Un gruppo di ex alunni del Seminario Nostra Signora di Fatima di Três de Maio (Rio Grande do Sul, Brasile) si è riunito il 6 gennaio per una celebrazione fraterna e ricordare la formazione ricevuta.

Il programma dell'incontro, che ha visto la partecipazione di più di 60 persone, comprendeva la celebrazione dell’eucaristia, un incontro e la condivisione del periodo trascorso in seminario. Durante la Messa celebrata nella parrocchia di Santa Rosa da Lima nella città di Independência, padre Jaime C. Patias, Consigliere Generale per l'America, ha ricordato la storia dei Missionari della Consolata in Brasile e il loro arrivo nello stato di Rio Grande do Sul.

I Missionari della Consolata sono arrivati in Brasile per la prima volta con padre Giovanni Battista Bisio il 17 febbraio 1937, 86 anni fa, e si sono subito occupati della Parrocchia di São Manuel, nell'interno dello stato di São Paulo, e della costruzione del Santuario di Santa Teresina.

Nel 1940 la presenza della comunità si amplia allo stato di Santa Catarina: invitati dal vescovo Mons. Pio de Freitas, vescovo di Joinville, i Missionari della Consolata si sono dedicati alla gestione pastorale della parrocchia Maria Ausiliatrice della città di Rio do Oeste e hanno aperto il primo seminario, dedicato a San Francesco Saverio, con la presenza di 16 studenti. Con il tempo hanno esteso la loro presenza a altre città di Santa Catarina –come Pouso Redondo, Rio do Campo e Garuva– ed è stato anche costruito il Santuario di "Nostra Signora della Consolata".

Nell'ottobre del 1946 è stata la volta di São Paulo, prima nel quartiere di Jardim São Bento, nella parte settentrionale della città di São Paulo. Due anni dopo anche la casa provinciale della comunità è stata trasferita da São Manuel a São Paulo e in quello stesso anno, 1948, è stata assunta  la missione nella Prelatura di Rio Branco nello stato di Roraima, al nord del Brasile, sostituendo l'Ordine benedettino. 

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Parrocchia di Santa Rosa da Lima

La presenza in Rio Grande do Sul

I Missionari della Consolata arrivarono per la prima volta in questo stato con p. Afonso Durigon nel 1947: lui sarà vice parroco della parrocchia di "São José" nella città di Erechim. Nella stessa città, l’anno successivo, sarà inaugurato il seminario "São José" che, quando ebbe una nuova sede, assunse il nome di "Seminario Nossa Senhora Consolata", attivo centro di formazione fino al 1998, anno della sua chiusura.

L’anno successivo, nel 1948, è stata la volta della città Três de Maio. Lì i Missionari della Consolata saranno collaboratori nella parrocchia di "Nossa Senhora da Conceição" e allo stesso tempo insegneranno nelle scuole pubbliche di "Dom Hermeto José Pinheiro" e "Pio XII" che nel 1963 fu ribattezzato col nome di “Cardinal Pacelli”.

L'autorizzazione di aprire il seminario "Nossa Senhora de Fatima" a Três de Maio è stata concessa ai Missionari della Consolata l'11 aprile 1956 da monsignor José Newton Batista de Almeida, vescovo di Uruguaiana. I lavori di costruzione, sostenuti anche con la partecipazione delle famiglie locali, iniziarono nel 1957 e l'inaugurazione avvenne il 12 febbraio 1961, alla presenza del nuovo vescovo di Uruguaiana, Mons. Luis Filipe De Nadal, e del Governatore dello Stato, Dr. Leonel de Moura Brizolla. 

Nella città di Independência, è stata la parrocchia Santa Rosa di Lima ad essere affidata ai Missionari della Consolata nel 1972 che l’hanno gestita per dodici anni; alla fine del 1984 è stata restituita alla diocesi di Santo Ângelo e presa in carico dai Padri Dehoniani che vi sono rimasti fino al 2014. 

Altre presenze che appartengono ai primi anni di lavoro dei Missionari della Consolata nello stato di Rio Grande do Sul, tra il 1952 e il 1964, sono state la parrocchia di "San Francesco d'Assisi", nell'omonimo comune; e la parrocchia di "Nostra Signora del Rosario" di Horizontina. 

Anche le Missionarie della Consolata hanno avuto una presenza significativa in questo Stato per diversi anni. Suor Lurdes Bonapaz, nativa di Independência, ha partecipato alla messa er aell'incontro degli Amici della Consolata. Lei ha svolto la sua attività missionaria in Liberia e Guinea Bissau.

In tutto la permanenza dei Missionari della Consolata in questo che è lo stato più meridionale del Brasile è durata 53 anni, dal 1947 fino all’anno 2000.

In questo mezzo secolo di attività, molti sacerdoti e fratelli Missionari della Consolata hanno vissuto la missione nelle fertili terre di Rio Grande do Sul e la loro presenza ha segnato segnato la vita di famiglie e comunità. nel corso degli anni i semi del Vangelo sono germogliati e ancora oggi continuano a portare frutto nella società. Oltre al lavoro pastorale nelle parrocchie e alla promozione umana nelle opere sociali, centinaia di adolescenti e giovani hanno studiato e si sono formati nei collegi e nei seminari di Três de Maio e Erechim. fra di loro poco meno di una ventina sono poi diventati missionari della Consolata. 

