«A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra». (Mc 4,30-32)
L’Aula Paolo VI in Vaticano come un grande cenacolo. I tavoli rotondi disposti attorno alla Parola e all’icona della Madre, la Salus populi romani che, come a Cana, vigila con premura e discrezione sullo svolgersi del banchetto, custodendo la comunione, la gioia, la festa. Sedute alla mensa della Parola, che risuona nella Scrittura e nella voce dell’altro, oltre 400 persone provenienti dai 5 continenti e dalle più diverse esperienze di Chiesa – cardinali, vescovi, preti, diaconi, consacrati e consacrate, laici e laiche – uniti da ciò che li rende profondamente fratelli e sorelle, al di là di ogni ruolo, titolo, funzione, servizio, responsabilità: il Battesimo, l’immersione in Cristo, la vocazione cristiana!
Ecco l’immagine della prima sessione della XVI Assemblea del Sinodo dei Vescovi, svoltasi dal 4 al 28 ottobre 2023.
È stata una grazia per me potervi prenderne parte. Una grazia del tutto inaspettata, che ho gradualmente colto nella sua dimensione di novità, di benedizione, di luce a mano a mano che i lavori sinodali procedevano. La veglia di preghiera ecumenica “Together”, svoltasi in piazza San Pietro il 30 settembre, le giornate di ritiro a Sacrofano dalla sera del 30 settembre alla sera del 3 ottobre, le celebrazioni eucaristiche nella Basilica di San Pietro all’inizio dell’Assemblea, all’avvio di ogni nuovo modulo tematico e a conclusione dei lavori, la liturgia quotidiana semplice e curata, il clima di preghiera, di rispetto e di accoglienza cordiale, il dialogo ritmato dalla “conversazione nello Spirito”, con i suoi spazi di silenzio, di ascolto riverente dell’altro e di meditazione personale, hanno favorito la conoscenza reciproca, la libertà di espressione, la riflessione e la rielaborazione del proprio vissuto e del proprio pensiero toccato, illuminato e provocato dal vissuto e dal pensiero altrui, consentendo lo svolgersi di un processo di discernimento che ha condotto progressivamente l’Assemblea a individuare convergenze, questioni da affrontare e proposte, approvate a larghissima maggioranza e raccolte nella Relazione di sintesi.
Al di là dei contenuti approvati, offerti a tutto il Popolo di Dio come materiale per continuare il discernimento nel periodo che ci separa dalla seconda sessione dell’Assemblea (Ottobre 2024), il clima umano e spirituale che si è creato fra i partecipanti al Sinodo lungo il mese di lavoro assieme costituisce, già di per sé, un dono straordinario, che merita assolutamente di essere contemplato, ruminato, fatto sedimentare e fruttificare nel cuore di chi lo ha ricevuto e in tutta la Chiesa. La comunione è dono dall’Alto, che chiede umilmente di essere accolto nel terreno del nostro cuore e delle nostre relazioni. Questo dono è sceso. Come un piccolissimo seme. Senza rumore. Come brezza leggera; come rugiada; come luce lunare che rinfresca, unifica e consola, senza abbagliare. Ad un certo punto, ce ne siamo accorti, con commossa sorpresa: il seme era lì, dentro di noi e tra di noi, e si manifestava nei sorrisi sinceri, nelle parole rispettose e vere, nelle caramelle che qualcuno portava e giravano per i tavoli, nel cominciare spontaneamente a chiamarci reciprocamente col nome di Battesimo, lasciando da parte un po' di titoli, funzioni, ruoli, ecc. che magari indicano i diversi e essenziali servizi di ognuno di noi ma non identificano la persona nel suo nucleo più profondo. Battezzati e battezzate in Cristo che si riconoscono, si ascoltano, comunicano e, pur seduti a questa mensa tutta particolare, camminano insieme. Insieme nei gruppi di lavoro (Circoli minori, tecnicamente), diversi per ognuno dei temi che l’Instrumentum laboris proponeva. Insieme in Assemblea plenaria (Congregazione generale, tecnicamente), ascoltano l’apporto di ogni gruppo e quello di chi desiderava condividere con tutti un contributo personale. Insieme con papa Francesco, seduto a uno dei tavoli, durante le Assemblee plenarie, ascoltando, ascoltando, ascoltando… e offrendo in qualche momento la sua parola breve, incisiva, sobria, chiara, incoraggiante. Insieme a tanti fratelli e sorelle nel dolore a causa della guerra, di dinamiche assurde, violente e maligne che cercano in ogni modo di sradicare dai cuori e dalle relazioni i semi del Bene. Li abbiamo portati con noi nella preghiera, nella condivisione e nella solidarietà con i fratelli e le sorelle sinodali che provengono da luoghi e situazioni particolarmente segnate da queste dinamiche di morte. Sappiamo che il piccolo seme del Regno possiede in sé stesso la straordinaria tenacia della resurrezione, la forza mitissima dell’Agnello che attraversa la morte e la vince dal di dentro, l’umile potenza del chicco di grano che caduto in terra e sepolto muore per portare frutto.
