gioie legate a qualcosa di momentaneo”, ma di “una gioia più grande, che accompagna e sostiene la vita anche nei momenti oscuri o dolorosi, e questo è un dono che viene dall’alto, che viene da Dio”.
È la gioia del cuore suscitata dal Vangelo: è sapere che lungo il cammino non siamo soli e che anche nelle situazioni di povertà, di peccato, di afflizione, Dio è vicino, si prende cura di noi e non permetterà alla morte di avere l’ultima parola.
Dal Papa arriva l’esortazione affinché il predicare, il celebrare, il servire e fare apostolato lascino trasparire “la gioia del cuore” e non “il sorriso finto, del momento”. La gioia “è la strada”, e quando la fedeltà “appare difficile” dobbiamo mostrare che essa è un “cammino verso la felicità” perché, “intravedendo dove conduce la strada, si è più pronti a iniziare il cammino”.
Infine, la terza via, quella della misericordia.
Il Vangelo, accolto e condiviso, ricevuto e donato, ci conduce alla gioia perché ci fa scoprire che Dio è il Padre della misericordia, che si commuove per noi, che ci rialza dalle nostre cadute, che non ritira mai il suo amore per noi. Fissiamo nel cuore: mai Dio ritira il suo amore per noi.
Questo, ha proseguito il Pontefice, “a volte può sembrarci ‘ingiusto’, perché noi applichiamo semplicemente la giustizia terrena che dice: ‘chi sbaglia deve pagare’”. Tuttavia, la giustizia di Dio è superiore, e chi ha sbagliato è sì “chiamato a riparare i suoi errori”, ma per guarire nel cuore “ha bisogno dell’amore misericordioso di Dio”, che “perdona tutto” e “perdona sempre”. È con la sua misericordia che Dio “ci giustifica” nel senso che “ci rende giusti, perché ci dona “un cuore nuovo, una vita nuova”.
Il Papa si sofferma anche sulla questione degli abusi: “C’è bisogno di tanta misericordia, per non rimanere col cuore di pietra dinanzi alla sofferenza delle vittime, per far sentire loro la nostra vicinanza", "offrire tutto l’aiuto possibile” e imparare a essere una Chiesa “che si fa serva di tutti” senza “soggiogare nessuno”. “Sì – ripete – perché una radice della violenza consiste nell’abuso di potere, quando usiamo i ruoli che abbiamo per schiacciare gli altri o per manipolarli”.
Il pensiero di Francesco va poi ai carcerati, per i quali la misericordia è un tema cruciale. Quando io entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre.
Papa Francesco tra la folla
Se “è giusto seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali”, la pena per il Papa “dev’essere una medicina”, portare alla guarigione, perché, ribadisce con forza, “bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia – conclude – sempre, sempre misericordia”.
Della chiamata della Chiesa a essere “un segno di comunione e di integrazione” in un Paese “crocevia dell’Europa e del mondo” ha parlato, nel suo saluto al Papa, monsignor Luc Terlinden, arcivescovo di Mechelen-Brussel e presidente della Conferenza episcopale belga.
Il presule mette in evidenza le sfide e le opportunità che “l’accoglienza degli stranieri e la mescolanza delle popolazioni” rappresentano “per la Chiesa, per la pastorale, per la teologia” in un mondo che “sta cambiando profondamente e sta diventando più secolare”.
In particolare il presidente dell’episcopato belga si sofferma sull’importanza di “testimoniare la tenerezza di Dio per ogni essere umano, al di là di ogni frontiera" e di "riconoscere in ognuno una sorella o un fratello”.
* Lorena Leonardi - Città del Vaticano. Originalmente Pubblicato in: www.vaticannews.va
Nella cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione a Jakarta, Francesco si rivolge a vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, seminaristi e catechisti: la fede non si impone, ma si condivide con gioia. E poi spiega il senso della "compassione": non dispensare elemosine ma abbracciare i sogni di giustizia.
