Padre Stefano Camerlengo è superiore generale dei Missionari della Consolata da 12 anni e ha fatto parte della Direzione Generale da 18. In questi giorni si celebrerà il Capitolo Generale che, fra le altre cose, dovrebbe nominare il suo successore. Nelle prossime quattro settimane il sito ospiterà alcuni sui interventi nei quali ricorderà alcune tappe significative della sua storia e riflessioni sul suo lungo mandato. Parlando del futuro della comunità che ha accompagnato da anni ha sintetizzato il suo atteggiamento carico di speranza dicendo: “il meglio sta ancora per venite”.
In Repubblica democratica del Congo, o meglio in Zaire, come si chiamava allora, ho fatto la mia prima esperienza di missione, come diacono. Questo percorso è stato così positivo, e grande era il legame con la gente, che ho chiesto di essere ordinato sacerdote in mezzo a loro. La comunità nella quale avevo lavorato, mi aveva accettato come figlio: era la «mia nuova famiglia».
Dopo l’ordinazione, passai un periodo di missione in Italia, nell’animazione missionaria e nell’accoglienza dei migranti, per tornare poi finalmente in Congo.
Qui ho fatto diverse attività. Ho vissuto in foresta, condividendo la mia vocazione con la gente dei villaggi più sperduti. Ho prestato servizio nella formazione dei giovani missionari e, infine, sono stato responsabile del gruppo dei missionari che lavoravano a Kinshasa, la gigantesca e brulicante capitale.
L’esperienza in Congo è stata per me un grande dono di Dio. Ho vissuto momenti difficili per la situazione travagliata del paese. Ho sentito forte dentro di me il senso d’impotenza. La missione è anche questo: ti trovi a vivere situazioni nelle quali non hai potere su niente e devi condividere anche questa «inutilità». La missione è stata per me soprattutto «condivisione della debolezza». I pigmei dicono: «Lo scoiattolo è piccolo, però non è schiavo dell’elefante!». Questo per me è il Vangelo: la forza debole dei poveri.
Poi ci sono esperienze bellissime, autentiche gocce di speranza che ti permettono di andare avanti, anche quando il cammino si fa troppo complicato. Come durante la guerra in Congo, quando ho dovuto abbandonare la missione, scappare con altri abitanti del quartiere, perché ci hanno informato che stavano per bombardare la zona. È un esodo di tristezza, di abbandono, di pianto. Ho vissuto con la gente sulla strada per tre giorni, sfollati. Finiti i bombardamenti ero pronto a tornare a vedere cosa era successo alla missione. Mi alzai, e allora, come per incanto, anche la gente si mise in piedi e decide di rientrare con me. Il missionario come vero pastore che in nome di Gesù riunisce, indica il cammino, marcia con la sua gente, da forza. Una cordata di fraternità e speranza!
Queste esperienze di vita missionaria mi hanno marcato profondamente e me le porto dentro ancora oggi, in tutti i servizi che sono chiamato a svolgere. In particolare, posso riassumere tre idee-forza che non mi abbandonano mai.
1. Dobbiamo essere «degni» della missione, non dobbiamo aspettarci il ringraziamento della gente per la nostra presenza. Siamo noi che dobbiamo ringraziare perché ci accettano tra loro.
2. Nella missione è sempre di più quello che ricevi rispetto a quello che riesci a dare. Alla fine, ti trovi a essere sempre in debito, sia con la gente che con Dio Padre.
3. Se vuoi vivere e condividere la tua vita con gli ultimi e i poveri, devi accettarli per quello che sono e non come tu li vorresti; questo è l’inizio di ogni servizio e di ogni cambiamento.
Durante la prima guerra del Congo, novembre 1996 – maggio 1997, ero vice superiore regionale e direttore del nostro seminario filosofico a Kinshasa. Tenevo i contatti tra la Direzione generale a Roma e cercavo notizie sui nostri confratelli nell’Est del paese, dove i ribelli tutsi Banyamulenge, appoggiati da rwandesi e ugandesi, combattevano le truppe di Mobutu. Questi fu poi rovesciato da questi eserciti arrivati a Kinshasa nel maggio del 1997.