Nella pagina conclusiva della Relazione di sintesi della prima sessione, l’Assemblea sinodale così si esprime:
«Per annunciare il Regno, Gesù ha scelto di parlare in parabole. Ha trovato nelle esperienze fondamentali della vita dell’uomo – nei segni della natura, nei gesti del lavoro, nei fatti della quotidianità – le immagini per rivelare il mistero di Dio. Così ci ha detto che il Regno ci trascende, ma non ci è estraneo. O lo vediamo nelle cose del mondo o non lo vedremo mai. In un seme che cade nella terra Gesù ha visto rappresentato il suo destino. Apparentemente un nulla destinato a marcire, eppure abitato da un dinamismo di vita inarrestabile, imprevedibile, pasquale. Un dinamismo destinato a dare vita, a diventare pane per molti. Destinato a diventare Eucaristia.
Oggi, in una cultura della lotta per la supremazia e dell’ossessione per la visibilità, la Chiesa è chiamata a ripetere le parole di Gesù, a farle rivivere in tutta la loro forza.
“A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio, o con quale parabola possiamo descriverlo?”. Questa domanda del Signore illumina il lavoro che ora ci aspetta. Non si tratta di disperdersi su molti fronti, inseguendo una logica efficientistica e procedurale. Si tratta piuttosto di cogliere, tra le molte parole e proposte di questa Relazione, ciò che si presenta come un seme piccolo, ma carico di futuro, e immaginare come consegnarlo alla terra che lo farà maturare per la vita di molti» (XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, I Sessione, Relazione di Sintesi, Vaticano 28 ottobre 2023, p. 36).
Dunque, buon lavoro a tutti e a tutte! Alla ricerca del piccolo seme non solo nel lavoro sinodale che ci viene restituito, ma anche dentro di noi, nell’altro, nella comunità, nella Chiesa, nei popoli, nel mondo, per consegnarlo alla terra feconda della nostra umanità e lasciare che Dio lo faccia crescere, albero ospitale per «tutti, tutti, tutti»! (Papa Francesco, Discorso in occasione della XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù, Lisbona 03 agosto 2023)
* Suor Simona, che è stata Superiora Generale delle Missionarie della Consolata, dal 7 ottobre 2023 è segretario del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
P. Ashenafi Yonas Abebe è arrivato in Polonia nel primo gruppo di missionari della Consolata che hanno raggiunto questo paese. La nostra presenza, decisa nel capitolo del 2005, è iniziata nel 2008, con tre missionari, accompagnati inizialmente dalla Direzione Generale, che hanno dovuto avvicinarsi a una cultura, una lingua lontane da quelle dei loro paesi di origine e i paesi in cui si sono formati. Padre Ashenafi era uno di loro.
Originario dell’Etiopia y formato negli ultimi anni della teologia in Colombia, appena ordinato ha accettato la sfida di una missione nuova e così impegnativa. In quella c’è stato quindici anni vivendo le incertezze, i discernimenti, le riflessioni, le scelte che hanno accompagnato il sorgere della comunità dei Missionari della Consolata in quel paese europeo. Oggi una presenza missionaria e significativa per tutti noi. L’abbiamo sentito nella comunità di Roma dove è giunto pochi mesi fa per studiare Storia della Chiesa e prepararsi ad un altro servizio per l’Istituto.
