La lettera di saluto di Padre Stefano Camerlengo ai Missionari della Consolata alla fine del suo servizio come Superiore Generale

Come sono belli i piedi! «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”» (Is 52,7)

“Noi non dobbiamo avere la mania di possedere molti territori di missione, ma la preoccupazione di curarli molto!”. “Bisogna aver cura del buon nome dell’Istituto e dei suoi membri, facendo attenzione alle singole persone dei missionari come figli in casa propria e a proprio agio!” (Beato Giuseppe Allamano).

Missionari carissimi, al termine del mio mandato al servizio dell’Istituto, vorrei ringraziare tutti e ciascuno di voi per il cammino vissuto assieme e chiedere perdono per quello che non sono riuscito ad essere e a fare, per quello di cui non mi sono preso cura, per quello che ho trascurato, e infine per il fratello che non ho saputo accompagnare e abbracciare.

È stata una grande grazia poter servire il mio Istituto che amo. Ho ricevuto molto di più di quanto abbia potuto dare. Posso, sinceramente e onestamente, affermare di aver cercato di vivere il mio servizio intensamente e il meno indegnamente possibile. Ce l’ho messa tutta e quello che non è andato bene... “non è dipeso da una mia cattiva volontà”.

Ora si apre una nuova pagina della mia vita e mi permetto di farmi pellegrino, lasciando il già conosciuto per avventurarmi lungo nuovi sentieri, accettando di diventare straniero non solo rispetto agli altri, ma addirittura nei confronti di me stesso, dei miei progetti e delle mie attese e ricerche. Sarà una condizione difficile da vivere, ma salutare, perché mi costringerà a sgomberare il cuore per renderlo più disponibile e ospitale verso le sorprese di Dio, della stessa vita e della missione.

Mi permetto di citare gli ingredienti che un antico pellegrino medievale individuava come necessari per il cammino verso Santiago di Compostela. Egli parlava di sette ingredienti o, meglio, di sei più uno, in quanto il settimo non era da considerare l’ultimo ingrediente, ma il mezzo che permetteva di vivere bene i primi sei. Ecco i sei ingredienti: la pazienza di chi non ha fretta, il silenzio, la solitudine, lo sforzo, la sobrietà, la gratuità. Il settimo ingrediente o, meglio, il “più uno” è la “bellezza” che deve dare significato e colore a tutti gli altri. Tutti i sei ingredienti devono guidare verso la bellezza. Dunque, una vita bella, una bella esperienza di Dio, una bella preghiera, un cammino bello, una missione bella...

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Anche il pellegrinaggio che mi accingo a intraprendere deve portare i colori dei sei ingredienti citati sopra. Voglio incamminarmi con la pazienza di chi adotta il ritmo del passo dopo passo, senza bruciare troppo in fretta le tappe da percorrere. Con il silenzio di chi si pone in ascolto non soltanto per comprendere, ma anche per accogliere, ospitare e custodire. Con la solitudine di chi non si chiude nel proprio individualismo egoistico e autoreferenziale, ma sa mettersi in gioco in prima persona, con responsabilità e coerenza. Con lo sforzo di chi sa impegnare con intelligenza e creatività le energie che ancora esistono, senza trattenere per se quanto è da condividere con gli altri. Con la sobrietà di chi sa discernere per comprendere qual è il passo da fare sul momento e impara a distinguere che cosa mettere nello zaino, perché necessario, e cosa invece è da lasciare a casa, per evitare di caricarsi di una zavorra inutile. Con la gratuità di chi non cerca se stesso, ma il bene dell’altro, e non mira ad altro guadagno o successo che non sia una gioia condivisa. Sia chiaro non si intende qui una gioia qualsiasi, ma la gioia del Regno, la gioia dell’Evangelo, la gioia di quella bella e buona notizia che è Gesù, la gioia della sua Pasqua, della sua salvezza e della sua missione.

Desidero vivere tutto questo colorandolo di bellezza. Di certo non una bellezza meramente estetica, ma una bellezza che sia armonia, equilibrio, coerenza e fedeltà. Non basta cercare il bene, ma occorre tendere verso un bene che sia bello, e dunque attraente, persuasivo, consolante e, soprattutto, che sia in grado di emanare una luce che al tempo stesso rischiari e riscaldi. Vorrei vivere questo nuovo itinerario guidato e sostenuto da quei sei ingredienti nella speranza di essere illuminato dal magnetismo della missione, che per noi è vita e vocazione.