Le telefonate con Roma avevano tenori del tipo: «Le comunicazioni con i nostri missionari dell’Alto Zaire (Isiro, Doruma e Wamba) sono interrotte. I militari zairesi (l’esercito regolare di Mobutu), fuggendo dai ribelli Banyamulenge, saccheggiano quello che trovano sul loro passaggio. A Isiro per ora hanno confiscato le macchine, con la scusa di mantenere l’ordine nella zona.
È arrivato a Kinshasa il penultimo volo da Isiro con 180 persone a bordo. Con loro c’è anche il nostro fratel Angelo Bruno. Gli è stato consigliato di ritirarsi perché era continuamente sotto pressione. Essendo meccanico, infatti, i militari zairesi ricorrevano notte e giorno a lui per farsi aggiustare i mezzi. Era andato per qualche giorno nella missione di Neisu e ora si trova a Kinshasa, in attesa di rientrare in Italia. Il vescovo di Isiro, e i missionari, si sono organizzati per nascondersi nella foresta. Hanno identificato alcuni posti e vi stanno portando tutto ciò possa servire per la sopravvivenza.
A Kinshasa si è costituto un Consiglio dei religiosi, per valutare di giorno in giorno la situazione e prendere eventuali provvedimenti. Inoltre, io sono in permanente contatto con il Nunzio e con le autorità ecclesiali».
O ancora: « Le comunicazioni via radio con Neisu e Wamba sono interrotte. Le informazioni che si ricevono sono incerte, tuttavia siamo sicuri che la città di Isiro è stata saccheggiata dai militari di Mobutu. Tutte le case dei religiosi sono state depredate, inclusa la nostra casa regionale e il vescovado».
In quei frenetici giorni di dicembre 1996 e gennaio 1997, la guerra imperversava ad Est e temevamo per la sorte dei confratelli. Altri miei resoconti di quei giorni: «Dal 29 dicembre mi sono potuto mettere in comunicazione via radio con i nostri confratelli di Neisu. Hanno confermato il saccheggio della missione perpetrato durante la notte del 25 dicembre. Silvio Gullino e Rombaut Ngaba sono riusciti a scappare in foresta, dove si erano rifugiati gli altri dei nostri e le suore di Brentana.
Le comunicazioni con Wamba sono invece più difficili. I Comboniani di Kisangani fanno il ponte radio tra Kinshasa e Wamba. Sappiamo così che in nostri missionari sono rifugiati in foresta».
La Direzione generale era molto preoccupata anche per la situazione di Kinshasa, dove i ribelli sarebbero poi arrivati. In capitale eravamo in sette missionari e quindici seminaristi del seminario teologico, molti dei quali non zairesi. Io restavo in stretto contatto con le ambasciate per un eventuale piano di abbandono del paese.
I ribelli, appoggiati dagli eserciti rwandese e ugandese, arrivarono a Kinshasa a maggio. Deposero Mobutu, che aveva governato il paese per 27 anni. Al suo posto insediarono Laurent-Désiré Kabila, già guerrigliero in lotta contro il regime da molto tempo. Gli serviva avere un congolese come capo di stato, per nascondere l’occupazione straniera.
Kabila però cercò rapidamente di sbarazzarsi degli alleati stranieri, troppo scomodi, perché interessati alle enormi risorse minerarie del paese. Di qui il tentativo di colpo di stato e il tragico bagno di sangue del 2 agosto 1998.
Iniziò così la Seconda guerra del Congo (1998-2003), detta anche «Guerra mondiale africana», a causa del numero di eserciti e milizie coinvolte.
In quel periodo mi trovai a gestire situazioni che non avrei mai immaginato.
Ciò che mi spaventava in quei momenti era la rabbia della gente. La guerra trasforma le persone facendo emergere la loro parte peggiore. In quei giorni, se prendevano un ribelle (miliziano o soldato straniero, ugandese o rwandese), non c’era possibilità di salvezza per lui, lo bruciavano vivo: un copertone intorno al collo, un po’ di benzina e un fiammifero.
In queste situazioni di psicosi collettiva, dove si giunge addirittura a misurare il naso della gente per decidere se è un ribelle ugandese oppure no, si perde il senso dell’umanità, e non c’è più niente che possa trattenere dall’assassinare il conoscente, il vicino, l’amico, anche per un minimo sospetto.
