L’8 febbraio 2025 è stato un giorno storico per la comunità cattolica di Sereolipi in Kenya che ha celebrato con gioia e gratitudine l’inaugurazione e la consacrazione della nuova Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù. Questo evento segna una tappa fondamentale nel cammino di fede della regione, coronando anni di sacrificio, impegno e speranza da parte della comunità e dei missionari della Consolata.
Alla cerimonia hanno preso parte Monsignor Hieronymus Joya, vescovo della diocesi di Maralal, Monsignor Virgilio Pante, vescovo emerito di Maralal, e Monsignor Peter Makau, vescovo della diocesi di Isiolo, insieme a numerosi sacerdoti, religiosi e fedeli giunti dai villaggi circostanti. Presenti anche amici dall’Italia e benefattori che hanno sostenuto il progetto, tra cui Edi Martinelli e Liliana Dalvit, che hanno condiviso con la comunità il loro 27° anniversario di matrimonio.
Un momento particolarmente significativo della celebrazione è stata la consacrazione dell’altare, che custodisce le reliquie di Mathias Mulumba e del suo compagno Charles Lwanga, entrambi martiri dell’Uganda. Questo segno di profonda devozione rafforza il legame spirituale della parrocchia con i testimoni della fede che hanno dato la vita per il Vangelo.
Un’occasione di profonda spiritualità e di ringraziamento per il cammino compiuto fino ad oggi, testimoniando la crescita della Chiesa in questa regione e il forte legame che unisce i missionari della Consolata alla popolazione locale.
La storia della comunità cattolica di Sereolipi è una storia di evangelizzazione e sacrificio. Situata nel cuore del distretto di Samburu East, nella contea di Samburu, questa zona remota del Kenya ha sempre presentato grandi sfide: condizioni climatiche aride, infrastrutture limitate e difficoltà di accesso ai servizi di base.
La missione cattolica di Sereolipi nacque negli anni ‘70 come stazione secondaria della parrocchia di Archer’s Post, sotto la guida dei missionari della Consolata. Nel 1979, con l’inaugurazione ufficiale della comunità, iniziò un lungo percorso di crescita, sostenuto dal lavoro instancabile di numerosi sacerdoti e religiosi che hanno dedicato la loro vita a questa missione. Tra loro, una figura centrale è stata Padre Egidio Pedenzini, IMC, che per anni ha servito la comunità con dedizione, promuovendo non solo la vita spirituale, ma anche lo sviluppo sociale attraverso iniziative educative e programmi di assistenza.
Nel 2009, con la crescita della popolazione cattolica, Sereolipi è stata elevata a parrocchia autonoma grazie al decreto del vescovo Virgilio Pante. Da allora, il numero di fedeli è aumentato costantemente, rendendo necessaria la costruzione di una nuova chiesa capace di accogliere la comunità in modo più adeguato.
L’idea di costruire una nuova chiesa per la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù nacque nel 2014, ma la mancanza di fondi rese difficile la sua realizzazione. Per anni, le celebrazioni si sono svolte nella capella parrocchiale, ma il desiderio di un luogo di culto più grande e accogliente rimase vivo nella comunità.
Nel 2017, sotto la guida di Padre Pedenzini e del consiglio locale, venne avviata una campagna di raccolta fondi, sostenuta dai fedeli e da benefattori locali e internazionali. Tuttavia, le difficoltà economiche e la pandemia di Covid-19 (2019-2020) hanno rallentato il progetto.
Nel 2021, con la ripresa delle attività, venne istituito un comitato per la costruzione della chiesa composto da 50 membri, ognuno dei quali contribuì con una donazione iniziale. Grazie a questa iniziativa e al sostegno di amici e benefattori, il progetto prese finalmente forma.
Nel marzo 2022, venne presentato il piano di costruzione con un costo stimato di 19,8 milioni di scellini kenioti.
Nonostante la tragica scomparsa di Padre Pedenzini il 14 ottobre 2022, il progetto continuò sotto la guida di Monsignor Pante e Padre Cornelius Lomatukae, fino all’arrivo nel 2023 del nuovo parroco, Padre Henry Kaziama, IMC, e del suo assistente, Padre Martin Ndumia, IMC.