Isaia proclama: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio!” (Is 52,7). Piedi stanchi e sofferenti per il lungo cammino, eppure piedi belli. Piedi belli perché disposti ad annunciare il perdono, la misericordia e la salvezza. Tali furono i piedi di Gesù. Tali sono i piedi di ogni vero pellegrino, che osa farsi straniero persino a stesso, per portare ad altri la pace.

Camminiamo nella vita per aprirci con fiducia e con sorpresa ad una missione che sia “nella testa, sulle labbra e nel cuore”, come ci ha insegnato il nostro amato Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e come l’hanno vissuta tutti i vari testimoni e la nostra cara Consolata, confidando sempre e senza tentennamenti perché...”il meglio deve ancora venire!”

Concludendo vorrei porgere il mio augurio più sincero e fraterno al nuovo Superiore Generale che la Provvidenza di Dio ci ha donato e con lui anche a tutta la sua squadra che lo Spirito Santo ha scelto per prendersi cura della famiglia del nostro Istituto. Più che alle difficoltà e ai problemi che ci sono, vi invito a guardare al bene, al vero e al buono, alla persona del missionario, alle comunità che accompagniamo, alla grandezza e profondità della missione che serviamo, al tanto amore, bontà e “generatività” che esiste. Essere Missionari della Consolata ci mette in condizione di “essere santi”! “Che il Signore rivolga il suo sguardo su di noi, ci mostri il suo volto e ci dia pace!"

A tutti e a ognuno: GRAZIE! CORAGGIO E AVANTI IN DOMINO! 

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Riflessioni sui 18 gli anni di servizio come Superiore Generale (TERZA PARTE)

Tutte le sfide che abbiamo davanti, nuove o non più nuove, tutto ci parla dell’urgenza della formazione: se come Istituto vogliamo andare avanti dobbiamo metterci tutti in formazione, incluso a costo di chiudere le missioni. Se passa questo messaggio credo che potremmo dire di avere raggiunto un obbiettivo importante, forse il più importante.

Poi c’è anche un altro aspetto organizzativo che preoccupa ed è quello della economia. In questo campo è particolarmente importante il tema della responsabilità. È necessario capire con chiarezza che in missione non siamo andati a far soldi e che quelli che la provvidenza mette nelle nostre mani sono per la buona realizzazione della missione e non per altre cose.

Una parola per i giovani

Ho tante cose da dire ai giovani per l’affetto che ho per loro e riconoscendo la difficoltà di donarsi al Signore e alla missione nel momento attuale. Principalmente mi sento d’indicare TRE esigenze, percorsi e cammini che considero fondamentali per aiutare la persona a donarsi, l’Istituto ad avere un senso, la grande famiglia della Consolata una credibilità di vita e di testimonianza.

1. IL CAMMINO DI CONVERSIONE. La prima di queste urgenze è quella di un reale cammino di conversione, un andare avanti sulle tracce di Cristo, senza mai sentirsi pienamente arrivati. Prima di ogni missione, di ogni diaconia, prima delle opere, è necessario un ritorno a Dio, un cambiamento di vita, una conversione sempre in atto. Giorno  dopo giorno, dobbiamo essere disposti ad accettare la precarietà degli assetti rinnovando ogni giorno la decisione di amare l'altro senza reciprocità e incontrando gli uomini, gli ultimi, che si vogliono servire. Se un giovane entra in formazione e non si lascia convertire non ha futuro. Non si tratta semplicemente di una pia esortazione. Sulla piena disponibilità a questa conversione sta o cade la consacrazione alla missione. Vivere i voti è difficile. Piantiamola con il dire che nella vita consacrata e missionaria tutto è bello, quasi che non ci fosse un prezzo da pagare. Certe seduzioni creano facili entusiasmi che, alle prime difficoltà svaniscono come la neve al sole. La disponibilità all'azione dello Spirito Santo esige una lotta spirituale continua. Non ci può essere una consacrazione alla missione senza rinuncia, senza patire delle mancanze, senza soffrire. Per questo è fondamentale accogliere la conversione come una grazia, una purificazione, un cammino di vita. 