"Ciò che manda avanti il mondo non sono i calcoli di interesse, che finiscono in genere col distruggere il creato e dividere le comunità, ma la carità che si dona"
Fede, fraternità, compassione: le tre parole chiave, che costituiscono il motto della visita apostolica nel variegato Paese asiatico composto di ben 1.300 etnie e popoli, sono al centro del discorso pronunciato da Papa Francesco discorso pronunciato da Papa Francesco nella cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione, a Jakarta. Siamo nel cuore della megalopoli, proprio di fronte alla moschea Istiqlal dove domani (stanotte in Italia) si terrà l'incontro interreligioso con la firma della Dichiarazione congiunta con l'imam Nasaruddin Umar. È stato un gesuita architetto, Antonius Dijkmans, a progettare, a fine '900, quello che è il luogo di culto principale per i cattolici indonesiani, oggi più di 8 milioni di fedeli, pari a poco più del 3 percento della popolazione. Al secondo piano della chiesa un museo ne illustra la storia.
Le religiose in ascolto del Papa
In questa prima giornata di permanenza in Indonesia - che finora ha visto impegnato il Pontefice nell'incontro con le autorità e la società civile, al palazzo presidenziale e, successivamente in nunziatura, in quello privato, ormai tradizionale per ogni trasferta papale internazionale, con i gesuiti locali - il Papa torna sui temi del dialogo, dell'amicizia sociale, di come incarnare il Vangelo in un contesto estremamente diversificato. Lo fa dopo aver scandito la necessità di contrastare "l'estremismo e l'intolleranza", di evitare che la fede venga manipolata per fomentare odio e accrescere divisioni. Dinanzi a vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, consacrate, seminaristi e catechisti, guide pastorali di 37 diocesi, e mentre i presuli celebrano un secolo dalla fondazione della Conferenza episcopale (al 1940 risale invece la consacrazione del primo vescovo indigeno), Francesco si pone in ascolto di chi gli illustra (un prete, una suora e due catechisti) le sfide ordinarie di questo 'piccolo gregge' dell'Asia sud orientale.
Prima di procedere con la lettura del testo preparato, il Papa ascolta l'impegno di cui si fa portavoce il capo dei vescovi, monsignor Antonius Subiantu Bunjamin, nel suo saluto di benvenuto: "Cercheremo sempre più un incontro con Dio che esprima la gioia del Vangelo, crei una cultura dell’incontro in cui vediamo gli altri come fratelli o sorelle e ripristini l’integrità della creazione ascoltando il grido dei poveri e della terra, la nostra Casa comune". Poi si concede alcune sottolineature a braccio in cui rimarca il ruolo cruciale dei catechisti, "la forza della Chiesa". Chiede, in un clima di grande familiarità, quanti siano i seminaristi in assemblea. Evoca l'essenza di una Chiesa veramente sinodale, in cui "ognuno ha il suo compito per far cresere il popolo di Dio", laici e bambini compresi.
Il Papa si compiace di quella connaturale tensione all'unità e alla convivenza pacifica che contraddistingue la cultura indonesiana, certamente non un monolite ma un poliedro. I principi tradizionali della Pancasila, ne sono al tempo stesso riflesso, fondamento e garanzia. Francesco esalta l'enorme ricchezza naturale del Paese e invita a coltivare, dinanzi a questa abbondanza meravigliosa, un cuore grato e responsabile, oltre ogni tentazione di orgoglio. "Guardare a tutto questo con umili occhi di figli ci aiuta a credere, a riconoscerci piccoli e amati", ricorda. E rimanda alle condivisioni ascoltate da chi ha offerto la propria testimonianza, in particolare ha apprezzato la voce di Agnes:
Ce ne ha parlato Agnes, a proposito del nostro rapporto con il creato e con i fratelli, specialmente i più bisognosi, da vivere con uno stile personale e comunitario improntato al rispetto, alla civiltà e all’umanità, con sobrietà e carità francescana.
La cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione a Jakarta
Il Papa, che più volte ricorre a citazioni letterarie, in questa occasione cita un verso del Nobel Wisława Szymborska, poetessa polacca: essere fratelli vuol dire amarsi riconoscendosi «diversi come due gocce d’acqua». Torna, dunque, sul senso della fraternità: accogliersi a vicenda riconoscendosi uguali nella diversità. L'invito, cui già la Chiesa indonesiana tiene molto per costituzione, è di valorizzare sempre l'apporto di tutti, generosamente e in ogni contesto.