La decisione di aprire in Polonia è stata presa dal capitolo del 2005 e si è cominciato con un gruppo di tre missionari, fra i quali c’ero anch’io, che si è recato in quel paese alla fine del 2008. La data dell’apertura forse non è stata la più fortunata. Sono nato in Etiopia e mi sono formato nell’ultima tappa della mia vita come seminarista in Colombia, quindi al caldo, in paesi abitati da gente solare, come il loro clima. Dalla mattina alla sera siamo “atterrati” in un contesto che non poteva essere più diverso. Per trovare la gente bisognava scavare sotto cappotti, sciarpe e berretti che lasciavano intravedere solo gli occhi che, per motivo della loro storia, guardavano sempre con sospetto tutti gli stranieri.
È tragica la storia di questa nazione. Convertita al cristianesimo già nel decimo secolo ha fatto sempre da cuscinetto fra due grandi nazioni con antiche tradizioni imperialiste: la nazione tedesca e quella Russia. Imperi che si sono fronteggiati e spesso si sono anche spartiti il territorio della Polonia. Dal 1795, i tempi della rivoluzione francese, fino alla fine della prima guerra mondiale letteralmente sparì dalla carta geografica divisa fra Russia, Prussia e Impero Austro Ungarico. La sua essenza così radicalmente cattolica ha permesso in qualche modo preservare la cultura e le tradizioni indenni dalle contaminazioni dei paesi occupanti di religione ortodossa e protestante. Precisamente per questo motivo la chiesa in Polonia ha una consistenza che non si trova in altre regioni dell’Europa e, può sembrare strano ma è vero, anche i risultati delle ultime votazioni fanno vedere i segni dell’antica spartizione, si vota in modo diverso nelle diverse regioni.
Il gelo che abbiamo percepito nei primi giorni poi poco a poco si è sciolto e al suo posto abbiamo scoperto gesti sorprendenti si solidarietà e vicinanza: famiglie che si facevano in quattro per aiutare, che prestavano la macchina perché noi non l’avevamo, che cominciavano a frequentare anche la nostra cappella, anche quella provvisoria che abbiamo avuto in una tenda che in inverno andava abbondantemente sotto zero... noi chiusi in casa per non congelarci e loro là che recitavano con devozione il santo rosario davanti all’immagine della nostra Consolata.
Dobbiamo evidentemente ringraziare i Missionari Comboniani che ci hanno accolto nella loro casa quasi due anni, mentre facevamo i primi passi impegnativi e difficili anche a causa di una lingua niente affatto facile. Ma poi poco a poco abbiamo cominciato ad aprirci spazio soprattutto nel mondo giovanile che, a differenza di quel che succede in altri paesi, vive e anche cerca una spiritualità profonda e spesso esigente. Con loro bisognava preparasi bene, la nostra prima attività “aperta al pubblico” è stata la Lectio Divina e partecipazione annuale al pellegrinaggio Mariano a Czestochowa. Ne venivano tanti ma se non ti preparavi come dovuto non tornavano più.
I giovani, sotto tanti punti di vista, sono stati l’attrattivo di questo paese. Bisogna ricordare che fino alla caduta della cortina di ferro (1989) nessuno poteva uscire dalla Polonia e quasi nessuno poteva avere il passaporto... solo i rappresentati del Partito Comunista e le persone in diverso modo legate ad alcuni incarichi nella Chiesa che di fatto hanno contribuito in modo importante al cambio accelerato che è venuto a continuazione, Giovanni Paolo II ne è l’esempio lampante. È arrivato il tempo della democrazia, è arrivato l’ingresso all’Unione Europea e sono stati soprattutto loro, i giovani, quelli che poi sono usciti, hanno fatto fortuna a volte, hanno riportato in patria capitale ed idee... stanno oggi cambiando il paese.
