«Monsignore ma non troppo» (1)

È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

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Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

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La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

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Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

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Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

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Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

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Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

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Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace. (1 – continua)

* Padre Gigi Anataloni, IMC, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

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Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione

Allamano Santo il 20 ottobre 2024

  • , Lug 01, 2024
  • Pubblicato in Notizie

Durante il Concistoro Ordinario Pubblico questo lunedì 1° luglio, Papa Francesco ha annunciato che la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore degli Istituti Missionari della Consolata, si terrà domenica 20 ottobre 2024 a Roma, giornata missionaria Mondiale.

Il miracolo attribuito all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano è avvenuto nella foresta amazzonica brasiliana, nello Stato di Roraima, dove Sorino, uomo dell’etnia Yanomami, fu attaccato da un giaguaro che lo ferì gravemente alla testa, aprendo la scatola cranica; era il 7 febbraio 1996, primo giorno della novena del Beato Giuseppe Allamano.

Trasportato all’Ospedale di Boa Vista, accudito dalle Missionarie della Consolata, che non cessavano di chiedere la sua guarigione per intercessione del Padre Fondatore, Sorino ha miracolosamente recuperato la salute in pochi mesi, e vive tutt’ora nella sua comunità indigena.

L’inchiesta diocesana per lo studio del presunto miracolo è avvenuta nel marzo 2021 a Boa Vista, mentre l’iter del Dicastero delle Cause dei Santi si è concluso il 23 maggio 2024, con l’approvazione del decreto di riconoscimento del miracolo.

È un momento molto significativo per la famiglia missionaria della Consolata, composta da Padri, Fratelli, Suore, Laici e Laiche.

Suor Renata Conti e Padre Giacomo Mazzotti, che attualmente accompagnano la postulazione, parlano sul significato della Canonizzazione del Beato Allamano.

In un messaggio i Superiori generali dei due Istituti, Padre James Lengarin, IMC, e Madre Lucia Bortolomasi, MC, scrivono:

“La sua Canonizzazione è per tutti noi un dono immenso che ci invita ad ascoltarlo, ad attingere sempre di più alla ricchezza della sua santità. Siano i nostri occhi e il nostro cuore fissi sul nostro Fondatore per ascoltarlo e guardare alla sua santità che ci stimola a continuare in modo serio e profondo la sua missione”.

Di seguito il testo integrale del Messaggio dei Superiori generali

* Suor Stefania Raspo e Padre Jaime C. Patias, comunicazione MC e IMC.

Padre Giovanni Bisio, fondatore della nostra presenza in Brasile nel 1937, nacque in vicolo Maiola presso la Chiesa di S. Rocco al Ponte a Garessio (Cuneo) il 12 febbraio 1903. Compiute le classi elementari al paese natio, entrò nel Seminario Vescovile di Mondovì. Fece la Vestizione clericale il 17 gennaio 1918.

Al termine del primo anno di filosofia strappò alla madre, durante il corso di una malattia che lei considerava un castigo per la sua opposizione al proposito del figlio di partire missionario, l’assenso per entrare tra i Missionari della Consolata. Mondovì era in quegli anni fucina di tante vocazioni missionarie. Molti alunni del Seminario si aggregarono ai missionari della Consolata. Lo stesso Vescovo Diocesano, Mons. G. B. Ressia, compagno di studi del Can. Giuseppe Allamano, Fondatore dell’Istituto missionario, non si opponeva a questa emorragia missionaria nel suo Seminario a favore del nuovo Istituto missionario torinese.

Presentiamo questo breve profilo di padre Giovanni Bisio. Buona lettura!

(Padre Pietro Trabucco, IMC, Castelnuovo don Bosco)

Il 20 giugno è la festa della Consolata ed è la festa patronale dei Missionari e Missionarie della Consolata. È importante notare che la festa patronale è una celebrazione solenne dedicata a un santo patrono; viene celebrata in una data specifica dell'anno; ed è una occasione per ringraziare per il bene che abbiamo ricevuto da Dio per mezzo dell’intercessione del patrono.

