Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12
Nella festa della manifestazione del Signore o Epifania la prima lettura mette al centro la città di Gerusalemme che diventa un punto di speranza fondamentale, poiché luce e luogo della rivelazione della gloria del Signore, non solo del popolo d’Israele, ma di tutti i popoli della terra che andranno verso di essa e da essa riceveranno la luce. Infatti, “tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore”.
Nel Vangelo, invece, è Gesù la luce e il luogo della rivelazione della gloria del Signore. Alcuni Magi, in rappresentanza dei popoli pagani, giungono da oriente, verso Gesù che è la luce e la gloria, come aveva già detto Simeone: “i miei occhi han visto la tua salvezza che hai preparato davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Lc 2,29-32).
Così come Gerusalemme è chiamata ad alzarsi, rivestirsi di luce, alzare gli occhi per guardare, così anche noi - i discepoli di Gesù - siamo invitati ad alzarci, rivestirci di luce, alzare gli occhi intorno e guardare poiché siamo noi “luce del mondo” (Mt 5,14) Gesù dirà infatti ai suoi discepoli, i credenti: "Voi siete la luce del mondo" e quindi "Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre nei cieli" (Mt 5,16), la nostra luce deve dunque risplendere davanti agli uomini perché vedano le nostre opere buone e glorifichino il Padre.
“Tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore”
Il tema della luce, nel brano odierno di Isaia, è fondamentale e attraversa tutta la narrazione. Gerusalemme è chiamata ad alzarsi per rivestirsi di luce, la vera luce che arriva dal Signore. Tale Luce risplenderà sopra Gerusalemme, brillerà sopra di essa. La città sarà radiante e potrà finalmente attrarre i popoli lontani che cammineranno verso la luce della città. Una città radiante e attraente, mentre il mondo sarà ricoperto dalle tenebre, la città risplenderà di luce ed essa stessa diventerà luce per le nazioni e centro di attrazione di tutti i popoli, poiché Dio vi è presente.
È ben chiaro che gli abitanti di Gerusalemme sono chiamati ad alzarsi ed aprirsi alla luce, per poterla accogliere, l’autore afferma di lasciarsi “rivestire di luce”. Nella tradizione biblica l’abito è simbolo dell’identità. Sono chiamati ad essere luce ad identificarsi con la luce, solo così potranno avvolgere di luce le città che sono immerse nelle tenebre. Inoltre, Gerusalemme ed i suoi abitanti sono chiamati ad alzare lo sguardo: “alza gli occhi intorno e guarda”. Gerusalemme abituata ad essere ripiegata su se stessa e anche chiusa nella sua dimensione, è chiamata ad alzare gli occhi e guardare il popolo che vive in lei. Un popolo che vive nelle tenebre e nell’oscurità, il quale alzando gli occhi, volgendo verso l’alto lo sguardo potrà rendersi conto della sua missione e vocazione: essere luce che illumina l’umanità intera: un piccolo popolo che diventa faro di luce in grado di attrarre l’umanità intera.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù viene presentato come luce e luogo della rivelazione della gloria del Signore, è la realizzazione della profezia di Isaia: “E tu, Betlemme, … da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele». I Magi rappresentano il mondo pagano, il mondo che vive nelle tenebre e nell’oscurità e che va all’incontro della luce. Si lasciano trascinare dalla luce che è Gesù: “nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” (Mt 2,1-2). I Magi hanno visto “sorgere la stella”, l’hanno collegata alla nascita di Cristo e si sono messi in cammino verso Gerusalemme, radiante di luce, una città verso cui convergono in pellegrinaggio tutti i popoli secondo il profeta Isaia. “Gesù diventa radianti di luce per i pastori prima, per i magi e per tutti noi”. I Magi si alzano e si mettono in cammino attratti dalla luce, anche noi dobbiamo camminare rischiararti dalla luce della stella che è il Vangelo: “La tua parola è luce sul mio cammino”, come dice il salmista.