Di giovani ne abbiamo avuti quando ci siamo avvicinati alle parrocchie dove tradizionalmente si celebrano alcuni giorni di esercizi spirituali durante l’avvento e la quaresima una volta all’anno; quando abbiamo aperto la nostra tenda e poi la nostra cappella per le celebrazioni liturgiche; quando siamo stati accolti nelle scuole per raccontare la nostra vita e la nostra missione; quando –questa è stata la mia esperienza personale– sono diventato professore nell’università, insegnante di tradizioni, religione e culture africane preso la Facoltà Orientale della Università di Varsavia; quando ci siamo fatto presenti e abbiamo accompagnato i loro tradizionali pellegrinaggi... che si fanno non con i mezzi di trasporto ma a piedi, macinando chilometri; quando abbiamo offerto loro anche la possibilità di aprirsi a esperienze di volontariato missionario internazionale. Oggi i giovani stanno comunque cambiando: evidentemente sono diventati più europei e simili ai loro coetanei degli altri paesi del continente. Hanno assunto ideali nuovi, vivono sogni davvero diversi da quelli dei loro genitori, si mantengono ancora attaccati alla loro chiesa ma con atteggiamenti più critici, almeno si lasciano interrogare dalla nostra esperienza missionaria e dal nostro modo di essere chiesa, così diverso dal loro e da quello che hanno sempre vissuto.
Noi Missionari della Consolata cosa possiamo portare a questo paese e a questa chiesa così solida, consistente e sotto tanti punti di vista abituata o incluso obbligata ad essere autosufficiente? La risposta è una sola, noi stessi, la nostra ricchezza, la missione.
Di missione parliamo o cerchiamo di parlare tutto il tempo, ci siamo anche avvicinati e facciamo parte delle Pontificie Opere Missionarie e quella collaborazione aiuta non poco la nostra visibilità. Il lavoro è tanto: c’è da scalfire l’idea che la missione sia semplicemente la Giornata Missionaria Mondiale per mezzo della quale si collabora con le chiese lontane delle quali non si sa quasi niente ma che in qualche modo hanno bisogno del nostro aiuto; c’è da cambiare la percezione di cosa sia la chiesa che in Polonia per motivi storici è legata a doppio filo con la nazionalità polacca; dobbiamo anche “vendere” una immagine nuova dello stesso ministero sacerdotale così legato in Polonia a tradizioni sacrosante e così sacralizzato da riti, ruoli e perfino talari.
In questo ci hanno aiutato anche i seminaristi di Roma... loro stanno cominciando ad andare là per esperienze e studi. Anche la loro presenza aiuta ad aprire gli occhi ed aprire il cuore verso una chiesa che non è polacca, ma è cattolica e universale.
Questa missionarietà che vogliamo insegnare, evidentemente, la dobbiamo in qualche modo vivere noi stessi. Per quello abbiamo sempre preso l’occasione che ci è stata offerta di visitare e intervenire anche in chiese limitrofi: nei tre paesi baltici, in Bielorussia e anche in Ucraina. A motivo della guerra, che in Polonia risveglia spettri che non si vogliono affatto ricordare, abbiamo collaborato con la straordinaria solidarietà che ha accolto migliaia di profughi e ha portato conforto a tanti che sono rimasti nel paese sotto il fuoco nemico. Attualmente l’Istituto Missioni Consolata è ancora particolarmente coinvolto con la situazione dell’Ucraina e continua la sua missione di consolazione e aiuto materiale con i missionari presenti in Polonia. Sono due le comunità presenti in Polonia: una a Kielpin vicino a Varsavia e l’altra a Bialystok nei pressi della frontiera con la Bielorussia. I missionari presenti in questo momento sono sei e, curiosamente, di sei paesi diversi: Italia, Kenia, Mozambique, Congo, Argentina e Tanzania. Anche questa è una grande ricchezza che possiamo offrire per una chiesa locale che ha bisogno di far crescere al suo interno la dimensione missionaria della chiesa universale.
Gli sguardi hanno un potere immenso nel rivelare ciò che le parole non possono esprimere. Questi sguardi, carichi di stupore, curiosità e autenticità, mi mostrano che in questo angolo del mondo, la connessione umana si forgia attraverso gli occhi, un linguaggio universale profondo e misterioso.