Per i Missionari della Consolata, quindi, il 20 giugno di ogni anno è una data molto importante che abbiamo ricevuto in eredità dal Beato Giuseppe Allamano che era un fervente devoto della Consolata. Per il Beato Giuseppe Allamano, la festa della Consolata significa quanto segue:

La nostra festa

"Nostra" è un aggettivo possessivo che mostra chiaramente la stretta relazione tra i missionari e questa festa. Dice Giuseppe Allamano: "se celebriamo con intensità di amore tutte le feste della Madonna, quanto più questa che è la “nostra” festa, nostra cioè in modo tutto particolare (Così vi voglio, N. 159); la Madonna Consolata è La Consolata è in modo speciale nostra e noi dobbiamo gloriarci di avere una tale Patrona, essere santamente superbi che il nostro Istituto si intitoli «della Consolata». (Così vi voglio, N. 158).

Festa della Madre e Fondatrice delle Missionarie della Consolata

Normalmente la madre è colei che dà la vita; indica ai figli la strada da seguire e –succede così in molte culture e società– porta il pane alla casa e le dà un calore speciale.

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In innumerevoli occasioni il Beato Giuseppe Allamano si è riferito alla Consolata come alla Madre dei missionari. Li chiamava gli occhi della Consolata e la sua opera viva: “non è infatti la SS. Vergine, sotto questo titolo, la nostra Madre e non siamo noi i suoi figli e le sue figlie? Sì, nostra Madre tenerissima, che ci ama come pupilla degli occhi suoi, che ideò il nostro Istituto (…) ed è sempre pronta a tutte le nostre necessità. La vera Fondatrice è la Madonna” (Così vi voglio, 157). La celebrazione della festa della Consolata è quindi un'occasione appropriata per onorare la Madre e Fondatrice degli Istituti missionari fondati dal Beato Giuseppe Allamano.

Cosa c'è di speciale nella festa della Consolata del 2024?

Esagereremmo se dicessimo che la festa della Consolata di quest'anno ha più valore di quelle celebrate negli anni precedenti. Tuttavia, questa festa ha qualcosa di speciale per i seguenti eventi:

La festa che celebriamo in attesa della canonizzazione di Giuseppe Allamano.

Quest'anno 2024 i Missionari e le Missionarie della Consolata celebrano la loro festa in attesa della canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano. Dopo l'annuncio della Santa Sede del miracolo della guarigione dell'indigeno Sorino Yanomami, attribuito al Beato Giuseppe Allamano, non resta che attendere l'annuncio del Santo Padre sulla data della canonizzazione. Questa festa della Consolata del 2024 sarà diversa perché potrebbe essere l'ultima che celebreremo riferendoci a Giuseppe Allamano come Beato.

La festa che celebriamo nel quadro dell'anno di preghiera

Papa Francesco ha dichiarato il 2024 come “anno della preghiera” in preparazione al Giubileo del 2025. Il motivo dell'anno di preghiera è "vivere bene questo evento di grazia e sperimentare la forza della speranza" (Papa Francesco). Da quando abbiamo ricevuto la notizia dell'approvazione del miracolo, è probabile che la sua canonizzazione avvenga nell'ambito dell'anno di preghiera.

È interessante ricordare che Giuseppe Allamano è stato un maestro e un esempio di preghiera; spesso esortava i missionari sull'importanza della preghiera, sia nella loro vita personale che nell'apostolato missionario: "“ogni nostra azione, spirituale o materiale, incominci da Dio e termini in Dio. Questo è lo spirito che deve accompagnarci ogni giorno e tutti i giorni; così la nostra vita sarà veramente tutta del Signore” (Così vi voglio, N. 175). È una grazia di Dio che l'annuncio dell'approvazione del miracolo e forse la canonizzazione avvengano nello stesso anno di preghiera.

Conclusione

Nostra Signora Consolata è colei che identifica l'opera evangelizzatrice dei Missionari e delle Missionarie in tutto il mondo. La celebrazione della festa della Consolata è un'occasione per ringraziare il Signore per il dono del Beato Giuseppe Allamano alla Chiesa universale e la sua appassionata devozione alla Consolata è l'eredità che i missionari hanno ricevuto da lui per trasmetterla ad altri nelle missioni.

* Padre Lawrence Ssimbwa, IMC, parroco di San Martin de Porres a Buenaventura, Colombia.