Nell’agosto del 1998 i ribelli erano arrivati in città per conquistarla. Noi siamo rimasti per quasi una settimana alla mercé di tremila soldati nemici, che avevano invaso la nostra collina (sulla quale si trovava il seminario e altre case di congregazioni). I militari regolari di Laurent-Désiré Kabila, visto il numero degli invasori, erano fuggiti a fondovalle, e laggiù avevano organizzato la difesa della città. Hanno continuato a sparare per tre giorni senza sosta e noi eravamo tutti chiusi in casa.
Gli ugandesi avevano bisogno di mangiare e qualcuno era ferito, così hanno iniziato a visitare i conventi e le fattorie. Sono venuti anche da noi, ci hanno detto di stare tranquilli, che ce l’avevano solo con Kabila. Parlavano swahili e anche io me cavo con questa lingua: grazie a Dio, altrimenti sarei morto!
La gente del quartiere era terrorizzata e nessuno sapeva cosa fare, allora abbiamo cominciato ad accoglierla, per rimanere un po’ uniti. C’erano sbandati e molti bambini soli perché i papà erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati. Avevano fame, e abbiamo organizzato un’accoglienza e preparato del riso e altro cibo che rimaneva nelle scorte del seminario. Era poco quello che avevamo, e lo abbiamo condiviso con la gente.
Dopo tre giorni, è arrivata la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato la nostra zona, allora la gente ha cominciato a fuggire all’impazzata verso il fondovalle.
Il tutto è avvenuto in maniera precipitosa, senza avere la possibilità di pianificare niente. Ho preso uno zainetto con quattro documenti dentro e niente altro, né cibo, né biancheria e siamo andati con la gente. C’era una fiumana di persone che scendeva la collina, ciascuno si tirava dietro i bambini, una pentola, due stracci… altro che esodo!
Dovevamo attraversare i posti di blocco militari e ogni volta mi hanno minacciato e molestato più degli altri. Poi non so cosa sia successo, ma mi sono ritrovato in ginocchio sulla strada con un mitra puntato alla testa. Ce l’avevano coi i bianchi (i soldati regolari): «Voi preti avete aperto le chiese, avete accolto i ribelli ...». In effetti erano entrati anche nelle nostre chiese, ma quando ti trovi tremila soldati armati, cosa fai? A quel punto rimasi muto d’incredulità, di stordimento, di paura. E poi mi è entrata una grande pace. Non so quanto sono rimasto in quella posizione, un minuto o un’eternità. So solo che quando ho riaperto gli occhi non ho visto più nessuno e allora ho rincorso la gente e ho continuato il mio esodo, sentendomi… risorto!
Tre giorni dopo, era domenica, quando il bombardamento è cessato, c’è stato un momento molto toccante. La gente mi si avvicinava per dirmi: «Grazie padre, perché sei rimasto con noi» e tante altre parole di amicizia e solidarietà. E poi i confratelli che mi cercavano, insomma è stato bellissimo reincontrarci.
Lunedì mattina, ho preso il coraggio a due mani e ho deciso di tornare alla casa. Mi sono messo in cammino con i tre seminaristi e alcuni amici e, come per miracolo, la gente in massa si è accodata camminando dietro di noi. Più salivamo la collina e più la processione si ingrossava. Se il venerdì la nostra era stata una discesa drammatica, il lunedì è stato un rientro glorioso, pieno di speranza.
Non è facile oggi, nel mondo attuale, guidare un istituto internazionale come il nostro. Saper leggere il segno dei tempi a livello mondiale ed essere profetici per il futuro. Più che certezze, in effetti, mi porto dietro dei desideri.
1. Che tutto sia fatto in nome della missione, in altre parole, che si possa mettere la missione sempre e comunque al primo posto.
2. Che ogni decisione, anche se dolorosa, sia presa nel rispetto delle persone, sia dei missionari, sia della gente locale.
3. Che coloro che camminano con più fatica siano i nostri «preferiti».
4. Che si impari a essere più positivi che negativi, sempre e comunque portatori di speranza in mezzo a tanta disperazione.