[...] Annunciare il Vangelo non vuol dire imporre o contrapporre la propria fede a quella degli altri, ma donare e condividere la gioia dell’incontro con Cristo (cfr 1 Pt 3,15-17), sempre con grande rispetto e affetto fraterno per chiunque. E in questo vi invito a mantenervi sempre così: aperti e amici di tutti – “mano nella mano”, come ha detto don Maxi – profeti di comunione, in un mondo dove sembra invece stia crescendo sempre più la tendenza a dividersi, imporsi e provocarsi a vicenda (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 67).
Francesco si sofferma poi sull'importanza di favorire la più ampia accessibilità, non solo dei testi biblici ma anche degli insegnamenti del magistero, mediante la traduzione nella lingua ufficiale locale, il Bahasa Indonesia. Del resto è ciò che sperano gli stessi operatori pastorali. L'immagine che ha colpito tanto il Papa in cattedrale è quella del ponte, evocata dal catechista Nicholas. Così insiste su quei costruttori di ponti, i catechisti appunto, fondamentali per edificare la Chiesa, senza i quali non si reggerebbe, così come senza i collegamenti tra le migliaia di isole, non ci sarebbe coesione in un arcipelago. Cosa è la fraternità se non un ricamo? E chi è, invece il divisore, chiede ancora Francesco: "Il diavolo".
Un ricamo immenso di fili d’amore che attraversano il mare, superano le barriere e abbracciano ogni diversità, facendo di tutti «un cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32).
Sacerdoti e religiosi nella cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione a Jakarta
Infine, il Papa precisa il significato della compassione che molto è legata alla fraternità, "il patire con l'altro, bella parola...". Non è una debolezza ma una virtù, non è dispensare elemosine dall'alto di una torre, non è qualcosa che offusca la visione della realtà in un pietismo poco incisivo. Tutt'altro, come è richiamato nella Fratelli tutti: "Vuol dire anche abbracciarne i sogni e desideri di riscatto e di giustizia, prendersene cura, farsene promotori e cooperatori, coinvolgendo anche altri, allargando la “rete” e i confini in un grande dinamismo espansivo di carità". Il Papa invita ad essere attenti al "linguaggio del cuore", ricorda di "toccare" la povertà dell'altro, incrociando per davvero il suo sguardo. "Questo non vuole dire essere comunista, vuol dire carità", insiste ancora a braccio Bergoglio. Sono alcuni aneddoti raccontati dal Papa, che generano anche qualche ilarità nei presenti, ad accompagnare una espressione più volte ripetuta: "Il diavolo entra dalle tasche".
Ciò che manda avanti il mondo non sono i calcoli di interesse - che finiscono in genere col distruggere il creato e dividere le comunità - ma la carità che si dona.
Procedendo con il suo tipico linguaggio per immagini, il Papa si lascia affascinare dal portale della cattedrale per evidenziare su cosa davvero si regge la Chiesa. La roccia è Cristo che "sembra portare il peso di tutta la costruzione", Maria simbolicamente con il suo 'sì' sostiene l'opera. Maria, immagine di fraternità, di accoglienza, icona di compassione. Conclude, il Successore di Pietro, ricordando e facendo proprie le parole del Salmo 96 che San Giovanni Paolo II amò ripetere in questa terra nell'89: Gioiscano le isole tutte.
Anch’io vi rinnovo questa esortazione, e vi incoraggio a continuare la vostra missione forti nella fede, aperti a tutti nella fraternità e vicini a ciascuno nella compassione. Vi benedico e vi ringrazio per il tanto bene che fate ogni giorno! Prego per voi e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.