Dopo tre anni di ricerca-studio, nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Urbaniana in Roma, il missionario della Consolata tanzaniano, padre Thomas Leon Mushi ha difeso, questo venerdì 14 giugno 2024, la sua tesi dottorale dal titolo “La durata in ufficio del parroco religioso”.

In particolare, lo studio sulla relazione tra i canoni 522 e 682 ha conferito a padre Mushi il titolo di Dottore in Diritto Canonico.

Pubblichiamo una breve presentazione della sua tesi in questo articolo scritto dall'autore stesso.

LA DURATA IN UFFICIO DEL PARROCO RELIGIOSO: Lo studio sulla relazione tra i cann. 522 e 682.

Presentazione della tesi di dottorato in diritto canonico

Motivazioni

L'interesse per intraprendere questo studio nasce proprio dalla mia vocazione religiosa e missionaria. Avendo incontrato vari missionari religiosi lavorando nel settore come parroci, ho coltivato l’interesse di approfondire la mia conoscenza sul ministero del parroco specificamente del parroco religioso.

Il tema però del parroco religioso è molto vasto, e quindi, grazie ai consigli del Moderatore della tesi, il Prof. Paul Armand Bosso, ho potuto restringere il campo ad un aspetto specifico e concreto. Sollecitato anche dall’esperienza acquistata dall’osservazione dei parroci religiosi nel mio paese di origine in Tanzania, nonché nelle nostre missioni in Mozambico e Portogallo, ho deciso di lavorare sull’aspetto che riguarda la “durata in ufficio”.

Il vedere i parroci religiosi spostati (rimossi o trasferiti) con facilità e dopo un breve periodo in ufficio, mi ha spinto a concentrarmi su questo aspetto con lo scopo di offrire chiarezza al riguardo, e possibilmente contribuire con uno strumento che servirebbe come manuale ai Superiori maggiori degli Istituti Religiosi nonché agli Ordinari del luogo per la fattispecie dei parroci religiosi.

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Padre Thomas Mushi, Prof. Ndiaye Antoine Mignane, Prof. Bosso Armand Paul e Prof. Okonkwo Ernest B. Ogbonnia

La novità

La novità di questo studio è proprio come già accennato sta nel titolo “la durata in ufficio del parroco religioso.” Nella nostra ricerca abbiamo evidenziato che il campo di interesse sul parroco religioso è stato poco ricercato e approfondito, e molto meno sulle questioni riguardanti la durata in ufficio.

Le ragioni sono evidenti, perché dalla legge vigente non è specificata.  L’espressione che la ricerca guarda con attenzione è “ad nutum superiorii” in can. 682 senza una diretta considerazione del can. 522 che mette in luce la “stabilitas” per garantire il bene delle anime. Secondo la legge attuale la provvisione ad vitam è meno frequente che della nomina ad tempus determinatum.

L'ufficio di parroco conferito ad un sacerdote religioso e la sua cessazione viene fatto secondo le disposizioni del canone 682, §§1-2. In più, nella procedura generale per la rimozione e trasferimento dall’ufficio del parroco, il religioso parroco è trattato come una eccezione. Può rimanerci 3 mesi, un anno, oppure 20 anni dipendendo dalla discrezione del suo superiore competente. Ma nessuna garanzia viene data per un tempo minimo per il bene delle anime a lui affidate.

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La suddivisione del lavoro

Il nostro lavoro è diviso in tre capitoli. Il primo capitolo riguarda la configurazione giuridica dell'affidamento di una parrocchia ad un istituto religioso. In questo capitolo abbiamo cercato di approfondire la fattispecie dell’affidamento delle parrocchie agli istituti religiosi o ai chierici religiosi singolarmente. Il capitolo conclude con una particolare considerazione sulla personalità giuridica del titolare dell'ufficio di parroco e sul suo rapporto con la sua comunità religiosa e con le autorità competenti. La conclusione indica anche come risolvere la problematica della durata dalle convenzioni stipulate.

