Nm 11,25-29; Sal 18; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

Davanti al sentimento di gelosia, di invidia, davanti a coloro che seminano zizzania e divisione, sia la prima Lettura sia il Vangelo propongono l’atteggiamento dell’accoglienza nella diversità e della flessibilità nel giudizio.

È la gelosia e l’invidia che fanno dire sia a Giosuè “Mosè, mio signore, impediscili!” sia a Giovanni “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Ma la risposta di Gesù è perentoria: “non glielo impedite: chi non è contro di noi è per noi”. Per Gesù non è un “noi” che esclude ma che tutti accoglie e abbraccia, anzi tutti riconcilia.

 Volevamo impedirglielo

Ci troviamo ancora a Cafarnao mentre Gesù continua il suo percorso formativo sul discepolato. La lamentazione di Giovanni, questa volta il portavoce del gruppo, non solo rivela la gelosia e l’invidia ma provoca l’insegnamento sull’accoglienza da parte dal Maestro.  Giovanni si lamenta che hanno trovato qualcuno che “scacciava i demoni” nel nome di Gesù, anche se non apparteneva al gruppo dei discepoli. Per Giovanni è un abuso usare il nome di Gesù da parte di qualcuno che non fa parte della comunità dei discepoli. Ecco perché, afferma Giovanni, “volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Così pure nella prima Lettura, quando Eldad e Medad, sebbene non facessero parte dei settanta uomini anziani che avevano ricevuto assieme lo spirito, profetizzavano nell'accampamento.

La cosa allarma Giosuè che si premura di informare Mosè. Non solo, gli chiede di impedire questa profezia, che gli sembra illegale perché coloro i quali profetizzano non fanno parte dei settanta uomini anziani.

In ambedue le realtà emergono dei sentimenti di gelosia, invidia, divisione, perché i discepoli si considerano “detentori della fede, dei doni, dell’amore” e ciò crea esclusione e pone limiti al bene compiuto dagli altri. La gelosia e l’invidia non permettono di vedere il bene che viene compiuto, il geloso e l’invidioso non vedono il bene che fa la profezia di Eldad e Medad, non vedono neppure gli effetti positivi dello scacciare i demoni.

L’invidia e la gelosia accecano i discepoli al punto tale da non riuscire a vedere il bene compiuto. Ecco perché insistono sul fatto che non fanno parte del gruppo, non li seguivano, dimenticando che non sono loro che devono essere seguiti ma è Gesù, il Maestro. Dicendo “non ci seguiva”, i discepoli rivelano la loro pretesa di grandezza, la loro grande preoccupazione per la realizzazione dei progetti personali di prestigio e di grandezza che quasi tutti loro nutrivano.

Poco tempo prima, avevano discusso tra loro su chi sarebbe stato il più grande e chi avrebbe ereditato i posti più importanti nel Regno (cfr. Mc 9,33-37); ora sono inquieti e preoccupati perché è apparso qualcuno al di fuori del gruppo che vuole agire nel nome di Gesù e che potrebbe, in un prossimo futuro, contestare i loro posti elevati nella struttura politica del Regno. Si rivela un gruppo chiuso e detentore della fede e della verità e con tendenze anti-relazionale.

Non glielo impedite: chi non è contro di noi è per noi

Gesù si oppone a tale identità di gruppo chiusa, gelosa, invidiosa, esclusiva, si oppone ad un gruppo legato ad una logica di pretesa di dominio e di potere e afferma: Non glielo impedite: chi non è contro di noi è per noi”. Bisogna passare dalla logica dell'ostilità, alla convivialità delle differenze; dalla logica dell’esclusivismo e divisione all’accoglienza della diversità come ricchezza reciproca, come carità che non annulla le differenze ma è capace di trarre il bene da ogni evento e situazione personale.

Dal punto di vista di Gesù, chi lotta per il bene dell'umanità è dalla parte di Gesù e vive nella dinamica del Regno, anche se non formalmente all'interno della struttura ecclesiale. La comunità di Gesù non può essere una comunità chiusa, esclusivista, monopolizzante, che tiene il broncio e si sente gelosa quando qualcuno da fuori fa del bene; né può sentire violati i suoi privilegi e diritti dal fatto che lo Spirito di Dio agisca fuori dai confini della Chiesa...