* Antonella Palermo - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
Ulises René Vega Matamoros e Edgard Sacasa sono stati fermati il primo agosto, durante la festa del patrono di Managua, San Domenico di Guzmán; il 2 agosto sono stati fermati altri otto religiosi, la maggior parte dei quali appartenenti alla diocesi di Matagalpa
La Chiesa in Nicaragua sta vivendo una nuova ondata di arresti di sacerdoti, secondo quanto riportato dalla stampa nicaraguense. I media nicaraguensi riferiscono dell'arresto dei sacerdoti, vicari della diocesi di Matagalpa, Ulises René Vega Matamoros e Edgard Sacasa. Il motivo dell'arresto e il luogo di detenzione non sono ancora noti. Questa Chiesa locale è stata anche oggetto dell'incarcerazione, nel dicembre 2023, e poi dell'esilio, nel gennaio 2024, del suo vescovo, Monsignor Rolando Álvarez.
Le fonti riferiscono che i sacerdoti sono stati arrestati il 1mo agosto, durante la celebrazione del patrono di Managua, San Domenico di Guzmán. Monsignor Ulises Vega è il parroco della chiesa di San Ramón, mentre monsignor Edgar Sacasa è il parroco della chiesa di San Isidro. Il 27 luglio scorso, anche l'amministratore ad omnia della diocesi di Esteli, monsignor Frutos Valle, era stato arrestato e trasferito nel Seminario nazionale interdiocesano di Nostra Signora di Fatima a Managua, attualmente preso dalle autorità come luogo di confino per i membri del clero.
Ieri, venerdì 2 agosto, sono stati arrestati otto sacerdoti e un diacono, la maggior parte dei quali appartenenti alla diocesi di Matagalpa. Nove persone che si aggiungono alle tre arrestate negli ultimi giorni. Le autorità non hanno ancora fornito informazioni ufficiali sui luoghi e sui motivi dei fermi.
II sacerdoti arrestati, secondo il sito indipendente Despacho 505, sono: Jairo Pravia, parroco della Iglesia Inmaculada Concepción; Víctor Godoy, vicario della Iglesia Inmaculada Concepción; Marlon Velásquez, amministratore della Iglesia Santa Lucía; Antonio López, parroco di Nuestro Señor de Veracruz de Ciudad Darío; il diacono Erwin Aguirre, della chiesa Nuestro Señor de Veracruz de Ciudad Darío; Raúl Villegas, parroco della chiesa Nuestra Señora de Guadalupe de Matiguás; Francisco Tercero, parroco della chiesa Santa Faustina Kowalska, Solingalpa; Silvio Romero, parroco della chiesa San Francisco de Asís, diocesi di Juigalpa.
Si stima che almeno 140 tra religiosi e religiose siano stati costretti a lasciare il Paese dal 2018, senza dimenticare le numerose organizzazioni ecclesiastiche che sono state espropriate o a cui è stato tolto il loro status giuridico.
Fonte: Vatican News
Nella Messa crismale del Giovedì Santo Francesco riscopre la bellezza della compunzione e del farsi trafiggere dal pentimento: un pianto amaro può cambiare la vita, ogni rinascita interiore nasce sempre dall'incontro tra nostra miseria e la sua misericordia.
Il cuore, “senza pentimento e pianto, si irrigidisce”. Prima “diventa abitudinario, poi insofferente per i problemi e indifferente alle persone”, poi, “freddo e quasi impassibile, come avvolto da una scorza infrangibile” e infine diventa “cuore di pietra”. “Come la goccia scava la pietra”, tuttavia, “così le lacrime lentamente scavano i cuori induriti”. È il miracolo, “della buona tristezza che conduce alla dolcezza”, sottolinea Papa Francesco, rivolgendosi ai circa 4 mila fedeli, tra cui 1.500 sacerdoti, giunti nella Basilica di San Pietro per la Messa Crismale del giovedì Santo da lui celebrata con il cardinale vicario Angelo De Donatis all'altare.