La celebrazione dell’8 febbraio 2025 non è stata solo l’inaugurazione di un edificio, ma un momento di profondo rinnovamento spirituale per l’intera comunità. Il Vescovo Joya ha aperto la Porta Santa della Speranza, segnando l’inizio dell’Anno Giubilare della Speranza, un tempo di grazia e rinnovamento per tutti i fedeli della parrocchia.
Nel suo messaggio, Padre Henry Kaziama, IMC, ha sottolineato l’importanza di questa chiesa non solo come struttura fisica, ma come segno della fede viva della comunità:
“Oggi non celebriamo solo la costruzione di una nuova chiesa, ma la crescita della nostra comunità nella fede, nella speranza e nell’unità. Questa chiesa è il frutto del sacrificio e dell’amore di tanti. Ora dobbiamo continuare a costruire la Chiesa viva nei nostri cuori.”
Anche Padre Martin Ndumia, IMC, ha rivolto un pensiero ai missionari e ai fedeli che hanno reso possibile questo sogno:
“Dopo più di 40 anni dalla nascita della comunità cattolica di Sereolipi, oggi guardiamo indietro con gratitudine e avanti con speranza. Che questa chiesa sia un luogo di incontro con Dio e tra di noi, un segno di pace e di riconciliazione.”
La nuova chiesa del Sacro Cuore di Gesù è ora una realtà, ma la vera missione inizia adesso. La comunità è chiamata a rafforzare la propria fede e a rinnovare la devozione al Sacro Cuore di Gesù con speranza e gioia.
L’evento è stato anche un’occasione per festeggiare l’anniversario di matrimonio di Liliana Dalvit ed Edi Martinelli, il cui amore e impegno sono stati riconosciuti come esempio di unione e fedeltà cristiana.
Guardando al futuro, la parrocchia continuerà a promuovere iniziative di evangelizzazione, educazione e sostegno sociale, seguendo l’esempio dei missionari che hanno dato la loro vita per il Vangelo.
Con cuore grato e pieno di speranza, la comunità di Sereolipi guarda avanti, consapevole che la vera Chiesa non è fatta solo di mattoni, ma di persone unite dall’amore di Cristo.
* Francisco Martínez, LMC, missionario in Kenya.
Francesco lo ribadisce nella Nota di accompagnamento al testo votato il 26 ottobre dall’Assemblea del Sinodo sulla sinodalità e da lui approvato. Sottolinea che “non è strettamente normativo” e che “la sua applicazione avrà bisogno di diverse mediazioni”. Ma impegna “fin da ora le Chiese a fare scelte coerenti con quanto in esso è indicato”. Perché il cammino del Sinodo oggi “prosegue nelle Chiese locali”
Il Documento finale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, approvato da Papa Francesco il 26 ottobre scorso, “partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro e come tale chiedo che venga accolto”. Il Papa, nella Nota di accompagnamento del Documento, firmata ieri, solennità di Cristo Re dell’Universo, e diffusa oggi, ribadisce, come detto in occasione dell’approvazione, che esso “non è strettamente normativo” e che “la sua applicazione avrà bisogno di diverse mediazioni”. Ma “questo non significa che non impegni fin da ora le Chiese a fare scelte coerenti con quanto in esso è indicato”. Infatti il documento stesso “rappresenta una forma di esercizio dell’insegnamento autentico del Vescovo di Roma che ha dei tratti di novità”, ma corrisponde a quanto affermato da Francesco nell’ottobre 2015 sulla sinodalità, che è “la cornice interpretativa adeguata per comprendere il ministero gerarchico”.
Leggi qui il testo integrale della Nota di Papa Francesco
Papa Francesco in chiusura del Sinodo dei Vescovi - XVII Congregazione Generale. Foto: Vatican Media
Il Pontefice conferma che il cammino del Sinodo da lui avviato nell’ottobre 2021, nel quale la Chiesa, in ascolto dello Spirito Santo, è stata chiamata “a leggere la propria esperienza e a identificare i passi da compiere per vivere la comunione, realizzare la partecipazione e promuovere la missione che Gesù Cristo le ha affidato”, prosegue nelle Chiese locali, facendo tesoro proprio del Documento finale. Un testo che è stato “votato e approvato dall’Assemblea in tutte le sue parti”, e che anche Papa Francesco ha approvato e, firmandolo, ne ha disposto la pubblicazione, “unendomi al ‘noi’ dell’Assemblea”.
