La parrocchia di San Giovanni Battista, a Mauá (San Paolo) aveva una veste davvero festosa la mattina del cinque novembre con l'ordinazione sacerdotale di un figlio di questa terra, il missionario della Consolata Thiago Jacinto da Silva.

"È la realizzazione di un sogno. Un sogno di Dio che, insieme al mio e a quello di molti altri, si realizza oggi", ha espresso il neo sacerdote Thiago, che ha dichiarato di voler "rimanere unito all’amore di Dio e fare sempre la sua volontà". Nei prossimi mesi, il neo sacerdote sarà inviato al suo primo incarico missionario, che sarà a Taiwan, nel continente asiatico.

Pedro Carlos Cipollini, vescovo di Santo André, e ha potuto comprovare la partecipazione di decine di sacerdoti diocesani e religiosi, oltre che di parenti, amici, religiosi e laici provenienti dalla regione di San Paolo, Curitiba, Argentina e persino dal Kenya.

Scelto, unto e inviato

Nella sua omelia, il vescovo Pedro ha ricordato che il sì del nuovo sacerdote è una risposta all'amore di Dio che sceglie, unge e invia. "Tu, Thiago, sei stato scelto, unto e inviato in missione da Gesù Cristo, attraverso la Chiesa. Ricordiamo che la missione deve essere esercitata alla maniera di Gesù, il servo di Yahweh, verso le "periferie esistenziali", come esorta Papa Francesco: andare non nei discorsi, ma nella pratica".

Sottolineando l'esempio del Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il Vescovo ha invitato padre Thiago a sperimentare la "gioia di essere salvati" e a desiderare di comunicare questa salvezza a tutti i popoli, cercando sempre di essere "prima santi, poi missionari". "Diventa allora un continuatore del suo carisma di missionario, apostolo della missione, un uomo inquieto e resistente, che si è fatto tutto a tutti, obbediente e caritatevole, avendo sempre presenti i servizi di cui la missione ha bisogno”.

Seguendo l'esempio di Gesù, il Buon Pastore, che ha vissuto l'amore e il servizio, lancia questa sfida per la vita del nuovo sacerdote: "servire è la parola-chiave che apre al sacerdote le porte della pastorale".

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Breve Biografia

Il nuovo sacerdote Thiago Jacinto da Silva IMC è nato l'8 settembre 1993 a Santo André - SP, Brasile. È figlio di José Lourival da Silva e Eunice Jacinto da Silva e fratello di Yasmim. Ha sempre partecipato attivamente alla vita della parrocchia di São João Batista a Mauá-SP.

Nel 2010 ha iniziato il discernimento vocazionale con i Missionari della Consolata e ha svolto la formazione iniziale a Curitiba-PR, nell'anno Propedeutico e studiando Filosofia. Nel 2016 ha vissuto l'anno di noviziato a Martín Coronado, Buenos Aires (Argentina), dove ha professato i primi voti come Missionario della Consolata il 29 dicembre dello stesso anno.

È stato inviato in Kenya per studiare teologia a Nairobi dal 2017 al 2021. e ha svolto per un anno di servizio missionario a Wamba, nel nord del Paese, presso l'etnia Samburu. Nei prossimi mesi il neo sacerdote partirà per l'Italia, dove si preparerà per essere inviato al suo primo incarico missionario, che sarà Taiwan, nel continente asiatico.

* Padre Julio Caldeira è missionario della Consolata e coordinatore della comunicazione della Rete Ecclesiale Panamazzonica (Repam).

Partecipando al VII Simposio di Teologia india in Panama, dal 3 all'8 ottobre, padre Vilson Jochem ha rilasciato un'intervista esclusiva alla rivista Missões, parlando del lavoro con le popolazioni indigene e delle sfide della missione.

Padre Wilson, raccontaci la tua vocazione

Sono Vilson Jochem, sono nato in una famiglia di agricoltori nel comune di Atalanta, nell'interno dello Stato di Santa Catarina, in Brasile.