Dopo una lettura della mia bozza, una carissima amica mi fa notare che “sappiamo che la luce si propaga anche nel vuoto…, e che è un’onda elettromagnetica che interagisce con la materia. Gesù che è luce raggiunge anche il vuoto, porta movimento e per sua natura interagisce. Infatti, chi ne è toccato non è più quello di prima…. Ecco perché i Magi prendono una nuova strada”
Il discepolo missionario, si lascia trascinare e muovere dalla luce come i Re Magi, come ha ben sottolineato Papa Francesco: “una luce che li muove alla ricerca della grande Luce di Cristo. È la santa furbizia, quella degli stessi Magi, che ci guida nel cammino della fede, che non ci fa cadere nelle insidie delle tenebre e che ci insegna come difenderci dall’oscurità che cerca di avvolgere la nostra vita. In questo tempo è tanto importante questo: custodire la fede. Bisogna andare oltre, oltre il buio, oltre il fascino delle Sirene, oltre la mondanità, oltre tante modernità che oggi ci sono, andare verso Betlemme, là dove, nella semplicità di una casa di periferia, tra una mamma e un papà pieni d’amore e di fede, risplende il Sole sorto dall’alto, il Re dell’universo.”
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
Nel vangelo Marco ci presenta Gesù come un vero pastore il cui sguardo verso i discepoli e la folla è uno sguardo d’amore e di compassione: al vedere i discepoli che raccontano il risultato della loro missione intravede non solo la gioia ma anche e soprattutto la stanchezza e nel vedere la folla, intravede lo smarrimento delle pecore senza pastore, pertanto il vero pastore invita da un lato i discepoli ad andare con lui “in disparte per riposarsi” e dall’altro comincia ad insegnare alla folla.
Dopo l’invio missionario dei discepoli, Marco informa i suoi lettori “essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”. Ora Marco presenta gli inviati alla missione, che appena rientrati, si sono riuniti attorno al maestro. Sia prima della partenza, sia subito dopo, i discepoli “stanno con Gesù”, stanno attorno al maestro.
Come si è già sottolineato, lo stare con Gesù è una delle caratteristiche fondamentali del discepolato la cui missione scaturisce da quello “stare con Gesù”. Essi si trovano con Gesù per narrare prima e anzitutto ciò che hanno fatto e poi ciò che hanno insegnato. È interessante che Marco presenti, in primo luogo, ciò che i discepoli “hanno fatto” e non ciò che hanno insegnato perché Gesù è l’unico maestro per eccellenza ed è lui che insegna.
Mentre essi raccontano, Gesù sa leggere con comprensione la loro stanchezza e bisogno di riposo: “venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. La reazione di Gesù al racconto è la chiamata oppure l’invito ad allontanarsi dalla folla, dalla confusione ed andare “in disparte”. Gesù non dice “andate”, non li invia, ma usa lo stesso verbo della chiamata: “venite”. Mentre per la chiamata Egli disse “venite dietro a me” adesso dice “venite in disparte” … in ambedue le realtà Gesù è al centro per essere seguito, questa volta deve essere seguito, affinché siano da soli per riposare. I discepoli sono invitati ad andare in disparte per riposarsi in Gesù.
La frase “Riposatevi un poco” è una frase divina che ci fa uscire dall’affanno e ci fa entrare nel riposo messianico, nello shalom, nella pace, nella tranquillità; il sabato è per gli ebrei il giorno del riposo, il giorno della libertà: nessuno deve essere schiavo, neppure del proprio lavoro, neppure del lavoro missionario.
All’inizio di questa difficile estate facciamo tesoro degli insegnamenti di Gesù “riposatevi un poco”:
Riposarsi in Cristo: lo stesso imperativo Gesù lo aveva usato per invitare tutti quelli che erano stanchi a riposarsi in Lui: “venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28-29). Gesù chiama a seguirlo persone semplici e gravate da una vita difficile, che hanno tanti bisogni e promette loro che in Lui troveranno riposo dalle fatiche, la liberazione dalle oppressioni di qualunque tipo. È al fianco di Gesù, ascoltandolo, dialogando con lui, godendo della sua intimità, che i discepoli ritroveranno le forze. Se i discepoli non confrontano frequentemente i loro piani e progetti pastorali con Gesù e la Sua Parola, la missione sarà un fallimento.