Ricordando quanto dichiarato il 26 ottobre, il Papa ribadisce che “c’è bisogno di tempo per giungere a scelte che coinvolgono la Chiesa tutta”, e che “questo vale in particolare per i temi affidati ai dieci gruppi di studio, ai quali altri potranno aggiungersi, in vista delle necessarie decisioni”. E sottolinea nuovamente, citando quanto scritto nell’Esortazione postsinodale Amoris laetitia, che “non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero”. Come pure che “in ogni Paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali”.
Francesco aggiunge che il Documento finale contiene indicazioni che “già ora possono essere recepite nelle Chiese locali e nei raggruppamenti di Chiese, tenendo conto dei diversi contesti, di quello che già si è fatto e di quello che resta da fare per apprendere e sviluppare sempre meglio lo stile proprio della Chiesa sinodale missionaria”. D’ora in poi, scrive il Pontefice, “nella relazione prevista per la visita ad limina ciascun vescovo avrà cura di riferire quali scelte sono state fatte nella Chiesa locale a lui affidata in rapporto a ciò che è indicato nel Documento finale, quali difficoltà si sono incontrate, quali sono stati i frutti”.
Il compito di accompagnare questa “fase attuativa” del cammino sinodale, conclude Papa Francesco, è affidato alla Segreteria Generale del Sinodo insieme ai Dicasteri della Curia Romana. E ribadisce ancora, come detto il 26 ottobre, che il cammino sinodale della Chiesa Cattolica, “ha bisogno che le parole condivise siano accompagnate dai fatti”. Lo Spirito Santo, dono del Risorto, è la sua preghiera finale “sostenga e orienti la Chiesa tutta in questo cammino”.
* Alessandro Di Bussolo, Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
“Abbiamo ringraziato il Papa per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, siamo una minoranza ma dobbiamo essere luce e sale nella società”, dice il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, acivescovo metropolita di Addis Abeba, che è a Roma ad altri 12 presuli e un sacerdote della Chiesa cattolica etiope in visita ad Limina.
Più di 500 anni fa i cristiani dell’Etiopia viaggiavano fino ad Alessandria, in Egitto, per pregare sulla tomba di San Marco, poi andavano a Gerusalemme per pregare sul Golgota e poi prendevano una nave fino a Roma, per recarsi sulle tombe dei Santi Pietro e Paolo e dei martiri, riposando nel luogo che è ancora il collegio etiopico in Vaticano. “Siamo qui a continuare la storia di questo pellegrinaggio antico”, spiega il cardinale Berhaneyesus, (in un'intervista alla Radio Vaticana). Dopo aver pregato nelle quattro basiliche maggiori a Roma, i vescovi hanno visitato i dicasteri della Santa Sede e, venerdì 28 giugno, sono stati ricevuti da Papa Francesco.
Il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel ospite della Radio Vaticana. Foto: Vatican Media
Ci ha ricevuto con tanta semplicità e anche umiltà. Eravamo noi, soli con il Papa e abbiamo spiegato la nostra situazione in Etiopia. Lo abbiamo ringraziato anche per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, di cui lui ha parlato negli appelli dopo l'Angelus. Lo abbiamo ringraziato e gli abbiamo chiesto di continuare a pregare per noi.
Noi abbiamo presentato la situazione dell'Etiopia dal punto di vista dei giovani, perché su 120 milioni, il 70% della popolazione è costituito da giovani che vogliono migliorare la loro vita e quella dei loro parenti. Vedono sulla tv e sui social media come vivono in altre parti del mondo e molti vanno nei Paesi arabi e purtroppo lì soffrono perché non sono preparati a lavorare come domestici. Altri vogliono andare in Sudafrica, dove va un po’ meglio, ma anche lì ci sono problemi. Gli altri vanno a nord e attraversando il Sudan e la Libia cercano di arrivare in Europa. Nel XIX secolo molti europei migravano e c’erano alcuni luoghi in Europa disponibili a riceverli e sostenerli, ma tutto questo adesso viene a mancare. Papa Francesco questo lo sa.