La comunità di Gesù deve essere una comunità che mette la preoccupazione per il bene dell'uomo al di sopra dei propri interessi, deve essere una comunità che sa accogliere, sostenere e incoraggiare tutti coloro che agiscono per la liberazione dei loro fratelli, una comunità capace di superare “questo è europeo, questo è africano, questo è musulmano” e cercare di vedere il bene che lui fa anche se non fa parte del proprio gruppo linguistico, culturale oppure religioso. Gesù dirà: “Chiunque, infatti, vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” (v. 41).

Secondo Papa Francesco, il discepolo missionario deve fare un percorso: quello di “non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E - come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi - invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.”

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Sap 2,12.17-20; Sal 53; Giac 3,16-4,3; Mc 9,30-37

La prima Lettura, come il Vangelo hanno in comune il tema della passione e morte di nostro Signore. Mentre il libro della Sapienza parla del progetto degli empi che finisce nella morte del servo innocente “mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante”, nel Vangelo, invece, è proprio Gesù che, pur parlando della sua passione, contrariamente al progetto degli empi, va oltre alla morte “una volta ucciso dopo tre giorni risorgerà”.

Anzi, dà un senso alla sua passione e morte: la salvezza dell’umanità. Mentre egli legge la sua passione in chiave di disponibilità e di amore verso l’umanità, i discepoli, con le loro categorie mondane, discutono, tra di loro, chi è il più grande, per Gesù, il più grande è semplicemente colui il quale si mette al servizio dell’altro.

Il Figlio dell’uomo dev’essere consegnato

Gesù continua il suo percorso missionario e formativo: sta attraversando la Galilea e, nel frattempo, continua ad istruire i suoi discepoli, il contenuto del suo insegnamento è la croce ovvero la sua passione, morte e resurrezione. Si tratta del secondo annuncio. Dice la profezia di Isaia (Is 53,1-10), il Figlio dell’Uomo deve essere consegnato e condannato a morte. Verrà consegnato dagli uomini suoi fratelli, come realizzazione di un malvagio progetto, come è ben stigmatizzato nella prima lettura “mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante”. 

Gesù legge la sua passione come realizzazione delle Scritture e come realizzazione della sua stessa missione: la salvezza dell’umanità. Come nel primo annuncio, in Mc 8,32, i discepoli lo ascoltano, ma non capiscono ciò che dice a proposito della croce. Però non chiedono chiarimenti, ma discutono tra di loro di tutta un’altra cosa. Il maestro chiede loro di che cosa stavano discutendo ma essi rimangono in silenzio, hanno paura che emerga la loro ignoranza ma soprattutto il loro progetto e la loro mentalità di grandezza terrena. Infatti, per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande. La domanda che possiamo porci anche noi è perché i discepoli non capivano le parole di Gesù e avevano timore di interrogarlo.

Per Gesù era chiarissimo che la via del Messia doveva passare attraverso la croce e il dono della vita. Per i discepoli, invece, non era chiaro perché, per loro, la morte non poteva essere la via della vittoria. Perciò il Messia doveva essere vittorioso, doveva trionfare, non essere consegnato nelle mani dei nemici. Ecco perché i discepoli non capiscono e non sono neppure d'accordo con il cammino che Gesù ha scelto di seguire: la croce. La croce per loro non è segno di vittoria ma una via di fallimento.

Il percorso e l’orizzonte dei discepoli rimane fisso solo sulla croce, sulla morte, mentre quello di Gesù va oltre ed arriva alla resurrezione: “ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. I discepoli non riuscivano ad oltrepassare la mentalità mondana che era già presente nella persona di Pietro che, subito dopo il primo annuncio della passione, consigliava Gesù di non accettare il progetto di Dio, ma Gesù fu chiarissimo: “Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. La stessa mentalità è ben presente anche in questo brano, ma si aggiungono altre due modalità dell’essere umano: la competitività e il desiderio di grandezza. Possiamo anche dire che i discepoli non capiscono la logica di Gesù perché sono versati nella logica mondana caratterizzata appunto dalla competitività e dalla mania di grandezza. Ma per Gesù tutto è ben chiaro: “Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti.”

Che sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti

Mentre Gesù parlava della sua passione per la salvezza dell’umanità, i discepoli indaffarati all’ interno della loro logica mondana, discutevano tra loro chi fosse il più grande. Si tratta del più grande all’interno di una mentalità di competitività e di prestigio. Mentre Gesù si preoccupa di essere il Messia Servo, i discepoli, invece, solo pensano a chi è il più grande. Gesù cerca di scendere, di mettersi al servizio, di farsi uguale agli altri, i discepoli, invece, cercano di salire, di essere superiori agli altri, di essere serviti. Sono alla ricerca del prestigio, della grandezza, dell’onore! Per Gesù, il potere deve essere usato non per salire e dominare, ma per scendere e servire.