Appena arrivato in Africa, sono andato a visitare i giovani italiani che ho accompagnato nella loro formazione e preparazione per la loro esperienza nel continente. Erano già stati diverse settimane nel paese, quindi li ho visitati presso il "Centro Cottolengo", un luogo specializzato per bambini orfani affetti da HIV/AIDS. Tra abbracci, risate e sorprese, mi hanno mostrato il luogo. Dopo aver salutato i bambini e osservato le attività che stavano svolgendo, ho chiesto a alcuni di loro cosa li avesse colpiti di più fino a quel momento. Molti di loro hanno risposto cosí: "il modo in cui le persone, soprattutto i bambini, ti guardano; i loro sguardi hanno uno splendore speciale".
Credo che chiunque abbia avuto l'opportunità di trovarsi in missione si sia imbattuto in uno sguardo affascinante. È difficile spiegare come ti guardino: sono sgardi di stupore, curiosità o novità, ma è certo che ti guardano direttamente negli occhi. È uno sguardo che parla, comunica, trasmette, confonde. Mille pensieri attraversano la tua mente, non puoi tradurre quell'occhiata in parole ma resta impressa nella tua mente e nel tuo cuore. Dietro ogni sguardo, c'è una storia da raccontare. Sono testimonianze silenziose di vite, piene di passione, gioia, tristezza e speranza.
Oggi, nei nostri paesi e nelle grandi città, abbiamo perso la capacità di guardarci negli occhi, qualcosa che un tempo era essenziale per l'umanità. Nella comunicazione digitale, non abbiamo nessuno di fronte a noi; assumiamo una realtà incorporea. Sempre più spesso ci immergiamo in queste rappresentazioni virtuali. Gli sguardi vengono sostituiti da emoticon e GIF, e le parole scritte rimpiazzano l'intonazione della voce e i gesti espressivi. Tra avatar e filtri, costruiamo la nostra quotidianità.
È vero che la comunicazione digitale ci offre vicinanza e la possibilità di creare reti e condividere idee, il che è qualcosa di magico. È diventata parte fondamentale della nostra vita, specialmente per coloro che sono lontani da casa. Tuttavia, cela un potere silenzioso che tutti utilizziamo; il controllo delle nostre interazioni. Oggi dobbiamo chiedere il permesso per chiamare le persone e allontanarsi dal mondo è diventata una possibilità. Possiamo rispondere ai messaggi quando vogliamo, attivare filtri per i commenti, silenziare i profili e creare liste esclusive, ci immergiamo nella dinamica di accettare o rifiutare, cosa che non accade nella presenza fisica, anche se le tecnologie ci offrono la comodità della comunicazione in qualsiasi momento e luogo, spesso sacrificando la nostra capacità di guardare nel mondo reale.
È difficile tornare indietro nel tempo, poiché non possiamo immaginare una vita senza internet. Allo stesso tempo, sentiamo il bisogno di guardarci, non attraverso uno schermo, ma di persona. Cercando quegli sguardi che creano legami, complicazioni che scatenano amori, quegli sguardi che stabiliscono una connessione unica, una danza invisibile e fugace, sguardi che ispirano, suscitano empatia e ci ricordano che, nonostante le nostre differenze, condividiamo tutti la stessa umanità.
Imparare a guardare senza pregiudizi né supremazie è la grande sfida che l'umanità affronta. Oggi, l'Africa mi invita a imparare di nuovo a guardare, a continuare ad ampliare i miei orizzonti, questa volta non guardando il mare ma contemplando e camminando nella savana africana, con curiosità, stupore e ammirazione, sono le qualità di questi sguardi. È nel percorso che imparo a guardare con il cuore, come diceva la volpe al Piccolo Principe: "Si vede bene solo con il cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi".
"Che queste fotografie ti ispirino a coltivare il tuo sguardo, trovando in esse l'autenticità in ogni espressione e scoprendo la ricchezza della connessione umana nel mondo che ti circonda."
* Francisco è laico Missionario della Consolata in Kenya
La esperienza di Elide Ambrosetti, una giovane donna arrivata in Tanzania quasi per caso, ma che oggi vive con la “Tanzania nel cuore”.