Il primo luogo che è andato a visitare, dopo l’elezione, è stato Lampedusa, dove ha offerto dei fiori per tutti quelli che sono morti in mare e dove ha detto a chi governa l’Europa che le migrazioni sono importanti. Dobbiamo fare qualcosa per aiutare la gente, sia in Africa sia in Siria o in altri Paesi. Quando qualcosa riguarda i poveri, ci ha detto, allora dobbiamo essere vicini a loro. Noi siamo accanto ai bambini, che soffrono molto quando non vanno a scuola perché le scuole sono distrutte, siamo vicini alle mamme che non possono andare negli ospedali perché sono distrutti e agli anziani che sono sfollati dai loro villaggi e vivono come stranieri. Gli abbiamo spiegato tutto questo e lui ha detto di continuare a essere vicini alla gente, in mezzo al popolo, così da poter sentire l’odore delle pecore. Un vescovo deve essere così. Non deve scappare ma deve essere tra la gente. Anche se non si possono fare grandi cose, la fraternità e la presenza paterna sono importanti. Lui ha detto così.
Spazio di amicizia per donne e ragazze vittime dei drammi della guerra in Tigray
Noi siamo minoranza, circa il 2% di 120 milioni di persone. La maggioranza degli abitanti è cristiana: più del 45% sono ortodossi, poi vengono i protestanti, intorno al 18-20%. Abbiamo la responsabilità di essere luce e sale in questo grande Paese. Le sfide sono la povertà e i conflitti e noi, grazie all'appoggio della Chiesa universale, siamo al secondo posto per i servizi sociali che offriamo, come scuole, centri sanitari o centri gestiti dalle suore di Madre Teresa o presidi per lo sviluppo o l’assistenza umanitaria, come la Caritas. In tutto questo siamo chiamati ad essere luce e sale, come Gesù ci ha detto. Non è facile, ma ci stiamo provando.
Il conflitto in Tigray era fra il governo regionale e il governo federale. Una cosa politica, ma chi soffre è il popolo. Grazie a Dio, dopo due anni hanno fatto una pace a Pretoria. L'altro è in Oromia. L’Oromo Liberation Army è in lotta con il governo federale da quattro anni e anche lì chi soffre è il popolo. Hanno cominciato a parlare in Tanzania, ma non sono riusciti ancora a fare la pace. Il terzo fronte adesso, che continua da più di un anno, è nella regione Amhara. Anche lì ci sono i movimenti in conflitto con il governo federale. Speriamo che arriveranno a una soluzione. Noi come Chiesa cattolica non appoggiamo né l’uno né l’altro, ma siamo con il popolo che soffre.
Piuttosto siamo per l’assistenza sociale e per cercare una riconciliazione per il dopo guerra, quando si deve fare non solo la pace, ma anche guarire dai traumi sia chi ha sofferto direttamente nella guerra, come le donne vittime di abusi e i bambini che hanno visto le loro famiglie morire. Questo è importante e non si fa solo a livello di una piccola Chiesa, ma con l'appoggio della Chiesa universale. Si può fare insieme con i tanti missionari che lavorano con noi e che vengono da tutto il mondo.
* Michele Raviart - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: Vatican News
Il 6 aprile 1994 iniziava la mattanza nel paese africano che causò la morte di un milione di persone.
“Ci sarà mai una cifra esatta sugli eccidi, sui feriti, sui profughi, sugli orfani che il dramma del Ruanda ha lasciato sul terreno dell’Africa? Le dimensioni sono quelle di una grande tragedia, ma incalcolabile non è soltanto il numero delle vittime. È inquietante chiedersi fin dove e, soprattutto, fino a quando questi semi di violenza continueranno ad avvelenare i percorsi di una necessaria riconciliazione”. Gli angosciosi interrogativi li poneva il Cardinale Jozef Tomko, Prefetto dell’allora Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, in un intervento pubblicato dall’Agenzia Fides e dall’Osservatore Romano nel giugno 1995, nel primo anniversario dell’assassinio dell’Arcivescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, e dei Vescovi di Kabgayi, Thaddee Nsengiyumva, e di Byumba, Joseph Ruzindana, uccisi il 5 giugno 1994 insieme a dieci sacerdoti che li accompagnavano nella visita alle popolazioni sconvolte dalla violenza omicida. I loro nomi si aggiungevano ad un lungo elenco di sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi, novizie, operatori pastorali uccisi nel Paese africano.