La grandezza consiste dunque nel servire: chi non serve non è grande, non può essere il primo. Per essere primo, deve mettersi nel posto del servizio; deve mettersi al servizio dei piccoli, dei bambini. Ma si sa che una persona che solo pensa a salire e dominare, non può prestare tanta attenzione ai piccoli e ai bambini. Ma Gesù dice il contrario: accogliere i bambini, per Lui, il servizio consiste nell’accogliere le persone, soprattutto, gli umili e gli ultimi.

Il discepolo missionario è colui che sceglie la strada del servizio caratterizzato dall’accoglienza al più umile. Per il Papa Francesco la strada contro lo spirito del mondo è una sola: l’umiltà. Servire gli altri, scegliere l’ultimo posto, non arrampicarsi.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Is 50, 5-9; Sal 114; Giac 2,14-18; Mc 8, 27-35

In questa domenica la liturgia ci presenta un episodio evangelico molto importante: Gesù chiede ai discepoli che cosa pensa la gente di lui, e poi che cosa pensano loro di lui; e dopo la confessione di Pietro annuncia la sua passione. Questo annuncio viene preparato dalla prima lettura, che è un oracolo del profeta Isaia sul Servo del Signore (Is 50, 5-9). La seconda lettura, tratta dalla Lettera di Giacomo (Giac 2,14-18), parla della fede che deve manifestarsi nelle opere.

Il Signore Dio mi assiste

Gli oracoli di Isaia sul Servo del Signore non parlano esplicitamente del Messia, per cui lasciano adito a varie interpretazioni. Tuttavia, annunciano una sorte dolorosa per il Servo del Signore: egli deve presentare il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che gli strappano la barba, non sottrarre la faccia agli insulti e agli sputi. La sua è una sorte veramente umiliante. Ma il Servo del Signore dice: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso». In questa sorte umiliante il Servo del Signore è sicuro di essere assistito da Dio. Perciò non perde il coraggio, anzi mostra una straordinaria fermezza.

Chi dice la gente che io sia?

Dopo la prima parte della sua vita pubblica Gesù va nella regione  di Cesarea di Filippo, un territorio a nord-est della Palestina. Qui interroga i suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?». Il suo ministero ha avuto un grande successo; egli ha parlato come nessun uomo ha mai parlato (cf. Gv 7,46) e ha manifestato al tempo stesso una bontà straordinaria e una potenza impressionante: ha accolto tutti i malati e ne ha guariti molti. Perciò la sua persona suscita molti interrogativi: la gente si chiede chi sia questo personaggio così potente e così buono.

I discepoli rispondono alla prima domanda di Gesù: per alcuni egli è Giovanni Battista risorto, per altri Elia - Elia, secondo il racconto biblico, non era morto, ma era stato assunto in cielo; quindi, ne era atteso il ritorno -; per altri uno dei profeti che ha avuto una sorte simile. La gente dunque è incerta sulla vera identità di Gesù.

Gesù allora rivolge una seconda domanda ai discepoli: «E voi  chi dite che io sia?». Pietro risponde: "Tu sei il Cristo». Guidato dallo Spirito Santo, Pietro riconosce che Gesù è il Messia, il re promesso della stirpe di Davide, il re che doveva essere Figlio di Dio. La reazione di Gesù a questa confessione di Pietro è inaspettatamente negativa. Egli accetta questo titolo, ma impone severamente ai discepoli di non parlare di lui a nessuno, di non dire a nessuno che egli è il Messia. Il motivo è lo stesso che, dopo la moltiplicazione dei pani, lo ha spinto a ritirarsi solo sulla montagna, rifiutandosi di diventare re (cf. Cv 6,15).

In effetti, l'attesa messianica nel popolo ebreo si manifestava allora in un modo che non piaceva a Gesù. Senza dubbio egli è  consapevole di essere il Messia, ma sa che la sorte del Messia non è quella immaginata dalla gente. La gente pensa al Messia come a un re trionfatore o, più esattamente, come a un personaggio che deve provocare un 'insurrezione, prendere il potere e liberare il popolo ebreo con la forza delle armi. Gesù non intende favorire questa immagine del Messia; perciò, vieta ai discepoli di rivelare che egli è il Messia: A questo punto egli comincia a insegnare che il Figlio dell'uomo deve molto soffrire. «Figlio dell’uomo» è un'espressione che Gesù usa spesso per designare sé stesso. È un titolo che non ha nulla di trionfalistico, ma che vuole semplicemente significare un uomo chiamato a una missione, senza quelle risonanze militari suscitale dal titolo di Messia.