Il ruolo del missionario oggi è cambiato, perché la società, la chiesa, il mondo sono cambiati e stanno vivendo un profondo processo di trasformazione.
Il missionario deve essere un «ponte» tra le culture e, soprattutto, tra chiesa e società in mutazione. Una società con la quale la nostra azione deve confrontarsi, che non deve essere vista come la «bestia» da combattere, ma come realtà da capire e luogo «dello spirito», dove Dio parla ancora a uomini e donne.
Un altro servizio che vedo per il missionario oggi è quello di richiamare l’attenzione sulla presenza, spesso volutamente dimenticata, di coloro che rimangono ai margini della società e, talvolta, anche della nostra chiesa. Il missionario deve mantenere viva l’attenzione all’altro.
Infine, un aspetto che mi sembra importante per il missionario moderno è il suo impegno a proporre cammini di speranza, lavorando in rete con tutti quelli che cercano di costruire un mondo migliore.
Grazie per la pazienza nel leggermi, grazie per il dono grande della missione e della gente. Mi auguro che con questo scritto possa aiutare a guardare all’altro come un fratello, una sorella, in cammino con me, con te sulle strade della vita!
A tutti e ad ognuno: coraggio e avanti in Domino!
Padre Stefano in occasione della inaugurazione del Polo Culturale Cultures and Mission di Torino. Foto Marco Bello
Benedetto colui che viene nel nome del Signore! (Gv 12,12-16)
È indescrivibile la gioia con cui è stato accolto il Sommo Pontefice papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo. Erano già passati diversi decenni dall’ultima volta che un papa aveva messo piede in questa nazione e l'ultimo era stato papa Giovanni Paolo II che questo paese l’aveva visitato nel 1985, quando si chiamava ancora Zaire. Per questo è più che comprensibile l’entusiasmo e l’aspettativa che ha circondato questa visita apostolica di papa Francesco della quale mi sembra opportuno sottolineare un prima, un durante e un poi.
PRIMA. Va ricordato che questo viaggio era inizialmente previsto per il 2-5 luglio 2022 ma poi, come conseguenza dei vari problemi di salute del Vescovo di Roma, non è stato possibile realizzarlo. L’annuncio del rinvio si è abbattuto sul paese dove tutti stavano aspettando il Santo padre come la prima pioggia dopo la siccità: questo momento si stava aspettando come un dono del cielo; per l’occasione erano anche state composte canzoni come “Congo mobimba toyambi yo” (Tutto il Congo ti dà il benvenuto); erano state create diverse commissioni per dare un'accoglienza senza precedenti al successore di Pietro. Quando finalmente il papa è arrivato la mobilitazione è stata totale, nessuno è rimasto inattivo, il paese era in fermento come il giorno dell'ingresso di Cristo a Gerusalemme.
DURANTE. Quando il Papa dei poveri è arrivato è venuto a consolare i cuori di chi per anni non ha smesso di piangere i morti, con la speranza di vedere un giorno la presenza di un buon samaritano disposto a curare le ferite di questa popolazione impoverita. Il suo messaggio, che suona come uno slogan, dice "siamo tutti riconciliati per mezzo di Gesù Cristo".
Francesco viene come Cristo con una parola di consolazione per tutti i congolesi senza fare nessuna distinzione. Anche il logo utilizzato in occasione della visita raccoglieva vari simboli: una mappa della Repubblica Democratica del Congo con i colori della bandiera nazionale il giallo, il rosso e il blu; il colore giallo indica le molteplici ricchezze che abbondano nel Paese e la natura esuberante; il rosso simboleggia il sangue versato dai suoi figli e dalle sue figlie e il blu il desiderio di pace. All'interno erano rappresentati elementi della biodiversità del Paese, una croce come segno di speranza, una palma e la presenza di esseri umani che simboleggiano la fratellanza.
Con questa insegna tutta la popolazione si è alzata come un solo uomo per accompagnare il successore di Pietro dall'aeroporto al palazzo della nazione e in quel luogo il papa Francesco ha tenuto il primo discorso alla presenza del Presidente della Repubblica, i membri del governo, il corpo diplomatico, le autorità politiche e militari e la società civile. In sostanza, il Santo Padre ha invitato tutti i congolesi a risollevarsi con coraggio e coloro che li sfruttano a smettere di farlo, perché la vera ricchezza del paese, i veri diamanti, sono le sue persone così ingiustamente castigate.