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2. LA PIENA UMANIZAZZIONE. Questo cammino di conversione dev'essere, però, accompagnato da una piena umanizzazione. Non dimentichiamolo mai: la consacrazione per la missione è vita umana, vissuta da persone che cercano di innestare la loro umanità nell'umanità di Gesù. È un innesto tutt'altro che semplice. Può avvenire solo attraverso un'arte del vivere, che esige spoliazione semplificazione, unificazione, ricerca di ciò che è essenziale per l'uomo d'oggi. 

Molto spesso, ciò che ostacola la realizzazione sia personale come comunitaria, è la scarsa qualità umana. Il vero problema di tante comunità è la carenza di umanità: si ha a che fare con esistenze vissute senza passione, senza convinzioni profonde, senza sensibilità, senza bellezza, senza libertà interiore. Ma senza libertà, si diventa schiavi. Bisogna avere il coraggio di dircelo e di dirlo ai giovani: o la nostra vita di consacrati per la missione è un cammino di umanizzazione, diversamente non riusciamo a viverla. Come la conversione, anche l'umanizzazione è un cammino faticoso che attraversa tutte le fasi della vita.

3. LA VITA FRATERNA ESSENZA DELLA CONSACRAZIONE PER LA MISSIONE. Sia il cammino di conversione che quello di una piena umanizzazione, non possono non tendere alla comunione. Proprio il celibato chiede di essere vissuto in una vita di comunione, li dove l'amore fraterno sa anche vivere di distanza, di discrezione, di sobrietà, il rispetto della libertà di ciascuno, una vita che già di per sé è una profezia in atto. La vita fraterna è il fine e la ragion d'essere degli stessi voti religiosi. Nella misura in cui vuole essere memoria reale e concreta della comunità vissuta da Gesù, la vita fraterna diventa il dono per eccellenza dello Spirito. Anche se questa comunione comporta il mettere in comune i propri beni, l'abitare e il pregare insieme, significa soprattutto lotta contro l'individualismo o contro una vita comune che obbedisce a regole mondane. Una vera vita di comunione è una vita strutturata e regolata e dev'essere pensata in primo luogo come servizio reciproco, dove la prima opera è amarci gli uni gli altri perché solo allora Dio dimora in noi. In questo modo saremo riconosciuti come discepoli di Gesù con la missione nel cuore!!!

Guardando a futuro

Proprio pensando al futuro, sarebbe opportuno, di tanto in tanto, guardare indietro, non dimenticando quel passo straordinariamente eloquente con cui Isaia si rivolge ai suoi figli (discepoli): «Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (8,17-18). 

Non dobbiamo temere. Ogni comunità può essere segno e presagio. Anche se l’Istituto sarà ridotto ad un piccolo “resto”, continuiamo a non temere. Sempre Isaia ci assicura che se anche restasse soltanto un ceppo, perché l'albero è abbattuto e tutti i rami e anche il tronco sono a terra, quel ceppo, dice Isaia, è un “ceppo santo” che continuerà a gettare virgulti e sarà “seme santo” (6,13)». Come il Signore non è mai venuto meno alla sua fedeltà nel passato, così sarà anche nel futuro. Ecco, è questa la consolazione!

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La consolazione è utile anche per le nostre fragilità

Consolazione è fare i conti anche con le nostre fragilità e questo lo vediamo spesso quando ci avventuriamo nella missione. Ricordo un viaggio al nord dell'Argentina, nel periodo di Natale, che nell’emisfero sud è il periodo più caldo dell’anno e la temperatura era quasi insopportabile. Il viaggio era stato lunghissimo in parte perché l'Argentina è grande ma anche perché la strada era stata chiusa in più di una occasione da picchetti per qualche tipo di manifestazione.

Dopo ben 20 ore di viaggio ho raggiunto la parrocchia dove lavorava il padre Juan Domingo Varela e ci siamo preparati per celebrare il Natale in un villaggio chiamato “el pozo del tigre”. Sono venute sette persone in tutto; non c’erano nemmeno le suore che in quei giorni avevano la visita della superiora. Quando il giorno dopo sono andato a salutarle... nell’atrio della casa mi accolse una gigantografia di Ernesto Che Guevara.

Nella parrocchia vicina la nostra presenza è stata più utile perché il sacerdote incaricato della comunità non aveva celebrato la messa di Natale per andare a far festa con la sua famiglia. In cambio in quella chiesa abbiamo potuto contare con la presenza preziosa di una comunità di suore che giustamente a Natale ci hanno fatto cantare “tu scendi dalle stelle... e vieni in una grotta al freddo e al gelo!”.