Gesù afferma che il Figlio dell'uomo dovrà molto soffrire, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Fa questo discorso apertamente. Pietro allora lo prende in disparte e si mette a rimproverarlo. Pietro non accetta questa sorte umiliante per Gesù. Anche lui pensa a un Messia trionfatore non a un uomo riprovato dagli altri, che deve soffrire, essere accusalo, maltrattato e ucciso; perciò, non può accettare questa prospettiva.

La reazione di Gesù è decisa e severa. Pietro lo ha rimproverato; ora è lui che rimprovera Pietro e gli dice: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». I pensieri di Dio non sono come quelli degli uomini, come ci dice il profeta Isaia.

Nel caso di Gesù i pensieri di Dio vanno nel senso di dover affrontare una passione dolorosa e umiliante. Ma questa passione avrà effetti molto positivi, di salvezza per lutti gli uomini: effetti che non possono essere ottenuti per mezzo di un trionfo militare, con la forza delle armi. Questo è il progetto di Dio, che era stato già indicato, sia pure non in modo così esplicito, nelle profezie e, in particolare, nei canti del Servo del Signore.

Dopo l'annuncio della passione Gesù dà un insegnamento generale, valido per tutti quelli che vogliono diventare suoi discepoli: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me, rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua». Sono parole molto chiare, che cancellano tutte le illusioni di chi vuoi diventare discepolo del Messia per trionfare con lui e soddisfare le proprie aspirazioni umane spontanee. Gesù dice che bisogna rinnegare se stessi - quindi, rinunciare alle proprie aspirazioni umane di trionfo, successo e dominio, prendere la propria croce eseguirlo.

Poi dà una regola generale: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà». Per capire questo principio importante di Gesù, dobbiamo ricordare che la vocazione dell’essere umano è una vocazione all'amore: Dio, che è amore, ci ha creati per comunicarci il suo amore e renderei capaci di vivere nell'amore. Pertanto, la felicità dell'essere umano non si trova nell'egoismo, ma nell'amore. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde, perché si mette sulla via dell'egoismo, e non può trovare in essa la vera gioia. Invece, chi accetta di perdere la propria vita per causa di Gesù e del suo Vangelo, la salva, perché si mette decisamente sulla via dell'amore: per amore del Signore accetta una sorte difficile, un combattimento duro; accetta di perdere la propria vita per amore, e così raggiunge la gioia perfetta e definitiva.

Dobbiamo tener sempre presente questo insegnamento di Gesù, perché la nostra tendenza spontanea è quella di cercare in maniera immediata la felicità, e quindi di metterei sulla via dell’egoismo, che non conduce alla vera gioia. Dobbiamo accettare sempre di perdere la nostra vita, cioè di rinunciare ai nostri interessi immediati, per cercare il regno di Dio, che è il regno dell' amore, della pace e della gioia.

Il discepolo missionario è quello che per fede, è consapevole di essere chiamato a perdere la propria vita per amore, e così ottenere la vera vita, la vera gioia e la felicità eterna.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

La difficoltà e la resistenza da parte dei discepoli di accettare che la buona notizia, il messaggio di Gesù venga rivolto anche ai pagani viene dall’evangelista Marco narrato in un episodio che ha soltanto lui. È il capitolo settimo, versetti 31-37.

Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Basta guardare una qualunque carta geografica per vedere che è un itinerario assurdo, inverosimile, perché Gesù parte da Tiro, era già andato in terra pagana, va su al nord come possiamo vedere nella cartina geografica, a Sidòne, poi scende per andare al mare di Galilea, ma fa tutto un ampio giro passando per la Decàpoli, cioè le città pagane. Perché questo?

L’evangelista non vuole indicare un itinerario topografico, ma teologico: l’azione di Gesù, quella della buona notizia, abbraccia tutto il mondo pagano ed è qui che incontra la resistenza. In questo episodio l’evangelista, attraverso la figura del sordomuto, rappresenta la resistenza dei discepoli. Sono sordi, non accolgono il messaggio di Gesù e per questo non possono esporlo.