Quando parlo della mia vocazione, potrei dire, come San Paolo, che il Signore mi ha chiamato “fin dal grembo di mia madre”. Dico questo perché, dopo aver festeggiato i dieci anni di ordinazione, mia madre ha raccontato che quando era incinta di me, nelle sue preghiere chiedeva che se avesse avuto un figlio maschio sarebbe diventato sacerdote e la stessa richiesta l'ha fatta il giorno del mio battesimo.

Così che quando a scuola mi chiedevano cosa volessi fare da grande, la risposta normale era che sarei stato un sacerdote. In realtà quando avevo 13 o 14 anni ho cominciato a pensare di nuovo a questa possibilità: fu allora che cominciai a dire ai miei genitori che volevo andare in seminario.

E perché con i Missionari della Consolata?

Tutto indicava che sarei andato con i Francescani Minori, che erano quelli che lavoravano nella mia parrocchia. Eppure nel 1986 padre Dante Possamai passò dal collegio dove studiavo, parlando delle Missioni e chiedendo se qualcuno voleva essere missionario.

Ricordo bene quando dissi a mia madre: "per fare il prete non è importante il dove", decisi di scrivere a padre Dante e iniziai questo cammino vocazionale. Dio sa come fare le sue cose.

Raccontaci della tua formazione

Sono entrato nel seminario minore nel 1987. Nel 1990 ho cominciato gli studi di Filosofia; nel 1993 ho fatto l’anno di noviziato a Bucaramanga (Colombia) e il 9 gennaio 1994 ho emesso la prima professione religiosa. Dal 1994 al 1999 ho frequentato i corsi di Teologia a Bogotá, prima la teologia di base e poi anche una specializzazione.

Il giorno della mia ordinazione è stato il 30 ottobre 1999 ad Atalanta, la mia città natale, quindi quest'anno compio 23 anni di sacerdozio.

Il mio primo incarico è stato il Venezuela dove mi trovo attualmente. Nei primi anni ho lavorato nell'animazione missionaria e vocazionale; il lavoro con i giovani è stato un'esperienza bellissima e ho imparato tanto. Ho svolto questo incarico fino al 2005.

Dal 2005 al 2018 ho lavorato con gli indigeni Warao nello Stato di Delta Amacuro. Dal 2018 al 2021 sono stato in amministrazione e dal 2021 sono tornato a lavorare con gli indigeni Warao, dove mi trovo attualmente.

Quali li sfide più importanti, e quali le maggiori soddisfazioni?

Le sfide incontrate in questi anni di vita missionaria sono state molte. Dal punto di vista dell'animazione missionaria e vocazionale posso dire che la principale è stata quella di sapere capire e camminare al ritmo dei giovani, sperimentando la loro stessa realtà per poterli accompagnare nei loro desideri e preoccupazioni. 

Se siamo disposti a stare loro vicini possiamo anche provocare il loro impegno. Un elemento davvero gratificante è stata la "Caminada Juvenil Misionera", un'attività che abbiamo iniziato nel mese di ottobre 2003 per celebrare il mese missionario in modo diverso, camminando e riflettendo sulla realtà missionaria della Chiesa.

Il lavoro con le popolazioni indigene Warao è stato fonte di molte più sfide. Entrare in un'altra cultura significava imparare a vivere la vita e anche la fede in modo diverso e con ritmi diversi. Quelle che erano le mie priorità non sempre erano le loro; si trattava di un altro modo di vivere e di fare le cose.

Poi bisognava imparare a muoversi sui fiumi e in qualche occasione, come Pietro, mi son trovato a dire: "Aiuto, Signore, stiamo per affondare". Con il passare del tempo è stata un'esperienza di grande ricchezza e mi ha reso una persona migliore.

Ricordo alcune frasi: "Padre devi imparare ad amare questo popolo, con i suoi difetti, per scoprire le sue tante virtù". 