Vorrei terminare questa mia riflessione con una riflessione di Marco Guzzi, tratto dal libro “Darsi pace”, titolato “Infinita consolazione”. Dice bene quello che ho vissuto o cercato di vivere in questi 18 anni di servizio all’Istituto.

Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.

Abbiamo sempre bisogno di essere consolati, confortati nella nostra sofferenza strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria giornata terrena. Non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione. 

Tutto dovrebbe essere finalizzato a questo scopo: il lavoro, la sapienza, ogni forma di compassione e di amore, siano modi per consolare, per dire all’essere umano: tu hai un grande valore. Non temere, non sei solo, e questa scarpata ripida e dolorosa ti sta portando sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.

LEGGI LA PRIMA E LA SECONDA PARTE

“Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio.” (2 Cor 1,3-4)

Carissimi confratelli, consorelle, laici missionari, familiari, amici e benefattori,

La Festa della Consolata, sempre bella per tutti noi, quest’anno ha un sapore ed una grazia particolari. La celebreremo a Torino, quasi a conclusione del XIV Capitolo Generale, presso i luoghi della nostra storia e memoria ed in particolare al Santuario della Consolata. Possiamo dire che è in questo luogo speciale che siamo stati pensati, generati e formati dal cuore sacerdotale e missionario del Beato Allamano che battendo con il cuore di Maria ha accolto ogni sua ispirazione e desiderio. Il Fondatore, contemplando la Consolata ed il Figlio che porta in braccio, fatto carne e adorato nell’Eucarestia, ha accolto il carisma che ha dato vita alla nostra famiglia missionaria.

Che cosa ci siamo detti e chiesti in questi giorni di riflessione, scambio, preghiera e celebrazione? Ci siamo detti che abbiamo bisogno di ritornare a bere alla fonte del nostro carisma per poter essere fedeli alla missione che ci è stata affidata ed essere presenza e testimonianza di consolazione in questo mondo ferito, affamato e assetato di giustizia e di pace, portando Gesù e la vita nuova e bella del Vangelo.

Come discepoli e missionari, anche noi alla luce della Parola, abbiamo compreso che nulla può fermare la forza del Vangelo che siamo chiamati ad annunciare. Anche se le situazioni e realtà i cui viviamo sono difficili e noi stessi ci scopriamo deboli e fragili, non possiamo fermarci perché sappiamo che non contiamo solo sulle nostre forze, ma soprattutto su quella di Gesù e del suo Spirito.

Anche Papa Francesco, che abbiamo incontrato con le Missionarie della Consolata, con poche parole, ci ha lasciato un mandato: “Vi incoraggio a camminare sempre con gioia nelle vie del Signore” che per noi sono le vie della missione e della consolazione. Ci è sembrato di sentire le parole del Fondatore quando diceva: “Coraggio e avanti in Domino!”.

Più volte ci siamo detti che questo cammino non lo facciamo da soli, ma come comunità e come famiglia, con quello spirito che il Fondatore ci ha chiesto fino alla morte; tra di noi, con le Missionarie della Consolata e tutti quei laici missionari che condividono il nostro carisma. Questa vita fraterna e di famiglia, vissuta in comunità arricchite dalle più varie culture, è il primo annuncio e testimonianza missionaria che possiamo dare.

Ci recheremo in pellegrinaggio al Santuario per ringraziare, per celebrare e poi per ripartire perché la Consolata è già là, in ogni continente, che ci aspetta e precede, passeremo per dirle che rinnoviamo davanti a Lei il nostro proposito di amare, servire e consolare l’umanità con il suo cuore, con le sue mani e con le parole del Figlio suo.

Presso la Consolata il Beato Allamano ha celebrato l’invio in missione di tanti missionari e missionarie, oggi continua ad inviare anche ognuno di noi. Lui, con la mente ed il cuore, partiva con loro, oggi continua a partire attraverso ognuno di noi e ci ripete: “Gesù ha conferito il mandato ai missionari. Vedete che consolazione! Il Signore in quel momento ha pensato a ciascuno di noi. Si vedeva che gli stava tanto a cuore la sua Chiesa”. (25 ottobre 1918 – Celebrazione per la partenza per l’Africa).

Affidiamo alla Consolata quanto lo Spirito ci ha indicato in questo XIV Capitolo Generale e la nuova Direzione Generale che servirà e animerà la nostra famiglia missionaria in questo sessennio.