Gli portarono un sordo, non è muto, balbuziente, il riferimento è al profeta Isaia nel capitolo 35 dove si parla dell’esodo, della liberazione, e lo pregarono di imporgli la mano. Ebbene Gesù non impone la mano, la situazione è molto più grave e Gesù agisce quasi con violenza, lo prese in disparte, questa espressione “in disparte” delle sette volte che appare nel vangelo di Marco ben sei riguarda i discepoli. Quindi sotto la figura di questo sordo balbuziente l’evangelista intende rappresentare la resistenza da parte dei suoi discepoli.

Lontano dalle folle gli pose le dita negli orecchi, letteralmente gli infilò, cioè gli sturò le dita negli orecchi. Qui l’evangelista adopera il termine greco “ota” (fonetico) che indica proprio l’organo fisico, e con la saliva, la saliva si riteneva che fosse alito condensato ed era un’immagine dello Spirito, gli toccò la lingua. Guardando quindi verso il cielo, il cielo rappresenta la sfera divina, emise un sospiro, è solo qui nel nuovo testamento che Gesù sospira. È la resistenza, la fatica che Gesù fa per comprendere che il regno di Dio non riconosce confini, non innalza muri, ma apre le porte a tutti quanti.

Egli disse: Effatà. Quando nel vangelo di Marco vengono adoperate parole in aramaico, la lingua parlata a quel tempo, significa che l’episodio riguarda i discepoli di Gesù che erano di questa lingua, cioè, ed è un imperativo, apriti. L’imperativo è rivolto a tutto l’individuo: se era rivolto alle orecchie Gesù avrebbe dovuto dire “apritevi”, invece è l’uomo che si deve aprire completamente E subito, finalmente, gli si aprirono, e qui l’evangelista per orecchi non adopera il termine adoperato prima, ma un altro termine “acuai” (fonetico) che indica l’udito, la comprensione.

Era questo il problema, non era un problema fisico, era un problema di comprensione. Si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente, qui il riferimento è preso dall’evangelista dai capitolo 35 del profeta Isaia dove si parla della liberazione, dell’esodo dalla prigionia. Isaia scrive “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchie dei sordi, allora lo zoppo salterà come un cervo e griderà di gioia la lingua del muto”. Quindi l’evangelista vede nell’azione di Gesù questa liberazione che lui porta.

E comandò loro, a questi portatori, di non dirlo a nessuno, ma più egli lo proibiva più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano, e qui la reazione è strana perché Gesù ha guarito un sordomuto, ma viene estesa a tutti, il plurale indica che riguarda i discepoli, ha fatto bene, il termine “bene” è preso dal libro della Genesi, della creazione, quindi si vede nell’attività di Gesù il prosieguo dell’azione creatrice del Padre, ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti. Quindi l’attività di Gesù è quella di liberare questi discepoli da questi pregiudizi nazionalisti, religiosi, che li chiudevano ai pagani. Ma perché Gesù proibisce? Per evitare un facile entusiasmo, il cammino sarà ancora lungo e Gesù più avanti li dovrà ancora rimproverare dicendo “Avete orecchi e non udite”, il cammino è lungo.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

Dt 4,1-2.6-8; Sal 14; Gc 1,17-18.21b.22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

La liturgia ci propone un insegnamento sulla religione autentica, sul rapporto tra religione e osservanze, tra religione e cuore. La prima lettura è un testo del Deuteronomio in cui Mosè fa l'elogio della legge e chiede che la si metta in pratica. La seconda lettura non parla della legge, ma della parola di Dio: questa parola, seminata in noi, non soltanto dev'essere ascoltata, ma anche messa in pratica; e la religione pura è una religione di amore, di attenzione e di aiuto alle persone bisognose. Nel Vangelo Gesù non parla di legge, ma di osservanze, di tradizioni, e ci dà un insegnamento molto importante.

Ascolta le leggi e le norme affinché le mettiate in pratica

Nella prima lettura ciò che si deve innanzitutto notare è che la legge è un dono di Dio. Per amore del suo popolo Dio gli ha dato una legge, che gli permette di trovare il suo autentico cammino di vita e di raggiungere la felicità. Le parole di Dio sono in primo luogo un dono, perché ci mettono in relazione con lui. Giacomo ci dice che la parola di Dio è anche sorgente di vita: «Dio ci ha generati con una parola di verità» (Gc 1,18). Perciò dobbiamo accogliere la legge di Dio e la parola di Dio con gratitudine e metterle in pratica.