Il secondo si occupa dello status quaestionis della ricerca, cioè la durata in ufficio del parroco in generale con richiami alla considerazione giuridica, valida anche per il parroco religioso, che il parroco indipendentemente del suo status d’incardinazione è chiamato a servire il popolo di Dio in collaborazione con l’Ordinario del luogo. L’aspetto comune a tutti i parroci è “il bene delle anime”. È un capitolo di natura comparativa pensando necessariamente al rapporto tra due importanti cann. 522 e 682, §1. Entrambi i canoni trattano la durata dell'ufficio del parroco. Lo studio tocca anche il decreto Maxima cura che ha portato alle disposizioni del Codice Pio Benedettino ed altrettanto, l'apostolato dei religiosi, come raccomandato da alcuni documenti conciliari e postconciliari del Concilio vaticano II nonché l’esaminare la determinazione della durata a partire dai criteri e ruolo svolto dalle Conferenze episcopali. La conclusione indica la soluzione alla problematica considerando can. 522 nell’applicare il can. 682.

Il terzo capitolo è dedicato all'approfondimento delle fattispecie del conferimento e della rimozione di un parroco religioso nel c. 682, §§ 1-2. In questa fattispecie la nostra ricerca segue la norma del diritto come mezzo per il quale si potrà garantire la stabilitas del parroco religioso che dipende veramente dalla durata in termini dei tempi della provvisione e la cessazione d’ufficio. E per garantire la durata della provvisione, come nel primo capitolo presentiamo lo strumento di controllo, c’è la possibilità di ricorso amministrativo oppure gerarchico fino addirittura alla Segnatura apostolica.

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Padre Alberto Trevisiol, Prof. Okonkwo Ernest B. Ogbonnia, padre Thomas Mushi, Prof. Bosso Armand Paul, Prof. Ndiaye A. Mignane e  padre Mathews Odhiambo

Conclusioni

Senza pretesa di esaustività della comprensione della fattispecie del parroco-religioso che ha determinato la nostra ricerca, è chiaro che l'approfondimento della conoscenza circa l'ufficio di parroco affidato ad un sacerdote-religioso, si è sviluppato proprio a partire dal contesto storico della pratica e dall'importanza dell'ufficio stesso. Sulla base dei risultati, è indicativo che il ruolo dei religiosi nella Chiesa locale è importante e positivo. In parte l’identità religiosa non cessa di esserlo grazie alle attività pastorali fuori della casa religiosa al servizio della diocesi e della Chiesa universale in generale. Seguendo l'indole del loro istituto, i sacerdoti-religiosi svolgono il loro ministero, tenendo presenti le prescrizioni dei cann. 673 e 678 §2.

Attraverso questa ricerca, abbiamo esaminato la durata di un parroco-religioso nell'ufficio dal punto di vista storico e giuridico, in modo da stabilire una possibile procedura per garantire la stabilità nell'ufficio per il bene delle anime nella Chiesa.  La ricerca l'ha esaminata soprattutto dal punto di vista della configurazione giuridica dell'affidamento di una parrocchia ad un istituto religioso; osservando la realtà, ha visto che è un fatto innegabile come il numero delle parrocchie affidate agli istituti religiosi sia aumentato negli ultimi decenni in quasi tutta la Chiesa. Le ragioni sono varie, ma in generale si tratta del numero limitato di sacerdoti diocesani necessari per rispondere alla crescente necessità spirituale dei fedeli. Per questo motivo i religiosi addetti alla pastorale parrocchiale sono chiamati ad essere fedeli al carisma del proprio istituto durante tutto il tempo dell’esercizio del loro ufficio.

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Padre Thomas Mushi con i confratelli della Casa Generalizia

Nella sua generalità, il diritto regola vari aspetti: la vita dei fedeli all'interno della Chiesa cattolica e la loro condotta, allo scopo di mantenere l’ordine. Tra questi aspetti, vi sono gli uffici ecclesiastici che sono affidati alle persone fisiche. La legge, nel trattare tali uffici e le persone alle quali sono affidate, non può ignorare il loro status, ad esempio, dei membri chierici diocesani, o religiosi. La dinamica dell'affidamento, anche se simile, nella sua concretizzazione varia da una Conferenza Episcopale all'altra.