L’evento più affollato è stata la celebrazione eucaristica del primo febbraio nella quale hanno partecipato più di un milione di persone tra cattolici, protestanti e musulmani. Nell’omelia il Papa ha insistito sul perdono che deve essere il criterio per una vera riconciliazione, una riconciliazione che è poi stata invocata anche nell’incontro con le vittime delle atrocità che si sono registrate soprattutto nella parte orientale del paese.
Il 2 febbraio, Giornata mondiale della vita consacrata, il papa argentino ha voluto incontrare sacerdoti, religiosi e seminaristi: tutti sono stati invitati a non cedere alla mediocrità o alla superficialità; a cercare l’essenziale della consacrazione religiosa e quindi mettere Cristo al centro della vita per trasformarsi a sua immagine. In una cattedrale piena all’inverosimile i consacrati del Congo hanno rinnovato il loro impegno con la preghiera e la liturgia delle candele propria della festa della presentazione di Gesù al tempio.
L’incontro nello stadio dei Martiri, dedicato a giovani e catechisti, ha visto la partecipazione di più di ottanta mila persone. In questa occasione il Papa che ha esortato i giovani ad abbandonare la strada della corruzione. Per concludere l'ultimo incontro è stato dedicato ai vescovi della Conferenza Episcopale del Congo nel quale il vescovo di Roma ha invitato i pastori del Congo a imitare Cristo, il Buon Pastore che dà la vita, e a essere perseveranti nella testimonianza in ogni momento, anche quando le condizioni non possono essere più complicate.
DOPO. Le parole di Papa Francesco sono state come la pioggia che non ritorna in cielo senza avere fecondato la terra così come dice il profeta Isaia (cfr. Is 55,10). Nella sua visita apostolica ha gettato un seme nel cuore di tutti e, grazie al dono dello Spirito, osiamo credere che i frutti seguiranno. Molti hanno notato con gioia che la sua presenza è stata di conforto nelle situazioni difficili che il Paese sta attraversando; tutta l’umanità ha forse avuto occasione di capire ciò che non voleva capire e vedere ciò che non voleva vedere. Facciamo tutti, con un cuore solo, tesoro dei frutti di questa visita per un nuovo Congo.... tutti finalmente riconciliati in Cristo Gesù.
Se penso a mio marito Luca, la persona che è stato, come è vissuto e anche come è morto...devo dire che in lui hanno prosperato e si sono conservati tanti valori che aveva ricevuto fin da bambino. Lui frequentava l'oratorio ed è cresciuto in un ambiente sano.
Luca non è nessun santo, anche lui aveva i suoi piccoli e grandi difetti, era una persona normale ma dotato di una umanità davvero grande, era quello il suo massimo valore.
Quando decise di impegnarsi in una carriera diplomatica -quello era sempre stato il suo sogno- non ha mai rinunciato a vivere fino in fondo le cose che aveva imparato fin da bambino. Per lui fare l'ambasciatore significava non lasciare mai indietro nessuno in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi situazione. Le attività diplomatiche erano la sua missione e le viveva con lo stesso entusiasmo dei missionari che, per esempio, aveva conosciuto numerosi in Congo.
L'umanità è la sua eredità. Non ha fatto cose straordinarie ma era straordinario al momento di fare il suo dovere, con precisione, con attenzione, con un grande spirito di servizio.
Nella mia religione islamica il martire è colui che diventa testimone di vita. Se Luca fosse ancora in vita forse non saremmo qui a parlare di lui, ma adesso che non è più fra noi diventa testimone credibile di quei valori che ha vissuto e che servono per fare di questo mondo una casa più accogliente.
La vita è un dono prezioso e bisogna difenderla in ogni modo ma per chi come Luca la sa dare diventa un dono ancora più prezioso, un modello, un testimone, un martire appunto, che può ispirare il cammino di tutti.
Con Luca sono morte due persone, l'autista era di religione islamica e anche lui ha lasciato una famiglia, ma sono oggi i nostri testimoni che ci animano a non arrenderci.