Da gioia scoprire l'affetto che le comunità hanno per noi, vedere la disponibilità e l'entusiasmo che provano per le nostre visite periodiche. Dicevano: "Abbiate pazienza, aspettate almeno dieci anni e comincerete a capire; siete i nostri sacerdoti, faremo un cammino insieme, uniti alla comunità".

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Il lavoro pastorale con le popolazioni indigene è una delle priorità dei Missionari della Consolata in America. Che bilancio fai di questo lavoro?

Il primo elemento è la presenza, il sapere stare in mezzo ai popoli nativi. Questa presenza richiede anche permanenza, non basta andare per qualche anno.

Seguendo la metodologia dei nostri stessi primi missionari, così come la ricordiamo anche nella Conferenze di Muranga, si tratta di conoscere la cultura, la lingua e la cosmovisione di ogni popolo. È necessario entrare nel loro mondo, perché siamo noi che andiamo da loro per imparare a stare con loro, valorizzando la ricchezza del loro vivere comunitario: solo in quel contesto potremo proporre in modo opportuno il vangelo di Gesù.

Cerchiamo sempre di incoraggiare i popoli indigeni a essere sempre più protagonisti della loro storia, e anche a scoprire la presenza di Dio nel loro passato e nel loro presente.

Un altro elemento indispensabile è quello di valorizzare all'interno della Chiesa e della società la saggezza e il contributo dei popoli originari per un mondo più umano, capace di rispettare il rapporto con gli altri e con la natura. Creare quell’armonia con l'ambiente che permette la continuità della vita.

Una grande richiesta che riceviamo dai popoli indigeni è che nelle case di formazione si lavori e si studi anche la teologia india, in modo che non sia conosciuta solo da alcuni addetti ai lavori ma da tutti coloro che un giorno potranno lavorare con loro. 

Evidentemente dovrà arrivare il giorno in cui loro stessi sapranno elaborare la loro propria teologia, con metodologia e contenuti propri, non necessariamente ereditati dalla razionalità occidentale. Non è un percorso semplice né corto, il Consiglio Episcopale Latinoamericano sta cercando di favorirlo.

Le sfide di essere missionario oggi

Essere missionari oggi comporta come prima sfida quella di aprire la mente e il cuore alla cultura in cui siamo inseriti. È un processo piuttosto arduo, perché richiede di aprire la mente al nuovo e mettere in secondo piano la propria cultura, il proprio modo di pensare, per essere disposti a iniziare un nuovo processo di apprendimento. La Chiesa oggi ci chiede di saper camminare con le comunità e i popoli, non come padroni ma come compagni, come fratelli e sorelle. "Mi sono fatto Giudeo con i Giudei... Greco con i Greci, schiavo con gli schiavi... Mi sono fatto tutto come tutti gli altri per conquistare alcuni a Cristo". (1 Cor 9,20-23)

*Maria Emerenciana Raia è redattrice della rivista Missões da dove è tratta questa intervista

Nello stato brasiliano del Maranhão noi missionari possiamo testimoniare l’esperienza di una comunità che ha combattuto per ben quindici anni una lunga battaglia legale contro una impresa mineraria, la Vale, una delle più grandi del Brasile, che sfruttava un immenso giacimento di ferro e aveva costruito un complesso siderurgico quasi sulla loro porta di casa senza che nessuno fosse consultato.

Per capire gli interessi che c’erano in gioco è sufficiente dire che ogni giorno passava, sulla testa della nostra gente che viveva con 5 dollari al giorno, l’equivalente di 60 milioni di dollari di minerale.