Tanto per fare un esempio di ciò che è diverso, paragoniamo la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) alla Conferenza Episcopale del Tanzania (TEC) per cui l'una (la prima) nella sua dinamica comprende anche la retribuzione dei titolari degli uffici ecclesiastici, come del parroco, mentre l'altra (la seconda) cerca effettivamente l'aiuto dei titolari degli uffici senza garanzia di retribuzione,  In realtà, può essere il contrario, che i titolari dell'ufficio ecclesiastico cerchino anche i mezzi per sostenere il loro lavoro e le loro iniziative pastorali e aiutare i bisognosi all'interno del territorio. Quindi, in entrambe le realtà i sacerdoti lavorano per lo stesso scopo, ma la considerazione data agli operai è diversa a seconda delle circostanze, o del migliore contesto economico. Con questa preoccupazione siamo d'accordo sul fatto che «la legge universale, nella sua generalità, non può prevedere tutte le eventualità. Occasionalmente ci sono mancanze, incompletezze, inadeguatezze, casus omissus e persino lacune all'interno del corpo legislativo». (J. O. Okello, La potestà dei superiori maggiori degli istituti religiosi di diritto pontificio di dispensare dalle leggi generali e proprie, PUB Roma 2021, 801.

Il conferimento dell'ufficio parrocchiale ad un religioso da parte del Vescovo diocesano non può essere eseguito senza la presentazione, o almeno il consenso del Superiore religioso competente (cf. can. 682, §2). Attraverso questa procedura il religioso-parroco diventa soggetto al Vescovo diocesano in tutte le questioni di pastorale delle anime e al suo Superiore competente per quanto riguarda il suo stato religioso e l'istituto di appartenenza. Inoltre, lo stato religioso non è di per sé incompatibile con il ministero parrocchiale.  Ciò che è veramente importante è cercare il modo corretto attraverso il quale i religiosi possono esprimere e vivere il carisma del proprio istituto religioso mentre esercitano il loro ministero parrocchiale. Il ministero pastorale dei religiosi sarà certamente influenzato dal loro carisma, specialmente dallo stile di vita spirituale e pastorale a cui sono chiamati da Dio mediante la loro vocazione.

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Concretamente, si è cercato di mostrare la configurazione giuridica dell'affidamento di una parrocchia ai religiosi, così come è stata esaminata nell'impostazione del rapporto tra due canoni (682 e 522), dando alcune possibili ragioni per cui il can. 682 sembra mancare di qualcosa quando tratta della questione dei limiti temporali della nomina di un religioso a parroco. Questo lavoro ha messo in luce le informazioni che dovrebbero essere contenute; in particolare, quella su quanto tempo un parroco religioso dovrebbe rimanere nell'ufficio.

Questa “ambiguità” è radicata in tutta la dinamica della nomina, del trasferimento e/o della rimozione di un religioso dall'ufficio. Ciò è dovuto al fatto che i poteri del superiore competente per tali atti amministrativi sono incontrollati e ciò può dare spazio a possibili abusi della potestà discrezionale. La durata della nomina di un parroco-religioso alla luce del rapporto tra due importanti canoni (c. 522 in relazione al c. 682 §1) pone la domanda: «Qual è la ragione necessaria perché un parroco sia stabile nel suo ufficio?». Lo scopo raggiunto è stato la determinazione di ciò che conta davvero: il bene delle anime e quello del titolare d’ufficio.

Da questo studio di ricerca, abbiamo visto che chiaramente la legge deve garantire entrambi: il bene delle anime e il bene del titolare dell'ufficio. Il Concilio vaticano II ha profondamente modificato sia il concetto di ufficio, in cui il servizio delle anime è il fine principale (cf. la definizione di ufficio in Presbyterorum ordinis, 20), sia la ragione della stabilità, che è soprattutto il bene delle anime. Il Concilio Vaticano II si esprime così: «I parroci nelle loro parrocchie devono poter godere di quella stabilità nell'ufficio che il bene delle anime richiede». Non si dovrebbe, perciò, fare distinzione tra parroci; è sempre meglio che tutti siano trattati allo stesso modo e per lo stesso obiettivo. Possiamo quindi, senza dubbio, essere d'accordo sul fatto che la ragione della stabilità è il bene delle anime. I parroci, siano essi religiosi, o diocesani, devono poter godere di quella stabilità nel loro ufficio, che il bene delle anime richiede  (Cf. F. Coccopalmerio, La parrocchia. Tra Concilio Vaticano II e Codice di Diritto Canonico, 165).