Nell' Antico Testamento si insiste molto sulla necessità di adempiere la legge. Se essa non viene messa in pratica, non serve a nulla. Similmente Gesù nel Vangelo ci dice che chi ascolta la sua parola ma non la mette in pratica è come uno che costruisce la sua casa sulla sabbia, è un uomo stolto. Invece, è saggio colui che ascolta la sua parola e la mette in pratica; costui costruisce la sua casa sulla roccia, e può affrontare tutte le difficoltà della vita, perché la sua casa è ben fondata (cf. MI 7,24-27).Anche Giacomo insiste molto sulla necessità di mettere in pratica la parola di Dio. Dice ai fedeli: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi».

Noi dobbiamo fare un esame di coscienza per vedere come accogliamo la parola di Dio. Se l'ascoltiamo in modo distratto, superficiale, essa non ci servirà molto per la nostra vita. La nostra vita allora non andrà nella direzione giusta, non ci metterà in una relazione profonda con Dio, e anche le nostre relazioni con il prossimo saranno falsate. Dobbiamo invece accogliere la parola di Dio in modo da farla penetrare profondamente in noi e poi metterla in pratica nella vita concreta. I farisei avevano aggiunto molte osservanze alla legge di Mosè.

Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me

Nel brano evangelico di oggi Marco ci dice che essi criticavano i discepoli di Gesù perché alcuni di loro prendevano cibo con mani ritualmente impure, ossia con mani che non erano state lavate. Presso gli ebrei c'era l'usanza di lavarsi le mani prima di mangiare, anche se esse erano pulite; e questa osservanza, per i farisei, doveva essere praticata rigorosamente. Tutti gli ebrei, attenendosi alla tradizione degli antichi, praticavano molte osservanze di questo genere. Davanti a questa situazione, Gesù critica l'insistenza esagerata dei farisei sulle osservanze rituali, come se la cosa più importante nella vita fosse l'osservanza di tutti i precetti di purità legale e rituale. Egli fa notare che scribi e farisei trascurano il comandamento di Dio per osservare la tradizione degli uomini. E in un altro passo dichiara che essi trascurano la giustizia, la misericordia e la fedeltà, cose che sono molto più importanti di tutte le osservanze esterne.

Quando tutta l'attenzione è posta sulle osservanze esterne, è praticamente inevitabile che si pecchi contro la carità, perché si giudicano e si criticano gli altri che non si comportano secondo la tradizione. Invece, occorre osservare la legge nei suoi orientamenti più importanti. La legge di Dio va rispettata, ma dev'essere capita in profondità. Gesù ha dichiarato: «Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento», e ha insistito sulle cose più importanti della legge. Poi Gesù dà un insegnamento che provoca stupore nella gente: Asco1tatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo  che, entrando in lui, possa contaminarlo: sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo. Secondo le tradizioni dei farisei, i cibi ritualmente impuri contaminavano l'uomo; si doveva essere molto attenti a rispettare tutte le regole di purità rituale, per non essere contaminati dai cibi. Per Gesù, invece, non è così; l'impurità più importante non è questa, ma «sono le cose che escono dall'uomo a contaminarlo".

Gesù spiega questa sua affermazione, che a prima vista può sembrare strana, dicendo che il cibo penetra non nel cuore, ma nel ventre e poi viene eliminato, e non contamina l'uomo. Invece, dal cuore degli uomini escono le cose cattive: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi. adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo». La vera impurità è quella del cuore, che provoca i peccati più gravi.

Perciò Gesù esige da noi una religione del cuore, una religione che sia attenta non alla purezza esterna, rituale, ma alla purezza del cuore. Gesù è venuto proprio per renderci possibile questa religione del cuore, che è la religione vera. «Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre - dice Giacomo - è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo.

Il discepolo missionario è quello che desidera di ricevere sempre meglio il Cuore nuovo che Dio ci ha preparato nel mistero pasquale di Cristo; di ricevere lo spirito nuovo, che è lo Spirito stesso di Dio, lo spirito di amore, che il Signore ci Comunica attraverso i sacramenti. È colui che sa vivere non una religione superficiale, fatta di osservanze esterne, ma una religione veramente profonda. Anche la nostra partecipazione alla Messa, se è intesa come un'osservanza esterna, non vale molto davanti a Dio.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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