Dal 6 aprile 1994, quando venne abbattuto l’aereo su cui viaggiavano i Presidenti del Ruanda e del Burundi, colpito da un missile nei cieli della capitale ruandese Kigali, al 16 luglio 1994, secondo la connotazione cronologica accettata, si compie in Ruanda il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati. Il movente fondamentale fu l’odio razziale verso la minoranza tutsi, che costituiva l’élite sociale e culturale del Paese. Le cifre ufficiali diffuse all’epoca dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone che persero la vita in 100 giorni, uccise con machete, asce, lance, mazze. Altre fonti citano un milione di morti. Lo sterminio terminò, almeno ufficialmente, nel luglio 1994 con la vittoria militare del Fronte patriottico ruandese, sulle forze governative, espressione della diaspora tutsi. Lo strascico di violenze e vendette razziali proseguì comunque ancora a lungo.
Il Cardinale Tomko, nel suo intervento l’anno seguente alla tragedia, citava “oltre due milioni di persone, vale a dire quasi un terzo della popolazione, attualmente al di là dei confini del Paese. I profughi ammassati nei campi - in particolare nello Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo) - sono l’immagine di un doppio dramma: quello dei diritti e della dignità negata, e quello di una nazione mutilata”. Il Prefetto del Dicastero Missionario indicava quindi la riconciliazione come “la sola possibilità di salvezza, il nome della speranza a cui tutto il popolo ha diritto. E in una prospettiva di questa natura, emerge in pieno il vastissimo ruolo che spetta alla Chiesa”.
La chiesa della Santa Famiglia a Kigali, in cui furono perpetrati massacri nella guerra civile del 1994. Foto: Adam Jones
“Un contributo peculiare in tale direzione proviene dall’operato dei missionari, considerati tra i pochi soggetti al di sopra delle parti nella tragedia che insanguina il Paese, in grado di portare avanti senza cedimenti il processo di pacificazione” evidenziava ancora il Cardinale Tomko. A pochi mesi dall’eccidio, più di sessanta si erano reinsediati nei precedenti luoghi di apostolato, “in mezzo alle popolazioni stremate dalla fame, dalle ferite e dalle malattie”, oltre ad essere impegnati nello stabilire collegamenti tra i profughi nei Paesi vicini e le autorità ruandesi per garantire loro il rientro in patria in condizioni di sicurezza e dignità.
Nella rete di riconciliazione tessuta dalla Chiesa, un secondo apporto fondamentale è stato fornito dai Seminari, la cui vita in Ruanda è particolarmente fiorente. Intorno alla Chiesa locale poi, “si mobilitano in molti per alleggerire il peso che essa deve portare. La solidarietà e l’aiuto spirituale, morale e non solo manifestatole, sono un segno eccellente di quell’universalità di cui parlano già gli Atti degli Apostoli”.
Nel primo anniversario “dell’orribile tragedia ruandese”, i membri della Conferenza episcopale del Ruanda pubblicarono “un messaggio di partecipazione e di conforto” all’intero popolo ruandese, che porta la data del 30 marzo 1995. “La Chiesa cattolica del Ruanda, così come tutto il Paese, è stata provata per la perdita di un gran numero dei suoi figli. Essa condivide il dolore di quanti si sono confrontati con ogni tipo di sventura: genitori a cui sono stati strappati i figli per essere uccisi, orfani, vedove, feriti, handicappati, sfollati, rifugiati nei campi, traumatizzati; in una parola tutti quelli che si sono trovati davanti l’orrore in tutte le sue forme. La Chiesa condivide la sofferenza di tutti costoro: fa sue le loro lacrime, il loro dolore, i loro lamenti e le loro suppliche, nella misura delle sue possibilità li accompagna nelle loro diverse situazioni”.
Foto di alcune delle vittime del genocidio conservate nel museo della memoria a Kigali. Il museo è stato aperto nel 2004 in occasione del decimo anniversario dall’inizio del genocidio. Foto: Corbis via Getty Images.
I Vescovi ruandesi, un anno dopo i massacri, auspicavano una degna sepoltura di tutte le vittime della guerra, dichiarandosi favorevoli “all’erezione di segni memoriali in ricordo dei defunti”. Come sempre “la Chiesa continua a pregare per i defunti” assicuravano, invitando tutti “a mobilitarsi per inumare degnamente i resti delle vittime che si trovano ancora sulle colline... Chiediamo insistentemente che le cerimonie di inumazione dei resti delle vittime della tragedia ruandese siano esenti da tutti quei gesti e da quelle parole che hanno provocato e aggravato il conflitto”.