In effetti, il ministero di un parroco-religioso non è diverso da quello di un parroco diocesano. Esso si avvale dei compiti specifici della responsabilità della parrocchia, delle sue peculiari funzioni di culto e di evangelizzazione, della paterna guida dei fedeli, nonché dei vari compiti amministrativi connessi con la gestione quotidiana delle risorse della parrocchia e delle varie attività caritative. Il fattore di fondo è il fatto che il munus del parroco è essenzialmente di natura pastorale come affermano alcuni canonisti, si dovrebbe porre maggiore enfasi sull'obiettivo centrale che è la collaborazione con il vescovo nella nobile missione della cura delle anime. Il bene delle anime deve essere al primo posto nella scala dell'importanza, cioè, deve essere preso come un indicatore indispensabile al di sopra del bene dell'istituto religioso.

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L'attuale Codice tace (in parte) sulla procedura di rimozione o trasferimento di un parroco-religioso. Considera solo ad nutum superioris ciò che è sotto la discrezionalità dei competenti superiori.  Siamo del parere che ci debba essere un trattamento equo di tutti i parroci, indipendentemente dal loro status. Questo dovrebbe essere preso in seria considerazione perché non è solo il superiore religioso competente che può rimuovere, ma anche il vescovo e i suoi equivalenti. Questa considerazione garantirebbe il raggiungimento e la permanenza del fine supremo della cura pastorale, che è il bene delle anime. Così, il parroco-religioso dovrebbe essere considerato nel processo di rimozione descritto dai cc. 1740-1747 in modo esplicito, piuttosto che essere trattato come eccezione, ad nutum (cf. can. 682).

La responsabilità di colmare le lacune delle leggi universali e proprie ricade nelle mani di coloro che esercitano il potere pubblico all'interno della Chiesa. Ai sensi del can. 19 del Codice del 1983, sia il Legislatore universale che le competenti autorità interne con funzioni legislative ed esecutive all'interno degli istituti di diritto pontificio hanno il dovere di colmare queste lacune per una migliore amministrazione da parte dei Superiori e per la tutela dei diritti individuali all'interno degli istituti contro ogni forma di abuso di autorità. È nostra convinzione che le autorità responsabili rivedranno la legge universale in modo da colmare le lacune delle leggi che regolano il parroco-religioso.

Inoltre, I Capitoli Generali hanno un ruolo inevitabile per stabilire con chiarezza la prassi dell'affidamento delle parrocchie e la responsabilità dei superiori competenti di nominare i parroci, che saranno istituiti dagli Ordinari del luogo. Dovrebbe esserci anche la possibilità di rivendicare i propri diritti in caso di violazione della legge in procedendo o decernendo. La Santa Sede rimane responsabile di fornire le norme generali da seguire per la produzione di atti amministrativi singolari e le procedure per la rivendicazione dei diritti attraverso il ricorso amministrativo, o gerarchico ogni tal volta che i diritti dell'individuo sono stati violati.

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E in fine, cosciente del principio “Ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus”, la ricerca fa delle proposte concrete per la soluzione del problema della durata in ufficio d’un parroco-religioso:

i) Che la durata sia specificata nella convenzione, richiamando i superiori competenti affinché rispettino i tempi definiti dalla Conferenza Episcopale del luogo, oppure stabilire il tempo determinato per la provvisione con una clausola specifica.

ii) Nel canone della provvisione dell’ufficio stesso si faccia un richiamo al can. 522 (per esempio: can. 682 2 sarebbe così: «Salvo restando le disposizioni del can. 522, il religioso può essere rimosso dall'ufficio conferito, a discrezione sia dell'autorità che glielo ha affidato, informatone il Superiore religioso, sia da parte del Superiore stesso, informatane l'autorità committente; nell'uno e nell'altro caso non si richiede il consenso dell'altra autorità,».

iii) Che il parroco-religioso sia trattato in modo uguale agli altri parroci per la rimozione, o il trasferimento dall’ufficio e non, invece, come un’eccezione, tutelando il bene dell’anime e non dell’istituto religioso. E, in tutto questo, è opportuno che i parroci stessi siano al corrente dello strumento di controllo a loro disposizione, cioè il ricorso amministrativo e gerarchico per potersene avvalere in caso di violazione di diritto in procedendo o decernendo.

* Padre Thomas Leon Mushi, IMC, è missionario tanzaniano dottore in Diritto Canonico.

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Casa Generalizia IMC a Roma

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