Ci affidiamo all’intercessione delle Beate Irene Stefani e Leonella Sgorbati e, in particolare, del Beato Giuseppe Allamano del quale in questo sessennio celebreremo il centenario della morte facendo anche di questo momento una occasione di rinnovamento nel carisma che ci ha trasmesso.

Ad ognuno, e in particolare ai missionari anziani ed ammalati, il nostro saluto chiedendo alla Consolata che tutti benedica e consoli.

Sono padre Daniel Ruiz, compio non 50 ma 55 anni di ordinazione a dicembre di quest’anno. Sono venuto a Roma perché ero sicuro che questo corso mi sarebbe stato di grande aiuto per trovarmi con la mia realtà, la mia vecchiaia... e così è stato. Il prossimo mese di maggio compirò 78 anni e ho potuto scoprire che la vecchiaia non è, come dicono in swahili, un “mzigo mzito”, un peso noioso da portare, ma è un dono e un valore con il quale, anche se le forze mancano un po’, abbiamo ancora tanto da dare agli altri.

Tutto quello che abbiamo raccolto nella nostra vita è da comunicare agli altri, una saggezza che non va sprecata. 

Grazie mille per questo corso, è stato un grande regalo. Torno in Tanzania per continuare a comunicare ed annunciare ai fratelli e lo faccio con maggior fiducia in Colui che mi ha chiamato e continua a dare la vita per noi.

Il simbolo che ho portato è una tartaruga, perché la tartaruga? Perché in Kiswahili ci sono delle favole che hanno come protagonista Mzee Kobe, cioè l’anziano tartaruga. Questi è un animale simpatico, certamente lento, ma ci comunica la pazienza e la saggezza. 

La ragione di questo segno che mi sono portato viene da lontano, da quando sono arrivato in Tanzania la prima volta. Avevo trovato p. Giovanni Barra al quale avevo chiesto di consigliarmi qualcosa di importante per la mia nuova missione in quel paese. Lui mi ha risposto con un indovinello che diceva così: “chi non ce l’ha l’acquista e chi ce l’ha la perde... che cos’è?”. Ci avevo pensato un po’ e dopo mi ero arreso. E allora lui mi ha risposto in questo modo: “la pazienza figliolo! Se non ce l’hai la acquisterai, e se ce l’hai la perderai!”.

È la frase che non mi dimentico mai... io in realtà mi sembra di averne ma è pur sempre vero che ogni tanto la perdo e allora la devo riacquistare. È un valore per me e per quelli che convivono con me e da lì il simbolo che ho portato per “presentarmi” in questo corso: la tartaruga, la saggezza di Mzee Kobe.

Ai missionari giovani consiglierei prima di tutto d’avere un forte senso di appartenenza. Loro hanno lasciato le loro famiglie ma non le hanno abbandonate: continuano ad amarle come prima. Pero adesso hanno una nuova famiglia: la famiglia dei missionari della Consolata, la nostra congregazione, il nostro istituto. È qui che ci dobbiamo donare tutto, “hali na mali”:  cuore e anima. 

I giovani devono rendersi conto che se siamo fragili se non abbiamo la fede salda, la missione sarà dura. Quindi fede in Gesù che ci chiama e ci invia, prima veri cristiani e poi missionari. 

* P. Thomas Mushi è Missionario della Consolata, Studente di Diritto Canonico a Roma, e ha intervistato il P. Daniel Ruiz presente al corso dei missionari con 50 anni di ordinazione.

Custode non proprietario!

Riflessioni sui 18 gli anni di servizio come Superiore Generale (SECONDA PARTE)

In questi anni non ho mai voluto essere proprietario della missione o il classico superiore che domina. Invece ho voluto essere il custode di un vocazione che ci accomuna, di un carisma che ci fa fratelli, di una missione che ci spinge a sognare le stesse cose. C'è uno slogan che ho attaccato alla mia scrivania ed è li da anni: un aforisma di Bertolt Brecht e dice “ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”; solo chi non trova un comodo posto a sedere è capace di fare la rivoluzione.

La responsabilità 

Un'altra frase che mi ha accompagnato in questi anni l’avevo trovata in un libro di meditazioni. Diceva qualcosa di simile: "se per caso dalla vita dei missionari sparisse la parola amore oggi dobbiamo rimpiazzarla con responsabilità. Il nuovo nome dell'amore è la responsabilità. 