Quando noi missionari comboniani siamo arrivati, l’impresa siderurgiche era li da più di vent’anni; la foresta era scomparsa; perfino il clima era cambiato e la stagione delle piogge si era ridotta di un mese; molte persone si ammalavano e tante sono morte. Eppure abbiamo trovato delle comunità che stavano strenuamente opponendosi a questa situazione e sono stati loro a coinvolgerci nella battaglia che stavano combattendo. Dicevano: “senza di voi non ce la facciamo, ma se creiamo una alleanza forte riusciremo a  prevalere”. 

Mi ha sempre impressionato tantissimo la forza morale, la resistenza e la tenacia di questa gente: è stata una lotta sproporzionata, ci sono voluti 15 anni, ma alla fine hanno costretto imprese e governo ad abbassare la testa davanti alla resistenza, l’orgoglio e la dignità di queste persone. Hanno ottenuto una nuova terra nella quale costruire le loro case; le alleanze costruite in modo parsimonioso hanno prodotto frutti; è stata costruita una città totalmente nuova, pulita e sicura. 

Si è lavorato a una riparazione integrale che ha tenuto presente l’onore della memoria, niente di quel che è successo deve essere dimenticato, nessuna vittima può finire nell’oblio; questa riparazione ha permesso condizioni di vita adeguate per le generazioni che verranno e la comunità non si è mai divisa; hanno costruito le loro case e il loro futuro secondo i loro propri criteri. In un processo di riparazione integrale i poveri smettono di essere semplicemente beneficiari e diventano protagonisti.

Quella è stata una gran bella vittoria ma siamo ancora lontani dalla fine della guerra perché dietro abbiamo un sistema economico fallimentare ma che ci resistiamo a cambiare. Il modello fatto di estrazione, consumo e scarto può continuare a funzionare se si sono in tanti angoli del mondo “zone di sacrificio” come quella che vi ho descritto. I danni ambientali sono irreversibili e l’estrattivismo non offre una seconde opportunità: tutto è irrimediabilmente bruciato e distrutto. Le regioni più ricche in beni comuni (che le imprese chiamano risorse) sono anche le regioni più tormentate dalla guerra, dalla violenza, dall’impoverimento e anche dalla malattia. In questa contraddizione mondiale c’è di mezzo il sistema finanziario che è quello che alimenta il tutto: l’impresa Vale per esempio non porta il suo minerale direttamente in Cina, dove è consumato; prima lo vende in Svizzera, dove paga meno tasse che in Brasile, con un risparmio grandissimo, un mancato e sostanzioso ingresso per il popolo brasiliano. 

Oggi l’Amazzonia è quasi arrivata a un punto di non ritorno. Gli scienziati calcolano che quando il disboscamento arriverà al 25% del territorio si innescherà un processo di savanizzazione; il bosco tropicale non sarà più in grado di rigenerarsi con quei cicli ecologici complessi che hanno fatto di questa regione la più biodiversa del pianeta, una ricchezza che, tra l’altro, conosciamo ancora abbastanza poco. 

Per questo il modello estrattivista così come la conosciamo non ha più senso, non è più sostenibile. Il messaggio di Papa Francesco nella Laudato si’, nel sinodo dell’Amazzonia, nella Fratelli Tutti è stato per noi una benedizione. Dietro questi interventi magistrali c’è una grande intuizione spirituale: cominciamo a capire che non siamo il centro della storia, che siamo stati creati assieme e quindi siamo davvero tutti fratelli e sorelle in un senso particolarmente universale. Grazie a questo deve cambiare tutto il nostro modo di pensare, di costruire le relazioni politiche, anche di vivere la nostra fede.

Papa Francesco ci sta animando con un progetto molto bello ed ambizioso: l’economia di Francesco. Noi in Brasile l’abbiamo chiamata l’economia di Francesco e Chiara perché questo sistema economico maschilista, patriarcale e coloniale, del quale siamo tutti vittime, ha proprio bisogno di una dimensione femminile per ripensarsi. L’economia femminile è l’economia circolare, quella dei piccoli spazi e delle relazioni, quella delle cooperative, quella che crede nei piccoli e nella loro capacità di crescere.