Riposarsi dall’attivismo: quello di Gesù è una forma d’invito alla tranquillità e al riposo: è il momento di fermarsi, Egli riconosce la stanchezza. Gesù ha il coraggio di “appartarsi dalle tante faccende e preoccupazioni quotidiane, per gustare interiormente quella comunione con Gesù, nella quale possiamo trovare il senso e i criteri del nostro agire”. Tutto per essere in pace e nella calma con Gesù.
Riposarsi per andare verso se stessi: se i discepoli erano stati invitati ad andare verso gli altri, per potere uscire da sé verso gli altri, quella che Papa Francesco chiama una Chiesa in uscita, dall’altra Gesù riconosce un altro movimento contrario al precedente, quello di rientrare nell’io, nel raccogliersi. Ed ecco perché si rifugiarono in un luogo deserto per esprimere ciò che veramente se stessi, ciò che si è e non solo ciò che si fa.
Riposarsi pregando: mentre Gesù li invita ad un luogo solitario, l’evangelista precisa che si trattava di un deserto e anche lì “in disparte”. Per Gesù, le sue giornate si concludevano con un luogo dove trovare tempo per riposare e pregare nel deserto. Egli sentiva il bisogno di pregare, tramite un dialogo interiore con il Padre, Egli avvertiva la necessità di un momento di spiritualità. Ed ecco che invita i discepoli a fare lo stesso.
La folla sente anche la forza e la profondità del comando di Gesù: “venite in disparte – riposate”; la folla avendo notato l’assenza di Gesù precede Lui e i discepoli. Il riposo e la preghiera non sono esclusivamente per i discepoli. Infatti, l’evangelista afferma che “Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero”. Sono come le pecore senza il pastore, Gesù si commuove e inizia ad insegnare loro.
Il discepolo missionario ha bisogno di un retroterra di riflessione, di contemplazione e di preghiera; un momento di raccoglimento intorno a Gesù, per dialogare con Lui, ascoltare i Suoi insegnamenti, confrontarsi costantemente con la Sua proposta.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.
Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
La narrazione evangelica ci presenta due miracoli incastrati l’uno nell’altro a forma di “sandwich”: il racconto della resurrezione della figlia di Giairo viene intenzionalmente interrotto dalla narrazione della guarigione della donna emorroissa che, viene pienamente narrata e conclusa prima che la resurrezione della figlia di Giairo, sia ripresa e conclusa.
La frase di Gesù “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male” è cerniera tra un racconto e l’altro: ne conclude uno ed è fondamentale per quello che segue.
Quella che Gesù chiama “figlia” è una donna colpita da emorragia interna continua da ormai dodici anni, ella perde il sangue, la vita e di conseguenza si tratta di una lenta agonia, della perdita inarrestabile ed irreversibile della vita stessa. Sia la malattia, sia gli anni rivelano la precarietà e debolezza radicata nel tempo della donna che, secondo la legge, era una donna impura che non era possibile toccare, né toccare ciò che lei toccava. Non solo era una donna legalmente e socialmente isolata ed emarginata, ma addirittura, povera poiché aveva speso “tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi era andata piuttosto peggiorando”. Isolata dalle sue relazioni e dai suoi averi mentre la vita veniva meno.
L’Evangelista, però, sottolinea che è una donna di fede, anzi di grande fede, ha sentito parlare di Gesù e lo considera la sua ultima speranza. Oltrepassa tutte le barriere culturali, sociali e religiose solo per toccarlo: irrompe tra la folla massiccia di uomini e si avvicina a Gesù per raggiungerlo da dietro, in incognito e discretamente, per un solo e significativo gesto che neppure le sarebbe stato permesso: toccare. In alcuni miracoli è Gesù che tocca per guarire, ma qui succede il contrario. Si tratta di un toccare indiretto: non toccare Gesù, ma toccare solo il mantello perché la povera donna pensa: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Si tratta di incontrare Gesù e toccarlo con fede.