Su questo punto dobbiamo battere molto: molti problemi che abbiamo sono legati spesso a una mancanza di responsabilità e su questo mi è sembrato importante chiamare l’attenzione di tutti i missionari. Essere responsabili significa prendersi a cuore le cose che facciamo; rispondere delle comunità o degli impegni che sono stati a noi affidati. Non si tratta di far sentire uno colpevole o innocente ma di richiamare ciascuno alla propria responsabilità: non possiamo rinunciare a questo se vogliamo vivere la nostra vocazione da adulti e non da bambini.

Non fare ma essere missionari

Un altro aspetto importante è quello di spostare la nostra consacrazione dal fare all’essere. La nostra vita è sempre stata molto attiva ma non possiamo lasciarla agganciata al fare. In questi giorni, con il corso per i missionari anziani, uno psicologo diceva precisamente questo: il problema dell'età avanzata diventa tale se ci siamo agganciati troppo al fare e poco all'essere. Quando le forze non ci sono più allora i missionari entrano in crisi se sotto non c'è un essere consistente. Se invece è importante l'essere, anche se sei anziano, potrai sempre trasmettere qualcosa.

Le situazioni che mi hanno segnato

Ce ne sono davvero tante, provo a riassumerle citando tre esperienze che mi hanno marcato nella relazione con missionari, tre con le comunità e tre con l’Istituto in generale

1. Relazioni con i missionari

Una esperienza davvero forte fatta abbastanza recentemente è quella con l'ex padre Giuliano. Lui già un bel po’ di anni fa, in Venezuela, ha lasciato l'Istituto e messo su famiglia. Io tutte le volte che andavo in Venezuela lo cercavo. Poi proprio nel periodo più brutto di questo paese, con la crisi che si era aperta dopo la morte di Chávez, quando era diventato perfino difficile mettere qualcosa sotto i denti, mi arriva la notizia che Giuliano si era ammalato di un cancro all'esofago. In Venezuela, in quelle condizioni, era davvero destinato a morire. Mi è sembrato che non potevamo far finta di niente, lui era stato uno di noi, e allora l'ho fatto arrivare ad Alpignano dove è rimasto fino alla morte. Mi ha lasciato scritto delle cose molto belle, ha fatto veramente una esperienza mistica ad Alpignano. Poi abbiamo fatto venire anche le figlie quando era quasi alla fine; il cancro gli impediva di parlare ma scriveva ancora su un foglio. Alla fine è morto degnamente ed è stata per lui e anche per noi una esperienza di grande consolazione. Un caso analogo è stato quello del padre Giorgio, anche lui uscito tanti anni fa. Si era ridotto a vivere, cieco, in un appartamento da solo e così anche lui l'abbiamo portato ad Alpignano. 

Poi stiamo accompagnando un padre che ha abbandonato l’Istituto con 72 anni, dopo una esperienza che non era mai stata affrontata per più di venti o trent'anni e che faceva star male sia il padre che la comunità. Adesso sta bene, è contento, ma con settanta due anni e non lo possiamo lasciare solo e quindi anche lui dobbiamo accompagnare.

È parte della vita e del servizio che mi è stato affidato dalla comunità: stare vicini a missionari che vivono esperienza forti. Per ultimo il caso del padre Rocco che a Milano che stava lentamente morendo di cancro, in età ancora abbastanza giovane e che, fino a poco prima, era ancora nel pieno delle sue attività. Che difficile trovare le parole giuste per dire a un confratello con il quale hai convissuto e fatto un cammino assieme “guarda, umanamente parlando la situazione che stai vivendo ha una sola uscita e quella è la morte, la medicina non può fare più niente per te”. Quando riesci a trovare le parole giuste allora senti il suo ringraziamento e quello della sua famiglia. Ho scritto loro quattro righe e queste sono state pubblicate nell’immagine ricordo che è stata distribuita in paese in occasione del suo funerale. È stata anche quella una esperienza di profondo dolore e di profonda consolazione.

2. Relazioni con le comunità

Nelle comunità la consolazione è essenzialmente presenza, stare con, condividere e sporcarsi le mani con le situazioni che vivono i confratelli. Non finirò mai di ringraziare il Padre Eterno per tutta la esperienza che ho avuto modo di accumulare in questi anni spesi accompagnando i confratelli. È stato un dono e una bellezza incredibile.