Nella nostra riflessione in Brasile abbiamo individuato tre grandi modelli di economia: il primo è il modello del saccheggio esplicito e del sistema neo liberale non controllato. Il secondo è il modello della ridistribuzione e dello sviluppo; era quello che lo stesso Lula aveva promosso nel suo precedente governo, il punto debole di questo modello sta nel fatto che è sempre centrato nello sfruttamento intensivo delle risorse, la ricchezza ha la stessa origine ma viene poi diversamente distribuita e a lungo termine non ha futuro. C’è allora il terzo modello che in qualche modo ci indica il magistero del papa Francesco; quando Lui invita giovani, indigeni e movimenti popolari sta indicando questo cammino: è quello dei popoli locali, delle comunità, del femminile, dei popoli indigeni, di chi ha cura dei territori.

Quando venne eletto in Brasile Bolsonaro, inizialmente tutti pensammo che avevamo a che fare con un incompetente. In realtà la cosa era molto più grave: lui stava portando avanti un progetto ben studiato che prevedeva la distruzione dei territori amazzonici e l’eliminazione culturale e forse anche fisica di tutte le minoranze etniche che difendono e sanno vivere in armonia con la selva.

In Bolsonaro c’era condensata tutta l’incapacità di pensare un mondo di convivenza e invece tutto è al servizio del capitale, dei poteri forti della finanza, del latifondo, delle monocolture. Un progetto suicida che si sostiene a colpi di interessi loschi e miopi che pensano al guadagno di oggi senza nessuna proiezione di futuro anche minimamente sostenibile: mai si pensa alle nuove generazioni. 

È tutto il contrario di quello che fanno i popoli originari. Gli indigeni del nord America, quando devono prendere decisioni di carattere ambientale importanti cercano sempre di pensare alle conseguenze fino alla settima generazione. I nostri popoli dell’Amazzonia ci insegnano come costruire relazioni non distruttive con l’ambiente amazzonico e lo fanno a partire dalle loro tecnologie, dai loro miti, dalla loro secolare convivenza con la natura. 

Questo modello ha profonde conseguenza anche per la nostra fede: l’eucaristia è il sacramento della comunità solidale, il Padre Nostro la preghiera che mette assieme il Padre e il Pane che sono di tutti. 

* Dario Bossi è il superiore dei missionari Comboniani in Brasile

Il 28 novembre 2021 rimarrà sempre una data significativa e storica per l'arcidiocesi di Feira de Santana, nello stato di Bahia (Brasile) e per i Missionari della Consolata: in quel giorno fu creata la parrocchia di São Roque, la prima parrocchia "quilombola" del Brasile.

Nel quilombo Matinha dos Pretos, fedeli di varie parrocchie si sono riuniti per assistere alla creazione ufficiale della parrocchia di São Roque, la prima parrocchia con sede in un quilombo e con un'attenzione particolare per i suoi abitanti e le loro battaglie. Per questo motivo la nuova parrocchia si chiama già “Quilombola”.

Questa presenza è una manifestazione dell'impegno della Chiesa nei confronti delle popolazioni emarginate e oppresse. Il Dio cristiano, che la Chiesa proclama, è un Dio che vede, non un Dio cieco; un Dio che ascolta, non un Dio sordo e, come dice il libro dell'Esodo, ascolta il grido del suo popolo e scende per liberarlo (cfr. Esodo 3,7-8). Per questo motivo la missione della Chiesa, discepola di un Dio che si preoccupa in modo particolare della vita minacciata, avrà un'attenzione speciale per tutti gli oppressi.

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Chiesa parrocchiale della parrocchia di Quilombola São Roque da Matinha. Foto: Jaime C. Patias

Che cos'è un quilombo?