Cosa mi ha fatto partire? Penso sia la bellezza del donarsi all'altro, ho sempre cercato di farlo nel mio piccolo, in tutta la mia vita, perché credo sia la cosa che rende più felici. In famiglia ho avuto tanti esempi al riguardo: mia madre, mio nonno, mio padre, mio fratello... abbiamo sempre cercato, forse sempre abbastanza istintivamente, di seguire questo valore cristiano.
Subito dopo il liceo ho iniziato a fare volontariato e proprio in una di queste esperienze, allora stavamo andando in Bosnia dilaniata dalla guerra, ho conosciuto Alessandro, un amico che apparteneva ad una associazione di Santa Marinella che si chiama "Venite e Vedrete" e che organizza dei viaggi missionari di un mese in Tanzania in cui si vivevano diverse missioni in giro per la nazione.
Tra di loro c'era anche il "Consolata Hospital" di Ikonda. La volta che ci andai, nel luglio del 2016, lo visitammo in una sola giornata ma sufficiente per vedere quel che succedeva e si faceva lì. Io avevo iniziato il percorso di studi di infermieristica e quando mi sono laureata ho chiesto al presidente dell'Associazione di mettermi in contatto con gli amministratori del "Consolata Hospital".
Ho cominciato allora un primo anno di volontariato, che poi sono diventati due e così fino ad oggi. Mi sono convinta che ne valeva la pena e tutto quello che ho sentito, l'amore che ho respirato, la vita semplice che ho vissuto, mi ha fatto davvero felice. Riuscivo a mettere assieme lavoro e servizio al prossimo: non avrei mai potuto chiedere di meglio.
Che cosa volevo portare imbarcandomi in questa esperienza? Nel mio non era una cosa inizialmente complicata... portavo me stessa e le mie competenze professionali, cercavo di rendermi disponibile a tutte le esigenze della comunità. Oggi, con altri volontari, abbiamo formato un’associazione che si chiama “Tanzania nel Cuore” e siamo riusciti a realizzare diversi progetti mirati a rispondere a situazioni concrete. Per Ikonda siamo riusciti a raccogliere i fondi necessari per acquistare un nuovo apparecchio radiologico; attrezzi per rinnovare il servizio di fisioterapia; apparecchi elettromedicali per migliorare l'assistenza in sala operatoria e terapia intensiva.
Lo scopo è quello di collaborare con lo staff locale affinché ogni decisione sia finalizzata alle necessità dell'ospedale.
Ad ogni modo penso che sia di più quello che mi sono portata a casa... forse la prima cosa che mi son portata a casa è stata “un’altra casa” perché quello è per me la missione e l’ospedale di Ikonda con le persone che ci vivono e ci lavorano. Sono diventati la mia famiglia. Adesso sono in Italia ma a fine settembre si torna in Tanzania.
Ho tutta l’intenzione di continuare ad aiutare questa missione che i Missionari della Consolata hanno costruito: veramente è un piccolo miracolo che garantisce una migliore qualità di vita delle persone che abitano in quella regione.
“Grande Cuore”, questo il nome dato dai Samburu del Kenya a Mirella Menin, la laica missionaria di Collegno (Torino) che tanti abbiamo conosciuto nei suoi viaggi in Kenya per oltre quarant’anni e per il suo infaticabile lavoro e dedizione per aiutare i più poveri ed i bambini in particolare. Il Signore l’ha chiamata a sé il 29 maggio 2023 in modo inaspettato, ma per il Signore, certamente pronta per l’incontro con Lui.
La sua vita è stata un vulcano di iniziative, attività, incontri, viaggi. Tutto fatto con passione, dedizione missionaria e spirito profetico. Oltre all’esperienza del Kenya anche quella in Nicaragua negli anni in cui era vescovo San Oscar Romero che lei accompagnava nei villaggi dei campesinos e che ha visto morire, ucciso, mentre celebrava l’Eucarestia. La sua presenza nella nostra antica casa per gli anziani di Alpignano dove veniva per incontrare i missionari e condividere ciò che gli veniva dalla provvidenza.