Potrei ricordare il caso di Dianrá, quando la guerra civile della Costa d’Avorio stava volgendo al termine ma il paese continuava ad essere diviso e i nostri missionari del nord da mesi non vedevano nessuno. Sono arrivato in Costa d'Avorio con il primo viaggio organizzato dall'estero e devo essere stato il primo bianco ad attraversare quella frontiera interna che la guerra aveva marcato. È stata una vera avventura fatta spesso con mezzi di fortuna e spostandosi come si sposta la gente. Quando arrivai là che festa è stato quell’incontro e anche che mal di pancia... mi hanno dato da mangiare una specie di topo e ho vomitato l’anima, pensavo di morire.

Un’altra esperienza di vicinanza a missionari particolarmente provati è stata quella del Venezuela, ho accompagnato i confratelli durante una delle molteplici crisi che ha attraversato il paese, quando in strada c’era un sacco di gente arrabbiata e non si sapeva nemmeno bene che intenzioni avessero.

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Altro ricordo: la missione di Luacano, in Angola. Una missione remota dove non c’era mai stata presenza missionaria prima di noi. Per arrivarci bisognava volare due ore dalla capitale fino a una città dalla quale partiva una ferrovia che portava, dopo otto ore di viaggio e attraversando zone paludose, fino a Luacano. Il treno era l’unico mezzo di trasporto, non c’erano strade per motivo della topografia della regione e sul treno viaggiava proprio di tutto. Se non compravi il biglietto con abbastanza anticipo non trovavi nemmeno un buco per metterti.

Un’ultimo ricordo, il viaggio da Toribío a Cali, con mezzi pubblici, per accompagnare un poco il padre Tarcisio Mayoral che era rimasto solo nella parrocchia del Santo Evangelio.

Un segno dell’attenzione comunitaria rivolta alle persone e alla comunità è stata la grandissima corrispondenza. Quanto non ho dovuto scrivere in questi anni! Forse il Superiore Generale che verrà dopo di me sarà una persona che utilizzerà altri modi di comunicazione, magari più audiovisuali, ma nel caso mio i messaggi scritti sono stati davvero tanti. Oltre alla corrispondenza personale –tante cose moriranno con me– le lettere ai missionari in occasione della professione perpetua e il diaconato e in occasione di eventi giubilari (anniversari di ordinazione e professione). Poi per la comunità i messaggi in occasione dell’anniversario della fondazione, la festa del Fondatore, la Pasqua, la festa della Consolata, la commemorazione dei defunti e il Natale. Le lettere alle distinte circoscrizioni alla fine delle visite canoniche o in circostanze particolari. Se dovessi raccogliere tutto, magari sarebbe bene farlo, ci sarebbe davvero un buon materiale per la riflessione e anche abbastanza voluminoso.

Tutto questo io l'ho vissuto e sperimentato come un gesto di consolazione.

Lo stesso profilo Facebook l'ho aperto e mi è servito per conservare contatti con tante persone, spesso giovani o ex giovani, che in questi anni ho accompagnato, incontrato, sentito, ascoltato in tanti modi e nelle più distinte comunità e luoghi geografici. Si ricordano, si creano agganci, ci si scambia saluti... cercare di rispondere a tutti questi  messaggi, soprattutto in occasione delle feste, diventa quasi una impresa ciclopica ma è anche parte di un servizio bello prestato alle persone. 

3. La relazione con tutto l’Istituto

In questi anni è stato grande lo sforzo di organizzare meglio questo Istituto. Probabilmente non ci sono riuscito come avrei voluto e arriviamo a questo capitolo con molte delle domande che ci accompagnano quasi da decenni. Questa fatica io la vedo abbastanza legata alla identità del nostro Istituto, siamo molto più dediti al fare che al pensare ma questo ci ha impoverito moltissimo. Non sempre siamo disposti a metterci in gioco per pensarci, pensare diversamente il nostro futuro e costruire l’Istituto che lasceremo in eredità a quanti verranno dopo di noi. D'altra parte spesso ci avviciniamo a situazioni nuove con una mentalità un po' vecchia e questo certamente non aiuta.

È quello che è successo con il tema della Continentalità: come spirito abbiamo fatto molti passi in avanti, ma come organizzazione con certa consistenza giuridica ed organizzativa non siamo stati capaci di arrivare fin dove avremmo voluto. Tanti missionari si sono impegnati in tutto questo ma non so fino a che punto ci abbiamo creduto davvero. 

 

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