È un toccare che è reciproco, come ha ben detto Delorme: “quel del toccare si distingue per la particolarità di essere reciproco. Quando tocco sono anche toccato da ciò che tocco”. La donna, nel toccare Gesù si è anche lasciata toccare da lui, non è dunque un semplice e superficiale toccare. Infatti, i discepoli si chiedono “tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?”. Per Gesù era un toccare particolare, precisamente quello della fede, che fa sprigionare la potenza di Cristo e che salva; non è un toccare della folla che semplicemente opprime, ma un toccare accompagnato da una grande fede.
Da questo “toccare” nasce il vero incontro tra Gesù e la donna. Quando Gesù fissa lo sguardo su di lei e quando lei, che si era precedentemente tirata indietro, avanza, si inginocchia per digli “tutta la verità”. Lei che era stata guarita, ora, dopo questo incontro vero con Cristo, viene dichiarata salva per la fede. Lei che era stata svuotata dei suoi averi, che non aveva mai ottenuto la guarigione, anzi peggiorava, ha teso la sua mano vuota, senza soldi e riceve gratuitamente non solo la guarigione ma anche e soprattutto la salvezza e da qui che deve riiniziare la sua nuova vita con la pace: “va in pace” che implica, per la sua origine semitica, prosperità e salute.
Giairo, aveva appena sentito dire da Gesù della donna emorroissa che la sua fede l’aveva salvata, quando vennero degli emissari da casa sua, non solo portandogli la triste e irreparabile notizia della morte della figlia ma anche con il tentativo di scoraggiarlo: non vale più la pena d’ importunare il maestro poiché la figlia è morta, non c’è più alcuna possibilità. L’evangelista ci fa notare che la fanciulla aveva l’età di 12 anni, età in cui avrebbe dovuto prepararsi a diventare una donna.
Mentre per gli emissari tutto era finito, non c’era niente da sperare e nemmeno da fare davanti alla morte, per Gesù, invece, c’è speranza perciò chiede a Giairo di non avere paura e di continuare a credere. Davanti alla notizia della morte della figlia, Gesù rassicura il padre angosciato e chiede che mantenga ancora e solo la fede e non si lasci disturbare dalla notizia e dei messaggi di disperazione. L’evangelista non usa il verbo indicando un atto di fede puntuale e momentaneo, ma, invece, usa il tempo corrispondente a un imperativo continuativo, cioè, continua ad avere fede , dunque un “atteggiamento prolungato e abituale”: l’unica cosa che devi fare è continuare a credere.
Infatti, Giairo credeva che bastasse solo imporre le mani sulla sua figlia ed essa avrebbe riacquistato la salute e la vita. “La mia figlioletta sta morendo”, aveva detto e, di seguito, aveva chiesto, “vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Dunque deve continuare a credere. Anche alla bambina Gesù ha dato la vita toccandola: “Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: alzati”.
Il discepolo missionario, come la donna emorroissa, crede nonostante le barriere storico-sociali e religiose del nostro tempo e continua a credere, come Giairo, anche dove sembra non esserci più speranza perché a Dio nulla è impossibile. Basta incontrare e lasciarsi incontrare da Gesù.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.
Gb 38, 1. 8-11; Sal 106; 2 Cor 5, 14-17; Mc 4, 35-41
L’esperienza dolorosa della sofferenza alquanto assurda e ingiustificata di Giobbe, gli fa porre alcune domande esistenziale a Dio: “dove sei durante il periodo dei drammi della mia esistenza? Perché mi hai messo al mondo per poi lasciarmi nella sofferenza e preda dei miei nemici? Perché il tuo silenzio e assenza durante il mio percorso nel mare della vita?”