*Zaquia Seddaki è la vedova dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio, ucciso in Congo nel 2021 Presidente e fondatrice dell'associazione "Mama Sofia" voluta per difendere il valore della pace e dare voce a chi non ha voce.
I pigmei mi avevano costruito una capanna, quando trascorrevo parte della settimana in uno dei loro accampamenti. La più bella, ma guai a dirglielo. Loro sono così: non si valorizzano, hanno di sé una concezione umile, riflesso del giudizio altrui. A forza di essere considerato inferiore, ci credi. Non li senti mai dire le mie tradizioni, la mia cultura; devi essere tu a ricordarglielo. Eppure vantano una conoscenza profonda dell'ambiente naturale, anche nella farmacopea verde".
Padre Flavio Pante, Missionario della Consolata, lavora da venti anni a Bayenga, nel distretto orientale Alto-Uélé della Repubblica democratica del Congo (Rdc). In quel territorio dalle rosse piste di argilla, i pigmei della locale etnia mbuti sono circa 1.500, sparsi in 36 accampamenti.
"La valorizzazione della cultura pigmea è cruciale –ci dice padre Flavio durante una sua visita in Italia– insieme al lavoro sulla percezione negativa che le popolazioni bantu hanno del popolo che è stato il primo abitante di quelle aree di foresta". Adesso quest'ultima è invasa e i pigmei si trovano in mezzo al guado. Un nuovo popolo, di cercatori e tagliatori, spiegava padre Flavio alla rivista Missioni Consolata nel 2019, si inoltra sempre più nella foresta a caccia di oro e legname e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti.
I cercatori artigianali "stanno quasi peggio dei pigmei": si arrangiano e vendono a poco prezzo agli intermediari. Nei loro agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie e violenza. Oggi il fenomeno ha dimensioni enormi. I pigmei ormai vengono assoldati per il compito, gravosissimo, di trasportare i tronchi fino ai luoghi raggiungibili dai camion. E la selvaggina fugge.
L'alimentazione si adatta alla nuova realtà. Avendo meno carne a disposizione, i pigmei si rivolgono a quello che trovano ai bordi della foresta: manioca, patate dolci e foglie. Veri esperti, raccolgono miele selvatico, frutti spontanei, funghi, fibre. E barattano: la modalità dello scambio di merce è più consona alla loro cultura. Trovano anche insetti, bruchi, termiti… "no, non sanno che sono considerati il cibo del futuro", sorride padre Flavio. Però i cambiamenti climatici sono arrivati fin là. La stagione delle piogge non rispetta più i suoi ritmi. Da qualche tempo il miele scarseggia nei tronchi.
Gli accampamenti non sono più nel folto della foresta, ma ai bordi, spesso in prossimità dei villaggi bantu. Alcuni si sono stabilizzati totalmente. "La capanna è dove si dorme. La copertura è fatta di foglie, e sono molto meglio delle lamiere. Ogni tanto bisogna affumicare, contro umidità e insetti. Quando abitavo con loro avevo la zanzariera: ma per evitare che mi arrivassero addosso serpenti a caccia di topi". L'insediamento potrebbe facilitare un'integrazione con le al tre popolazioni. Resta un cammino difficile. Innanzitutto perché non hanno un territorio ben delimitato. E poi non sono abituati all'agricoltura. Diventano spesso manodopera mal pagata dei bantu.
L'invasione culturale è ben spiegata da padre Flavio: "Il pigmeo ha visto il mercato del villaggio bantu e i suoi specchietti per le allodole, ha ascoltato la radio, ha sperimentato gli alcolici. Ormai non può staccarsene, penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina ai bantu e si accampa". La grande sfida é l'interazione paritaria. "In Burundi e Ruanda i pigmei sono già sedentarizzati. In Congo ci arriveremmo per via dell'invasione della foresta".
Occorre lavorare insieme ai pigmei affinché si inseriscano in modo paritario e traendone vantaggi: cure per la salute, scuola, nutrizione, agricoltura, lavoro, protezione.