Un pianto amaro, infatti, può cambiare la vita. Come nella sinagoga di Nazareth i compaesani di Gesù “persero l’occasione della vita” cacciando Cristo fuori dalla città perché aveva smascherato le loro false aspettative, così Pietro all’inizio non prestò fiducia alle parole del Signore, lo “perse di vista” e lo rinnegò al canto del gallo. Solo dopo aver incrociato il Suo sguardo, gli occhi del primo tra gli apostoli “furono inondati di lacrime che, sgorgate da un cuore ferito, lo liberarono da convinzioni e giustificazioni fasulle”. Pietro si aspettava “un Messia politico, potente, forte e risolutore, e di fronte allo scandalo di un Gesù debole, arrestato senza opporre resistenza” disse di non conoscerlo. Aveva ragione, ribadisce il Papa. Lo conoscerà veramente solo quando si lascerà pienamente attraversare dal suo sguardo” e fece spazio alle lacrime della vergogna e del pentimento.
La guarigione del cuore di Pietro, la guarigione dell’Apostolo, la guarigione del Pastore avvengono quando, feriti e pentiti, ci si lascia perdonare da Gesù: passano attraverso le lacrime, il pianto amaro, il dolore che consente di riscoprire l’amore.
Per spiegare questo fenomeno Francesco sceglie di riscoprire una parola che lui stesso definisce un po’ desueta: la compunzione. Un concetto che evoca “il pungere”. La compunzione è infatti “una puntura del cuore”, una “trafittura che lo ferisce, facendo sgorgare le lacrime del pentimento”, come quelle scaturite dagli abitanti di Gerusalemme quando Pietro, il giorno di Pentecoste, proclamò loro di aver crocifisso il Signore.
Ecco la compunzione: non è un senso di colpa che butta a terra, non una scrupolosità che paralizza, ma è una puntura benefica che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo smuove facendo scorrere le lacrime sul volto. Chi getta la maschera e si lascia guardare da Dio nel cuore riceve il dono di queste lacrime, le acque più sante dopo quelle del Battesimo.
“Piangere su noi stessi”, sottolinea il Papa, significa pentirsi seriamente “di aver rattristato Dio col peccato”, “riconoscere di essere sempre in debito e mai in credito”, “ammettere di aver smarrito la via della santità”, non avendo tenuto fede all’amore di Colui che ha dato la vita per noi.
È guardarmi dentro e dolermi della mia ingratitudine e della mia incostanza; è meditare con tristezza le mie doppiezze e falsità; è scendere nei meandri della mia ipocrisia.
L’ipocrisia clericale, in cui la Chiesa scivola tanto e da cui bisogna stare attenti, avverte Francesco. Da lì poi si deve rialzare lo sguardo al Crocifisso e lasciarsi commuovere dal suo amore “che sempre perdona e risolleva, che non lascia mai deluse le attese di chi confida in Lui” Così, afferma il Papa “le lacrime continuano a scendere e purificano il cuore”.
Sono queste, pertanto, lacrime differenti da quelle chi si piange addosso,”come spesso siamo tentati di fare”.
Ciò avviene, ad esempio, quando siamo delusi o preoccupati per le nostre attese andate a vuoto, per la mancanza di comprensione da parte degli altri, magari dei confratelli e dei superiori. Oppure quando, per uno strano e insano piacere dell’animo, amiamo rimestare nei torti ricevuti per auto-commiserarci, pensando di non aver ricevuto ciò che meritavamo e immaginando che il futuro non potrà che riservarci continue sorprese negative. Questa – insegna San Paolo – è la tristezza secondo il mondo, opposta a quella secondo Dio.
La compunzione - su cui insistono tanti maestri spirituali come San Benedetto, San Giovanni Crisostomo, Isacco di Ninive o l’Imitazione di Cristo - richiede infatti fatica, “ma restituisce pace”, “agisce nella ferita del peccato, disponendoci a ricevere proprio lì la carezza del Signore”, che trasforma il cuore ammorbidito dalle lacrime”. È l’antidoto alla “sclerocardia, quella durezza del cuore tanto denunciata da Gesù”. È il rimedio, perché ci riporta alla verità di noi stessi, così che la profondità del nostro essere peccatori riveli la realtà infinitamente più grande del nostro essere perdonati.
Ogni nostra rinascita interiore, infatti, “scaturisce sempre dall’incontro tra la nostra miseria e la sua misericordia” e passa attraverso la nostra povertà di spirito che permette allo Spirito Santo di arricchirci”. Francesco chiede poi ai suoi fratelli sacerdoti se “col passare degli anni, le lacrime aumentano”.