Anche i discepoli, nel Vangelo, davanti alla grande tempesta del vento, chiedono a Gesù: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?”. Sia Giobbe, sia i discepoli sono però invitati a “passare all’altra riva del mare” per assaporare la grandezza e l’onnipotenza di Dio e del suo figlio.
Il potere divino sul mare e sulla tempesta che da esso proviene accomuna la prima Lettura e il Vangelo di questa domenica. La prima lettura ci presenta la risposta di Dio agli interrogativi di Giobbe sull’assenza e il silenzio di Dio. Dio parla direttamente a Giobbe, ponendogli una serie di domande. Giobbe si aspettava delle risposte alle sue domande ecco inaspettatamente il Signore gli dice: “Ti farò delle domande e tu insegnami” (Gb 38:3).
Dopo aver posto delle domande sulla persona di Giobbe, ad esempio: “chi sei tu? Dove eri e che cosa sai tu?” ora gli pone una domanda sulla sua onnipotenza nei confronti delle forze della natura: “chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno. Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo un chiavistello e porte e ho detto: ‘fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde’”.
Mentre le domande di Giobbe erano sul “perché”, quelle di Dio sono sul “chi”. Davanti a queste domande Giobbe non è in grado di rispondere e ammette: “Io sono troppo meschino, che ti potrei rispondere. Io mi metto una mano sulla bocca … Io riconosco che tu puoi tutto e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno. Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno? Sì, ne ho parlato ma non lo capivo, sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco. Ti prego, ascoltami, e io parlerò ti farò delle domande e tu insegnami! Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto” (Gb 40:4; 42:2-4).
Solo Dio, con il suo potere e la sua maestà, poteva porre limiti al mare, dargli ordini e liberare gli uomini da queste forze incontrollate, dal caos che il mare racchiudeva. Giobbe è passato all’altra riva dove scopre la sua nudità, i suoi limiti, la sua piccolezza e allo stesso tempo, riconosce la grandezza e l’onnipotenza di Dio. Se tale è il caso, bisogna affidarsi a Lui. Giobbe è passato dal luogo “dove era sicuro di sé”, dov’era conosciuto, dove si considerava uomo giusto ed arriva ad una terra sconosciuta dove necessariamente deve appoggiarsi a Dio. Giobbe è stato invitato a percorrere il nuovo cammino della sua vita: un cammino di fede che parte dell’umiltà.
I discepoli sono stati non solo osservatori, ma partecipi dell’attività missionaria del Maestro. Seguivano il Maestro. Dopo una giornata, dove Gesù ha illustrato alle folle lungo il mare il mistero del Regno di Dio in parabole, li invita a passare all’altra riva, alla zona della Decapoli, territorio pagano, considerato dagli ebrei completamente al di fuori delle vie della salvezza; Gesù vuole passare dalla terra santa di Israele, per andare verso una terra abitata dai pagani.
Qualcuno che ha letto la bozza mi ha detto, in riferimento all’invito di Gesù: “mi colpisce questo passare all’altra riva che richiede un cambio di prospettiva… quello che poi vedi dall’altra parte è diverso da come lo vedi da questa riva… Gesù chiede ai discepoli di allargare l’orizzonte, di aprirsi ad altre terre, a nuovi incontri. A volte fare questo è proprio come attraversare una tempesta: scompiglia tutte le tue sicurezze, fai fatica ad incontrare l’altro”.
Notiamo, prima di tutto, l’ambiente in cui Marco ci colloca: in mare, al tramonto (versetto 35). Situare la barca con Gesù e i discepoli ‘in mare’, è collocarli in un ambiente ostile, avverso, pericoloso, caotico, circondati dalle forze che lottano contro Dio e contro la felicità umana. D'altra parte, la ‘notte’ è il tempo dell'oscurità, appare come un elemento legato alla paura, allo scoraggiamento, alla mancanza di prospettive. Il “mare” e la “notte” definiscono una realtà difficoltosa, irta di ostilità, d’ incomprensione. È in questa situazione che arriva la tempesta: grande tempesta di vento e le onde si rovesciano nella barca
I discepoli si trovano in mezzo a tale tempesta, mentre Gesù dorme. L’angoscia e la paura innanzi a quella realtà ha reso impossibile ogni speranza. Ecco la reazione dei discepoli: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?” come a dire “ma dove sei Signore? Perché ci lasci” Sono preoccupatissimi per ciò che entra nella barca, nella loro vita, da ciò che arriva come una tempesta. I discepoli si preoccupano più della forza dell’acqua che entra che della forza e la potenza di Gesù che è presente.