Nella conclusione del messaggio, i Vescovi ribadivano “la condanna e la disapprovazione per i massacri ed il genocidio che ha segnato l’anno trascorso”, quindi esortavano “tutti coloro che amano la pace, ad ostacolare e combattere ogni progetto che possa portare al ripetersi di una tale tragedia. Questa è una legge assoluta di Dio: tutti vogliono che la loro vita sia rispettata, ognuno dunque rispetti la vita degli altri e agisca di conseguenza”.
La tragedia vissuta dal popolo ruandese ha coinciso con un avvenimento storico per la Chiesa del Continente, che avrebbe dovuto riempirla di gioia e speranza: la Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, sul tema “La Chiesa in Africa e la sua missione evangelizzatrice verso l'anno 2000: 'Sarete miei testimoni' (At 1,8)”. Indetta da Papa Giovanni Paolo II già nel 1989, venne celebrata in Vaticano dal 10 aprile all’8 maggio 1994, nel quadro dei Sinodi continentali sul tema dell’evangelizzazione in preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000. L’eco dei tragici eventi che insanguinavano il Ruanda risuonò e si amplificò in modo particolare nel cuore della Cristianità, dove i rappresentanti dei Vescovi di tutto il continente africano erano riuniti attorno al Successore di Pietro, che non si stancava di invocare riconciliazione e pace.
Il 9 aprile 1994, in un primo messaggio indirizzato alla comunità cattolica del Ruanda, Papa Giovanni Paolo II supplicò “di non cedere a sentimenti di odio e di vendetta, ma a praticare coraggiosamente il dialogo e il perdono”. “In questa tragica tappa della vita della vostra nazione - scrisse il Papa - siate tutti artefici di amore e di pace”.
Nella solenne cornice della Messa di apertura dell’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, celebrata in San Pietro domenica 10 aprile 1994, cui ovviamente non parteciparono i Vescovi del Ruanda, il Papa espresse profonda preoccupazione per il Paese africano, “tormentato da annose tensioni e da sanguinose lotte”. Durante l’omelia ricordò in particolare “il popolo e la Chiesa ruandesi, provati in questi giorni da una impressionante tragedia, legata anche alla drammatica uccisione dei Presidenti del Ruanda e del Burundi. Con voi, Vescovi, condivido la sofferenza di fronte a questa nuova catastrofica ondata di violenza e di morte che, investendo questo diletto Paese, ha fatto scorrere in proporzioni impressionanti, anche il sangue di sacerdoti, religiose e catechisti, vittime di un odio assurdo”. Facendosi portavoce dei 315 partecipanti al Sinodo, e “in spirituale comunione con i Vescovi del Ruanda che non hanno potuto essere oggi qui con noi”, il Pontefice lanciò un appello per fermare i violenti. “Con voi elevo la mia voce per dire a tutti: Basta con queste violenze! Basta con queste tragedie! Basta con queste stragi fratricide!”
Fronte comune delle associazioni per il ricordo del genocidio tutsi in Ruanda. Foto: Licra memoire
Anche dopo la recita del Regina Coeli di quella stessa domenica, Papa Giovanni Paolo II richiamò l’attenzione sul paese africano: “Le tragiche notizie che giungono dal Ruanda suscitano nell’animo di tutti noi una grande sofferenza. Un nuovo, indicibile dramma, l’assassinio dei Capi di stato di Ruanda e Burundi e del seguito; il Capo del governo ruandese e la sua famiglia trucidati; sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Ovunque odio, vendette, sangue fraterno versato. In nome di Cristo, vi supplico, deponete le armi! Non rendete vano il prezzo della Redenzione, aprite il cuore all’imperativo di pace del Risorto! Rivolgo il mio appello a tutti i responsabili, anche della comunità internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa essere argine a tanta distruzione e morte”.