Mirella tante volte era scomoda perché diceva la verità senza mezze misure, con coraggio, aveva “fame e sete di giustizia” come hanno voluto scrivere sul suo ricordino e ricordare al suo funerale.
Nel Rosario che si è pregato nella sua parrocchia di Collegno, la sera prima del funerale, il parroco, don Teresio Scuccimarra, ha voluto pregare quattro misteri e momenti evangelici vedendone la realizzazione nella vita di Mirella: il suo amore ai bambini, la cura e assistenza delle persone con handicap psichici, il suo desiderio di giustizia ricordando la sua esperienza in Nicaragua e la dedicazione alla sua comunità.
Mirella, nel suo “darsi da fare” per la missione, ha raccolto e donato molto. Come dice l’Allamano è stata un canale che ha fatto sempre scorrere ciò che riceveva senza trattenere nulla per sé, vivendo la sua vita nella semplicità ed essenzialità. Ha compiuto le “opere più grandi” (Gv 14,12) che Gesù ha promesso ai suoi discepoli perché era anche una donna di fede, una fede non bigotta, ma tenace e concreta. La fede che sa vedere Gesù in ogni persona, che ha compreso e vissuto il “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Per tutto questo, e per quello che lei è stata, gli siamo grati completando queste note con due testimonianze significative che sono state lette al suo funerale e che riportiamo: quella di Agata Lekimenko di Mararal Samburu (Kenya) e quella di Mons. Virgilio Pante, vescovo di Maralal.
È con profondo dolore e tristezza che abbiamo appreso la notizia della scomparsa della nostra grande amica e madre.
Per noi Mirella è stata come una madre amorevole, ha condiviso con noi tutta la sua vita qui a Samburu, in Kenya. Ha condiviso soldi, tempo, vestiti, prodotti di igiene personali.
Molti hanno potuto studiare grazie al suo sostegno economico che proveniva dal suo grande cuore di condivisione. Si occupava delle spese ospedaliere ed era sempre preoccupata per il benessere delle persone bisognose.
Ha sostenuto oltre 250 bambini che ora hanno innalzato il tenore di vita delle loro famiglie. Alcuni ora sono insegnanti, dottori, meccanici, falegnami ecc. Ha anche dato potere finanziario ai loro genitori che sono diventati uomini e donne d'affari.
Mirella ha davvero toccato vite e le sue azioni si vedranno per sempre nelle nostre comunità. Mirella è stata mandata dal cielo e nessuna parola può descrivere appieno il suo amore per l'umanità.
Nonostante le condizioni molto dure, il suo grande cuore compassionevole la faceva camminare instancabilmente per visitare i malati, gli anziani e le persone meno fortunate e i bambini nei villaggi e nelle scuole.
Le piaceva passare il tempo con i bambini, giocare e scattare foto insieme con loro. Mirella era una specie di figura che senti di volere sempre vicino.
Abbiamo davvero visto come Dio usa le persone per aiutare gli altri, Mirella era davvero una serva di Dio.
Grande Cuore, Riposa in Pace.
Ci mancherai senza dubbio. Mentre riposi, prega per noi di emulare il tuo cuore di donazione e condivisione in modo che possiamo anche aiutare gli altri, nel modo in cui hai amato.
Mirella, che io chiamavo Mirellona, è entrata nella mia vita una quarantina di anni fa, durante i suoi viaggi in Kenya. Un dono di Dio per me e per tanti altri, specialmente i più poveri della società. Aveva un cuore grande e anche una lingua grande, sempre al servizio degli ultimi.
Per me prete missionario e poi vescovo, era una sfida e una voce profetica, molto scomoda. Sia in America Latina che in Africa ha mandato milioni, per sfamare e per far studiare i non avvantaggiati del mondo.
Sapeva anche essere affettuosa, sotto una scorza dura, e si commuoveva per i piccoli, i disabili mentali (ne sanno qualcosa quelli della casa di Collegno che ha servito con amore per tanti anni).
Mirella non sapeva misurare le parole contro le ingiustizie e le falsità nella società e, talvolta, nella chiesa stessa.
Ciao Mirellona! Grazie di avermi incontrato nella vita. Ci ritroveremo in Paradiso circondati dal sorriso dei piccoli.