"Cogliere dagli anziani i saperi è fondamentale perché preservino il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale sia di narrazioni; prima che la biblioteca vivente se ne vada", osserva padre Flavio, che del resto si occupa soprattutto di salute. L'artigianato è un altro pezzo forte: dai vasi di argilla alle stuoie e ai canestri di fibra alla pittura su cortecce con pigmenti naturali.
I giovani Pigmei "si trovano a non essere più cacciatori e non ancora coltivatori. Comunque non hanno più la tecnica per gestire questa rischiosa attività". Cosa cacciavano? Padre Flavio spiega: "In passato c'è stato un commercio enorme di zanne di elefante. Oggi non più. Cacciavano l'okapi, grosso come un cavallo, ora vietato. Ci sono i dik dik, piccole antilopi, facoceri, cinghiali, scimmie, armadilli e tartarughe...". I consumi della cosiddetta "bush meat" (carne di foresta) da parte dei pigmei sono comunque poca cosa, nel quadro degli attacchi alla biodiversità e della sofferenza degli animali selvatici.
E i Bambini a scuola? "Cerchiamo di sensibilizzare i genitori e li sosteniamo per i materiali e le spese, ma i pigmei hanno solo due stagioni, secca e piovosa. E non hanno mesi ma lune. Da gennaio vanno nella foresta a raccogliere il miele e cacciare e si portano i bambini. Così la scuola si deve adattare ai diversi periodi dell’anno. Offriamo poi due anni di prescolarità solo per i bambini pigmei, con ritmi e linguaggio adatti».
«Sulle donne pigmee contiamo per la prevenzione nel campo della salute. Si occupano di condizione femminile, economia domestica, igiene dell’accampamento», dice padre Flavio. Si parte dalla lotta alla malnutrizione causata da difficili situazioni familiari o dalle numerose infezioni intestinali per il consumo di acqua o cibi contaminati. «La nostra missione è particolarmente attenta al recupero nutrizionale, in particolare con il latte di soia. Abbondano poi le malattie polmonari –per via delle escursioni termiche fra giorno e notte– le parassitosi e l’Aids». Questo è legato alla prostituzione intorno agli accampamenti dei cercatori d’oro e dei tagliatori di alberi».
Altre minacce sono il consumo di alcol e lo sfinimento nei trasporti pesanti. E poi, «abbiamo in corso una campagna di sensibilizzazione per la tubercolosi che fa ancora parecchie vittime, e la lebbra che ha ripreso a diffondersi; ma la cura adesso c’è». E il dispensario di Bayenga è diventato un piccolo ospedale, con un medico statale.
Un frutteto anche per i pigmei è una delle azioni portate avanti da padre Flavio. «Gli alberi da frutto tropicali –banane, ananas– sono generosi. Ogni domenica distribuiamo le piantine ricavate dai getti. Vanno a ruba presso bantu e pigmei!». Per la coltivazione dei campi e degli orti, bisogna fare i conti con la difficoltà culturale dei pigmei: da raccoglitori e cacciatori, non sono pronti a seminare, innaffiare e pensare di avere cibo solo dopo settimane o mesi. E’ importante incoraggiare il lavoro in comune –tipico delle battute di caccia– e mettere a disposizione terreni. «Forniamo sementi, attrezzi, tecniche e consigli con animatori sul campo. Insistiamo sulle coltivazioni di facile rendimento come campi di banane di manioca, di mais, che non richiedono grandi cure».
* Marinella Correggia è giornalista de "Il Manifesto" che ha pubblicato questo articolo nella sua edizione del 3 di novembre.
Padre Clovis Audet, Missionario della Consolata, è nato nel 1935 in Quebec (Canada); ha emesso la prima professione religiosa nel 1959 ed è stato ordinato sacerdote nel 1963. La sua vocazione missionaria l’ha portato a lavorare 22 anni in Colombia; altri 17 in Africa (fra Costa d'Avorio e Congo) e poi, inarrestabile, in anni recenti ha raggiunto il Messico dove si trova tutt’oggi. Un mese fa ha pubblicato in Canadà il suo libro di memorie “Qui m’a appelé. Une vie missionnarie” (Chi mi ha chiamato. Una vita missionaria). Pubblichiamo un estratto del prefazio di questo libro, firmato dal padre Stefano Camerlengo, superiore Generale dei Missionari della Consolata, che fa una lettura del significato della missione nella vita di un missionario.