In Brasile la parola "Quilombo" non è una parola che si sente con frequenza, forse per disinteresse o perché dietro c'è un gruppo oppresso che, il più delle volte se non tutte, non attira l'attenzione degli altri. Eppure la storia del quilombo è ormai più che centenaria: affonda le sue origini nell'epoca della schiavitù e continua a esistere ancora oggi. Evidentemente i quilombo storici del 1700 non sono gli stessi di oggi, ma un elemento che si conserva in tutta l’esistenza di queste comunità è la lotta. 

In origine erano “la dimora che gli schiavi fuggitivi cercavano in luoghi disabitati e di difficile accesso con il fine di liberarsi dalle condizioni disumane in cui vivevano”. In quei luoghi, dove riuscivano ad evadere ricerca e persecuzione, potevano diventare forti, vivere liberi e indipendenti, e spesso costruivano comunità umane fondate sulle antiche culture originarie africane liberandosi così da ogni forma di oppressione.

Oggi i quilombo sono ancora luoghi simbolici per la popolazione nera del Brasile e incarnano i lunghi anni di resistenza contro l’oppressione e la discriminazione. Anche se, evidentemente, i quilombo di oggi non sono costituiti da "fuggitivi", in molti di essi le situazioni precarie che si mantengono –sono comuni le carenze di servizi come sanitari, educativi e di trasporto– parlano ancora di schiavitù moderna e di situazioni di inferiorità contro le quali è necessario rimanere vigili.

La schiavitù è un’istituzione che appartiene alla storia del Brasile, ma in realtà le condizioni di vita della popolazione afroamericana ci ricorda che queste persone continuano a soffrire le conseguenze della schiavitù e continuano a essere molto spesso un popolo senza diritti.

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Il parroco, padre Luiz Antônio de Brito, con il decreto di creazione della prima parrocchia di Quilombola in Brasile. Foto: Parrocchia di São Roque da Matinha

Perché la presenza specifica della Chiesa in queste comunità?

La Chiesa, che il Concilio Vaticano II considera il sacramento universale della salvezza, con la sua presenza in questa comunità vuole aiutare a ricordare che questa salvezza non è semplicemente una "salvezza dell'anima", una cosa per la vita eterna, ma risponde alle esigenze dell’uomo nel suo complesso e nella sua concretezza storica.

Fu Gesù stesso che, cominciando il suo ministero pubblico, affermò che l'avvento del Regno era una buona notizia che aveva come destinatari principali i poveri. “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,17-19).

In questo quilombo, come chiesa e come Missionari della Consolata, vogliamo rendere presente il Regno di Dio, non con discorsi, ma con l'impegno nei confronti dei nostri fratelli. La luce che ci viene da Cristo liberatore ci aiuta a costruire il suo progetto: un Regno di uguaglianza, fraternità, pace e amore. Tutto questo, che sta alla basa della nostra missione, si traduce quindi in un umile accompagnamento della lotta per i propri diritti del popolo “Quilombola”.

* Il diacono Wilson Gervace Mtali, IMC, originario della Tanzania, ha studiato teologia a San Paolo e ha svolto attività pastorale nella parrocchia di São Roque da Matinha, a Bahia.

 

Ho conosciuto lo Stato brasiliano del Roraima grazie ai Missionari della Consolata che hanno inviato due laici ad accompagnare la loro “Équipe Itinerante”, impegnata da tempo nel servizio ai migranti del Venezuela con una attenzione speciale alla popolazione indigena. Questa “fortuna” è toccata a una psicologa e a me che sono comunicatore sociale della Pastorale Afro di Cali. Per mezzo della nostra professionalità vogliamo aiutare a dare un servizio più completo che aiuti a difendere i diritti di questa popolazione vulnerabile in termini di salute, istruzione, alloggio, occupazione e accesso all'informazione.

Ci siamo impegnati soprattutto con alcune comunità Warao che hanno fatto parte di questa grande ondata migratoria ma che hanno anche cercato di lottare per avere spazi propri per così resistere alla negazione dei loro diritti culturali. 