Sotto questo aspetto è bene che avvenga il contrario rispetto alla vita biologica, dove, quando si cresce, si piange meno di quando si è bambini. Nella vita spirituale, invece, dove conta diventare bambini, chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, fatta di adorazione e commozione davanti a Dio, matura. Si lega sempre meno a sé stesso e sempre più a Cristo, e diventa povero in spirito. In tal modo si sente più vicino ai poveri, i prediletti di Dio
Un’altra caratteristica della compunzione è la solidarietà, perché “chi si compunge nel cuore si sente sempre più fratello di tutti i peccatori del mondo, senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma con desiderio di amare e riparare”. Un cuore docile, infatti, “anziché adirarsi e scandalizzarsi per il male compiuto dai fratelli piange per i loro peccati”. È una sorta di ribaltamento, in cui “la tendenza naturale a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge e, per grazia di Dio, si diventi fermi con sé stessi e misericordioso con gli altri.
Il Signore cerca, specialmente tra chi è consacrato a Lui, chi pianga i peccati della Chiesa e del mondo, facendosi strumento di intercessione per tutti. Quanti testimoni eroici nella Chiesa ci indicano questa via! Pensiamo ai monaci del deserto, in Oriente e in Occidente; all’intercessione continua, fatta di gemiti e lacrime, di San Gregorio di Narek; all’offerta francescana per l’Amore non amato; a sacerdoti, come il Curato d’Ars, che vivevano di penitenza per la salvezza altrui. Cari fratelli, Non è poesia questo, questo è sacerdozio!
Il Signore infatti, “non chiede giudizi sprezzanti su chi non crede, ma amore e lacrime per chi è lontano”. “Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, le sofferenze che tocchiamo”, sottolinea ancora Francesco, “non suscitano la risolutezza nella polemica, ma la perseveranza della misericordia”.
Quanto abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, da egoismi e ambizioni, da rigidità e insoddisfazioni, per affidarci e affidare a Dio, trovando in Lui una pace che salva da ogni tempesta! Adoriamo, intercediamo e piangiamo per gli altri: permetteremo al Signore di compiere meraviglie. E non temiamo: Lui ci sorprenderà!
A giovarne sarà proprio il ministero del sacerdozio: Oggi, in una società secolare, corriamo il rischio di essere molto attivi e al tempo stesso di sentirci impotenti, col risultato di perdere l’entusiasmo ed essere tentati di “tirare i remi in barca”, di chiuderci nella lamentela - guai delle lamentele - e far prevalere la grandezza dei problemi sulla grandezza di Dio. Se ciò avviene, diventiamo amari e piangenti, sempre sparlando, sempre trovando qualche occasione per lamentarsi. Ma se invece l’amarezza e la compunzione si rivolgono, anziché al mondo, al proprio cuore, il Signore non manca di visitarci e rialzarci.
Infine, Francesco ricorda che la compunzione è una grazia e come tale va chiesta nella preghiera. Due quindi i consigli del Papa per i suoi confratelli. Il primo è quello di non guardare la vita e la chiamata in una prospettiva di efficienza e di immediatezza, ma nell’insieme del passato – ricordando la fedeltà di Dio, facendo memoria del suo perdono e ancorandosi al suo amore – e del futuro – pensando alla meta eterna a cui siamo chiamati, al fine ultimo della nostra esistenza. Allargare gli orizzonti, infatti “aiuta a dilatare il cuore” , “a rientrare in sé stessi con il Signore” e a “vivere la compunzione”. Il secondo consiglio è quello di dedicarsi “a una preghiera che non sia dovuta e funzionale, ma gratuita, calma e prolungata”. L’invito è sempre quello di tornare a San Pietro e alle sue lacrime, conclude il Papa, che ringrazia i sacerdoti presenti per il cuore aperto e docile, per le fatiche e i pianti e per portare la meraviglia della misericordia “ai fratelli e alle sorelle del nostro tempo”.