I lavori del Sinodo per l’Africa, il primo nella storia della Chiesa, furono inevitabilmente contrassegnati, oltre che dallo studio e dal dibattito indicati dall’Instrumentum laboris, anche dalle tragiche notizie che via via giungevano dal Ruanda. Il 14 aprile il Santo Padre celebrò la Santa Messa “per il popolo rwandese” e i membri del Sinodo lanciarono un “appello pressante” per la riconciliazione e per i negoziati di pace. Nel messaggio, firmato a nome di tutti dai tre Presidenti delegati del Sinodo (i Cardinali Francis Arinze, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso; Christian Wiyghan Tumi, Arcivescovo di Garoua, Camerun, e Paulos Tzadua, Arcivescovo di Addis Abeba, Etiopia), i padri Sinodali si dissero “profondamente rattristati per i tragici avvenimenti” e si rivolsero “a tutti coloro che sono coinvolti in questo conflitto, perché facciano tacere le armi e pongano fine alle atrocità ed alle uccisioni”.
Ai ruandesi chiesero di “camminare insieme e di risolvere i loro problemi con la discussione”, ai singoli individui ed alle organizzazioni presenti in Africa o fuori dall’Africa, di “usare la loro influenza per portare il perdono, la riconciliazione e la pace in tutto il Ruanda”.
Fonte: Agenzia Fides
La parola Minga appartenente alle culture indigene andine ed indica una forma di azione collettiva che nasce dall'incontro di diversi attori, conoscenze e strumenti alla ricerca di un obiettivo comune. È un lavoro organizzato e comunitario, finalizzato al progresso e alla resistenza socio-politica.
È in questo stesso contesto che, nel tempo di Dio e nel calendario amazzonico della Vita, si svolge la Seconda Minga Amazzonica di Frontiera celebrata in questi primi giorni di Novembre nella città amazzonica di Puerto Leguízamo, centro amministrativo, commerciale, militare e religioso dell'Amazzonia colombiana, peruviana ed ecuadoriana.
Secondo la saggezza costruita per secoli dai popoli ancestrali che abitano questo territorio, anche questa seconda Minga continua ad alimentare il grande progetto secondo il quale "tutti in Cristo hanno vita in abbondanza": indigeni, afrodiscendenti, contadini, urbani, colombiani, peruviani, ecuadoriani, migranti o residenti, nativi o coloni. Per tutti, questo territorio ricco, colorato e vario è offerto come una "casa comune" che può essere usata in fraternità, goduta in amicizia e curata responsabilmente.
"Tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra", sono state le parole che hanno introdotto la riflessione sul territorio che abitiamo, luogo sacro della vita.
I popoli che vivono in questo territorio hanno una memoria di resistenza, storie di esperienze e la vicinanza di un Dio che cammina con loro. Sono piccoli popoli ma camminano insieme, hanno alti e bassi ma lottano e sopravvivono grazie alle loro credenze ancestrali e alle loro esperienze, che li rendono forti e con una identità propria. La loro storia ci insegna "l'arte di imparare camminando" e in essa scopriamo e comprendiamo la nostra stessa fede.
Come il Popolo d'Israele, anche noi camminiamo in questo territorio dell'Amazzonia, ascoltando e consolando, costruendo una Chiesa dal volto amazzonico, una Chiesa samaritana che cammina con gli altri.
Sull'esempio di Gesù, che ha percorso il territorio della Galilea nel suo ministero itinerante, abitiamo il territorio nella sua diversità di luoghi; ci impegniamo nei compiti quotidiani stabiliti dalla vita di ogni popolo; siamo chiamati a lasciarci segnare dal territorio e a lasciare un'impronta che ci aiuti a costruire i sogni di unità che ci permettano di sentirci parte dello stesso corpo anche in mezzo alla diversità.
Monsignor Joaquín Pinzón, missionario della Consolata e vescovo da dieci anni della chiesa di questa regione, il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, ha notato che il cammino di accompagnamento dei processi, dei volti e delle opzioni apostoliche è stato guidato dalla Parola di Dio, incarnata nel Piano Pastorale. La strada e il cammino ci hanno aiutato a scoprire il modo di essere Chiesa nello stile di Gesù e del suo Regno: una Chiesa samaritana, casa comune, sorella e madre che accompagna, ascolta e guida, annunciando e vivendo la misericordia dalla giustizia e dalla pace, affinché tutti abbiano una vita piena, in abbondanza, di qualità. "Come credenti continuiamo a sognare un territorio possibile e una Chiesa possibile e fraterna".
* Salvador Medina è missionario della Consolata in Colombia.