Nel mio caso per esempio la società del Roraima e altre in situazioni simili hanno bisogno di iniziative di comunicazione per aiutare la popolazione locale a comprendere la situazione di queste popolazioni sorelle e allo stesso tempo ogni migrante deve essere reso più consapevole dell'offerta delle istituzioni, delle chiese e delle organizzazioni sociali.

Negli anni scorsi in Brasile i migranti venezuelani sono arrivati a migliaia e il governo di Jair Bolsonaro, fermo oppositore di tutta l’organizzazione indigena brasiliana, ha affidato ai militari l’incarico di organizzare l’accoglienza di queste persone: molte famiglie sono state collocate in campi o grandi aree, chimati rifugi, dove sono state assistite e controllate con regole severe; molti altri invece sono stati lasciati per strada in condizioni precarie; tutti condividono serie difficoltà di trasporto e accesso a quasi tutti i servizi indispensabili.

Non dobbiamo dimenticare che gli effetti economici della migrazione sono importanti e ambigui al tempo: molto spesso il migrante è visto come un competitore ma allo stesso tempo si dimentica che la maggior parte della popolazione del Roraima ha avuto il beneficio di una manodopera più economica, come per esempio nel settore della costruzione, dove molti migranti sono pagati la metà o incluso meno di quanto viene pagato un lavoratore brasiliano. Eppure molte persone, spesso completamente ignare della realtà di questi benefici, sfruttano e persino umiliano profondamente questa popolazione.

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Un giovane indigeni Macuxi registra un incontro con i Missionari nella sua comunità.

Le sfide dell'Amazzonia

È grande la sfida che le regioni dell'Amazzonia e dell'Orinoco propongono alle società che vivono in questi territori. La concentrazione di terre, l'estrazione mineraria incontrollata e persino aggressiva dal punto di vista ambientale e il duro razzismo, soprattutto nei confronti delle popolazioni indigene, regnano sovrani. Si favorisce un capitalismo duro e ingannevole, che considera sacra la proprietà della terra e delle imprese, ma non quella dei popoli indigeni. A Boa Vista, la capitale del Roraima, i mezzi di comunicazione sono poveri e scarsi; i giornalisti locali preferiscono collaborare con organizzazioni esterne anche perché, dopo la pandemia, non è sopravvissuto nessun giornale stampato e i servizi di internet, quando ci sono, sono in uno stato deplorevole.

Probabilmente è arrivato il momento di unificare gli sforzi di tutti perché nella grande conca amazzonica i problemi sono quasi ovunque gli stessi. La chiesa cattolica, per mezzo della REPAM (Rete Ecclesiale Panamazonica) sta guardando più seriamente e da vicino ai problemi di questi popoli ma certamente le più di mille popolazioni indigene del Brasile avranno maggiori possibilità di successo se riusciranno a collegarsi anche con altre esperienze di lotta e organizzazione, come quelle del popolo afro così numeroso nella vasta geografia del subcontinente americano.

Solo se costruiamo una lotta comune, con una voce unita e fraterna, saremo in grado di contrastare la mania suicida che distrugge, come fuoco nella giungla, la ricchezza biologica e culturale di questo polmone verde del mondo. Quando vengono attaccate impunemente culture che sanno usare piante e animali in modi che noi non possiamo nemmeno immaginare, è il momento di lavorare assieme: tutti noi, popoli marginali di questo continente, vogliamo presentare a Dio una terra libera, prospera e piena di frutti di felicità.

* Rodrigo Alonso Daza Jiménez, del gruppo di comunicazione della Pastorale Afro Cali, lavora con i Missionari della Consolata che nello stato del Roraima assistono i migranti indigeni del Venezuela. Articolo pubblicato su “La Voz Católica” di Cali (Colombia).

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Bambini migranti venezuelani alla mensa dei poveri delle Suore della Carità a Boa Vista, Roraima, Brasile.

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