I discepoli Lo conoscevano come taumaturgo potentissimo, nessuna malattia resisteva ai suoi ordini, perciò, niente di male poteva loro succedere, ma la tempesta infuria contro la barca… e l’acqua comincia ad infiltrarsi pericolosamente e loro dubitano. Dubitarono perché hanno creduto piuttosto alla forza di ciò che entra che alla potenza della presenza del Maestro, il quale chiede loro "Perché avete paura? Non avete ancora fede?". Sembra che i discepoli conoscano Gesù e che abbiano fede invece no….
Volevano fare la traversata verso la zona pagana per evangelizzare senza la fede, ma Gesù fa fare loro questa esperienza per accrescere la fede: passiamo all’altra riva, attraversiamo per avere la fede, lasciamo qualcosa di certo per affrontare l'insicurezza della novità. “Passiamo all’altra riva”. Con la fede siamo capaci di passare ad altra riva.
Come afferma Papa Francesco, i discepoli missionari “devono decidersi a passare all’altra riva, scegliendo con coraggio di abbandonare le proprie sicurezze e di mettersi alla sequela del Signore. Questa avventura non è pacifica: arriva la notte, soffia il vento contrario, la barca è sballottata dalle onde, e la paura di non farcela e di non essere all’altezza della chiamata rischia di sovrastarli.”
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.
At 10,34a. 37- 43
Sal 117
Col 3, 1-4
Gv 20, 1-9
È la Domenica di Pasqua! E mi viene in mente il saluto dei cristiani greco-ortodossi. Christos Anesti (Χριστός Ανέστη) che significa “Cristo è risorto!” e la risposta è Alithos Anesti (Aληθώς ανέστη!) il cui significato è “Veramente è risorto”. Sì, è veramente risorto.
Dal Mercoledì delle Ceneri abbiamo percorso l’itinerario quaresimale, un cammino durato quaranta giorni, e poi vissuto intensamente la Settimana Santa che ci ha portato concretamente alla gioia della Pasqua, alla vittoria della vita sulla morte.
La liturgia di questa domenica è tutta incentrata sulla risurrezione di Gesù. Si proclama, infatti, la vittoria della Vita sulla morte, dell'Amore sull'odio, del Bene sul male, della Verità sulla menzogna, della Luce sulle tenebre. Ci assicura che la morte non può fermare chi ha accettato di fare della propria vita un dono d'amore. È dall'amore che nasce la Vita piena, la Vita in abbondanza, la Vita vera ed eterna.
Nella prima lettura (At 10,34a. 37- 43), Pietro “presenta” Gesù a Cornelio e alla sua famiglia. Si tratta di un “primo annuncio”, che elenca le coordinate fondamentali della vita e del cammino di Gesù. Pietro, a nome della comunità, presenta l'esempio di Cristo che «ha attraversato il mondo facendo il bene» e che, per amore, ha fatto della sua vita un dono totale a Dio e agli uomini. Dio, dunque, Lo ha risuscitato: la strada che Gesù ha percorso e proposto conduce alla Vita. I discepoli, testimoni di questo dinamismo, devono mostrare lo stesso “cammino” con la loro vita, a tutti gli uomini.
Siamo nel giorno di Pasqua, celebriamo la risurrezione di Gesù e cerchiamo di comprendere tutta la portata di questo Evento. Qual è il nostro ruolo in tutto questo? Aderiamo a Gesù e accogliamo la sua proposta liberatrice? Stiamo risuscitando con Lui? Tocca a noi essere testimoni, davanti a tutti gli uomini e le donne, di Gesù e della Vita nuova che da Lui abbiamo ricevuto. È proprio questa testimonianza che Pietro rende davanti a Cornelio e alla sua famiglia.