Al termine della Messa è stato offerto a ciascuno dei sacerdoti il libro di Papa Francesco dal titolo "Sul discernimento - Con un saggio di Miguel Àngel Fiorito e Diego Fares", a cura di padre Antonio Spadaro, pubblicato dalle Edizioni Dehoniane Bologna.
* Fonte: Vatican News
Il Dicastero per il Clero in collaborazione con il Dicastero per l’Evangelizzazione e il Dicastero per le Chiese Orientali (Tre dicasteri insieme pare sia una prima volta per la Curia romana) hanno promosso dal 6 al 10 febbraio a Roma, un Convegno sulla formazione permanente dei sacerdoti. L'incontro aveva il significativo titolo: “Ravviva il dono di Dio che è in te” (2Tim 1,6). La bellezza di essere discepoli oggi. Una formazione unica, integrale, comunitaria e missionaria.
Vi hanno partecipato circa 800 sacerdoti diocesani provenienti da 60 nazioni apportando ognuno il suo contributo di sfide, proposte e di esperienze durante i vari lavori di gruppo ormai tutti modellati sul diffuso metodo sinodale. Anche Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata, ha partecipato all'evento e lo ha riassunto con le sue parole.
La formazione permanente definita come. “un’esperienza di discepolato permanente, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre di più a lui” (Papa Francesco).
La necessità di ripensare la formazione come un “continuum”, cioè un cammino che inizia con la formazione iniziale e continua lungo le varie fasi della vita e del servizio del ministro ordinato.
Una formazione che dev’essere integrale, articolando armoniosamente l'ansia umana che ne è la base, con le sue estensioni spirituale, intellettuale e pastorale.
Nell’Udienza Papa Francesco ci ha poi sfidati a dare a questo nostro cammino il sapore evangelico della gioia e della misericordia, di cui egli stesso è sempre un bell’esempio declinando il tutto in tre tipologie: La gioia del vangelo, uomini del popolo di Dio e la generalità del lavoro pastorale.
Udienza con il Papa Francesconella Aula Paolo VI
Leggi qui il discorso del Papa Francesco ai partecipanti al convegno
Un tema di spicco e in un certo modo un po’ sorprendente trattandosi di clero diocesano, è poi stata la sottolineatura della necessaria dimensione comunitaria della formazione permanente con il vescovo come l’animatore principale. La fraternità sacerdotale, nelle sue varie espressioni, è stato detto, è una buona medicina del presbitero nei momenti ordinari per uscire da un senso di isolamento e una buona spalla soprattutto nelle fasi più critiche della sua vita pastorale.
Da ultimo la missionarietà della formazione che si allarga oltre i propri spazi geo-culturali.
La complessità del momento e la solitudine del sacerdote nell’affrontarle; la diminuzione del clero diocesano e il super attivismo di conseguenza richiesto; una certa visione del sacerdote che lo si vuole quasi “senza corpo”, senza proprie emozioni come un “asessuato”, sempre pronto a rispondere a tutto e a tutti….
Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata, in uno dei vari lavori di gruppo durante il Convegno
L’attenzione al proprio equilibrio personale, il dare spazio e tempo ad una profonda impostazione spirituale della propria vita e ministero con la sua nota contemplativa; la capacità non di negare ma di gestire in modo maturo le proprie sensibilità, emozioni e le relazioni assolutamente necessarie nell’attività pastorale, compresa la propria sessualità che non può più essere un tabù nel sviluppo formativo; il ritorno della necessità della direzione spirituale; il tanto bisogno di accompagnamento e cura del clero da parte dei vescovi, l’uso sapiente dei social network…
Tutto sommato riteniamo che questo convegno, che nelle parole del Card. Lazzaro You Heung, responsabile del Dicastero per il clero, voleva essere l’inizio di un percorso di riflessioni, confronti e proposte da continuare nel tempo anche attraverso la nuova piattaforma di dialogo, il sito web clerus.va ci sembra abbia fatto centro e ne aspettiamo quindi gli sviluppi nel tempo.
* Padre Ernesto Viscardi, IMC, Ufficio Generale per la Formazione.