Molte volte mi sono domandato come la mia esperienza missionaria abbia influito sul mio modo di percepire gli altri, sul mio rapporto con il mondo delle cose, sulla mia relazione con Dio. Detto in altro modo: quali percorsi mi hanno condotto a essere quello che sono? In quale modo i contatti con gente di diversa cultura e sensibilità mi hanno cambiato? In che modo la vita in comune con confratelli, segnati da esperienze positive ma anche tragiche, mi ha cambiato? Come situazioni dense e difficili hanno affinato la mia sensibilità missionaria?
Nel racconto che fa padre Clovis della sua vita e missione ho trovato risposte interessante a queste domande. Leggendo il suo racconto conosciamo la missione non come qualcosa di perfetto e stupendamente unico, ma come un camminare passo dopo passo con l’umiltà di quello che siamo, la voglia di non mollare, il desiderio di andare avanti.
Raccontare la missione non è allora solo riportare fatti e problematiche missionarie e non si tratta nemmeno di esporre "criteri missionari" che forse solleticano la mente ma non il cuore. Raccontare la missione è soprattutto "ricordare" gli eventi fondanti che hanno segnato la vita, nel senso più ampio del termine e nei quali ci siamo sentiti accarezzati dalla mano invisibile di Dio. Lo ricorda anche il Papa Francesco quando dice che solo grazie all'incontro con l'amore di Dio siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall'autoreferenzialità; solo quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi, giungiamo ad essere pienamente umani oltre che disposti ad annunciare l'amore che ridona valore alla nostra stessa vita. (cf EG 8)
Il padre Clovis in una foto recente, con un carissimo amico dei Missionari della Consolata: Jacques Pelletier
Nel libro di padre Clovis mi sembra si possano identificare tre tipi di eventi che sono quasi paradigmatici e diventano insegnamento perché esprimono le costanti, gli atteggiamenti e le dimensioni fondamentali del nostro vivere la missione.
1. La narrazione dei dettagli della sua vocazione e del suo impegno missionario: i posti dove ha vissuto, le persone con cui ha condiviso. Nel suo suo racconto si mettono in evidenza azioni che, per quanto apparentemente insignificanti, innescano trasformazioni e mettono in movimento persone che, a loro volta, diventano strumenti di cambio. Le situazioni e le persone che si intrecciano con la missione di tutti i giorni, e la fanno crescere nella dimensione dell’annuncio, descrivono perfettamente la missione che non ci appartiene mai pienamente perché è di Dio.
2. La narrazione delle sconfitte, gli sbagli, le difficoltà. Questa è pure missione! Questa è la difficile strada della vita, e lui la presenta così com’è senza camuffare o barare! Ecco allora un richiamo a ritornare all’essenziale, a “Colui che ci ha chiamati". Anche la tragedia, le sconfitte, la perdita, l’annullamento delle nostre certezze mondane diventano appello alla conversione, si trasformano in eventi fondanti che ci riportano alle radici della nostra identità e missione.
3. La narrazione delle tensioni, dei cambi, dei problemi, dei conflitti. Anche tutto questo fa parte della missione, del camminare lento e quotidiano alla ricerca del meglio che sta sempre più avanti.
Il conflitto non si dissimula; tanto meno vi si rimane prigionieri gettando sugli altri le proprie “confusioni e insoddisfazioni”; semplicemente si accetta, si risolve, ci trasforma. Va affrontato nell’orizzonte della propria identità carismatica e missionaria e a partire dal criterio dell’accettazione dell'altro. Così le occasioni di conflitto sono trasformate in potenzialità a vantaggio della missione.
Il libro di padre Clovis chiede a tutti noi, nessuno escluso, di far fruttare questo talento: fare della comunicazione, del racconto, uno strumento per costruire ponti, per condividere la bellezza dell'essere fratelli in un tempo segnato da contrasti e divisioni. I primi destinatari di un messaggio così impegnativo siamo noi, Missionari della Consolata come lui.
* p. Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata.
Clovis bambino e la sorella Rita nella terra di famiglia a Maria, suo paese natale.