Per Paolo, nella seconda lettura (Col 3, 1-4), il punto di partenza e il fondamento della vita cristiana è l'unione con Cristo Risorto che si realizza attraverso il battesimo. Quando siamo battezzati e così uniti a Cristo, moriamo al peccato e risorgiamo con Cristo a Vita nuova, piena e vera. E questa nuova Vita avrà la sua piena realizzazione nel mondo di Dio, quando supereremo i confini della vita terrena ed entreremo nella gloria di Dio insieme al Risorto. Dal Battesimo in poi, Cristo diventa il centro e il riferimento fondamentale attorno al quale si costruisce l'intera vita di un cristiano. Che posto occupa Cristo nella nostra vita? Siamo consapevoli che in forza del nostro Battesimo siamo chiamati ad impegnarci con Cristo, identificandoci totalmente con Lui?
Il brano del Vangelo (Gv 20, 1-9) ci racconta che, nel primo giorno della settimana, “al mattino presto”, Maria Maddalena si reca al sepolcro di Gesù. Maria Maddalena rappresenta, nel Quarto Vangelo, la nuova comunità nata dall'azione creatrice e vivificante del Messia. Per Maria Maddalena “era ancora buio”: la comunità nata da Gesù era convinta, in quel momento, che la morte avesse trionfato e che Gesù fosse prigioniero del sepolcro. Era, quindi, una comunità smarrita, disorientata, insicura, impaurita, senza speranza!
Il racconto giovanneo inizia con un'indicazione apparentemente cronologica, ma che va intesa soprattutto in chiave teologica: “il primo giorno della settimana”. Vuol dire che qui comincia un nuovo ciclo, quello della nuova creazione, quello della liberazione definitiva. Questo è il “primo giorno” di un tempo nuovo e di una nuova realtà: il tempo dell’Uomo Nuovo, dell’Uomo nato dall’azione creatrice e vivificante di Gesù.
Maria Maddalena vede che la pietra che chiudeva il sepolcro, che significava la morte definitiva di Gesù, era stata rimossa. Perché questa pietra è stata rimossa? Inoltre, la tomba è vuota. Che cosa significa tutto questo? Maria constata questi fatti, ma non riesce a decifrarli. È disorientata e perplessa. È ancora nell'oscurità. La sua difficoltà nell'interpretare i segni rivela probabilmente la perplessità e lo sconcerto dei discepoli, nelle prime ore del mattino di Pasqua, davanti al sepolcro vuoto di Gesù.
Giovanni intende poi presentare una catechesi sul duplice atteggiamento dei discepoli di fronte al mistero della morte e risurrezione di Gesù. Questo duplice atteggiamento si esprime nel comportamento dei due discepoli che, la mattina di Pasqua, allertati da Maria Maddalena del fatto che il corpo di Gesù era scomparso, corsero al sepolcro: Simon Pietro e un “altro discepolo” non identificato.
La risurrezione ci apre prospettive del tutto nuove e ci garantisce il trionfo di Dio sulle forze di morte che vogliono distruggere l’umanità. Noi che crediamo e celebriamo la risurrezione di Gesù, sapremo essere testimoni della vittoria della Vita tra i nostri fratelli e sorelle succubi della paura e del pessimismo? Il messaggio che portiamo al mondo è un messaggio di gioia e di speranza che ha i colori della mattina di Pasqua?
Come ci ricordava con insistenza Papa Benedetto XVI, «l'annuncio della Pasqua si diffonde nel mondo con il canto gioioso dell'Alleluia». Cantiamolo si con le labbra, ma soprattutto è da “cantare” con il cuore e con la vita.
“Surrexit Christus spes mea”, Cristo, la mia speranza, è risorto. È Lui la nostra speranza, Lui è la vera pace del mondo. Amen!
Auguri di Buona Pasqua a tutti!
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.