Dio ha voluto che facessimo parte di questa storia fatta di generosità e amore per l'evangelizzazione e la promozione umana, caratteristiche del carisma ereditato dal Beato Fondatore, Giuseppe Allamano. Ci possono essere state alcune limitazioni, ma in generale quello che abbiamo e siamo oggi ha l'indiscutibile contributo dei Missionari della Consolata.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, è Consigliere generale per l'America.

I missionari della Consolata nati nello stato di Rio Grande do Sul sono Sabino Mariga, Sérgio Weber, Nelson Sinigalia, Etelvino Balsan, Osmar Zucatto, Cláudio Cobalchini, Rosalino Dall'Agnese, Aquileo Fiorentini (lui consigliere generale dal 1999 e poi Superiore Generale nel periodo 2005-2011), Elio Rama (dal 2012 vescovo di Pinheiro, Luiz Balsan, Ivanilson Brun, Mário de Carli, José Tolfo, Jaime C. Patias, Luiz C. Emer, Laurindo Lazaretti, Fratel Ayres Osmarim, Arlei Pivetta e Sandro Dalanora.

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Ex Seminario Nostra Signora di Fatima. Três de Maio (RS)

Cos'è la Pastorale Afro?

Approfittando di questo testo di padre Jalmir Matias de Oliveira, coordinatore della pastorale-afro nella diocesi di São Miguel Paulista, per cercare di capire il senso del perché è necessaria una pastorale afro. "Chiediamoci: qualcuno che afferma di essere cristiano può anche essere razzista o discriminare l'altro a causa del colore della sua pelle?  È scandaloso che questo possa accadere all'interno della chiesa. È totalmente incompatibile con il Vangelo che crediamo e predichiamo agli altri.

In Brasile, almeno il 50% della popolazione si dichiara "negra". E dov'è tutta questa gente? Che fa? Dove abita? Come vive?  Ci rendiamo conto di questa realtà? 

C'è un profondo pregiudizio radicato dentro di noi di cui potremmo anche non essere colpevoli perché ci è stato inculcato, spesso fin dalla più tenera infanzia, dove dire nero è sinonimo di inferiore, di poco valore; quando non anche spregevole, inutile, sporco. Questa forma di pensare fa parte in qualche modo del nostro inconscio e pensiamo che sia normale. In questo caso parleremmo di razzismo strutturale: c'è un'intera struttura che è stata costruita per secoli che pone il nero in un luogo di subalternità. Struttura che è stata pensata e progettata perché fosse così.

Da qui la necessità di una Pastorale Afro. La nostra cura pastorale invita ad aumentare la consapevolezza di questo peccato strutturale in modo tale che possiamo adottare un atteggiamento antirazzista e aiutiamo i nostri neri a vedere il loro valore, ritrovare la loro auto stima, valorizzare la loro cultura, non vergognarsi della loro storia, dei loro antenati, portare anche alle nostre celebrazioni la gioia, la forza di questo popolo che combatte e resiste con i loro colori e i loro ritmi.

Il razzismo fa male, ti fa soffrire, causa innumerevoli problemi profondi nella vita delle persone. Oggi abbiamo i social network, dove le persone si nascondono nell'anonimato per diffondere messaggi di odio e pregiudizio, per ferire e attaccare. Per noi cristiani questo atteggiamento è peccaminoso. Se rompo il rapporto con i fratelli e le sorelle attraverso la discriminazione, rompo con la fraternità, rompo un rapporto con Dio. 

Questa struttura di peccato, che genera morte negli altri, è una questione di giustizia sociale, ma per noi cristiani è anche una questione di fede. Un uomo, una donna di fede che non affronta il razzismo sono in totale contraddizione con il Vangelo. Il Signore, "che non discrimina le persone" (Sir 35,15), ci converta al rispetto degli altri!"

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Pastorale Afro in Brasile

La pastorale afro-brasiliana, attraverso le sue istanze e attraverso i suoi pastori, è uno spazio di azione e di consapevolezza della Chiesa e della società per la realtà della popolazione afro-discendente. Agisce nel requisito dei diritti fondamentali di cittadinanza per tutti, specialmente per coloro che vivono ai margini della società, a causa del loro colore ed etnia. Attraverso la pastorale afro-brasiliana, la Chiesa segna la sua costante presenza nel combattere e condannare ogni forma di razzismo, pregiudizio, xenofobia e altre forme di discriminazione.

Mese della "coscienza nera" nella prima parrocchia di San Roque

Rispondendo a tutte queste sfide nella Parrocchia di San Roque, abbiamo voluto lavorare  nella prospettiva di aumentare la consapevolezza dei diritti e doveri del popolo nero, così come l'accettazione e l'apprendimento di ciò che significa fare parte di questa eredità culturale antica. Nel mese di Novembre abbiamo celebrato il mese della "coscienza nera" nel quale ci siamo avvicinati in modo speciale alle scuole con l'intenzione di sensibilizzare le persone a proposito della loro identità afro. Ci aiutano anche i programmi educativi di queste scuole che prevedono nel loro curriculum spazi e modalità per approfondire l'identità afro degli studenti.

Un'altra attività è stata il "Cinema in Piazza": il primo novembre si è proiettata la pellicola "Stars Beyond Time" che ha ricordato a tutti gli assistenti che possiamo rompere i nostri ostacoli e raggiungere i nostri obiettivi anche con le avversità. 

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Il tamburello del papa

In occasione della visita ad limina i  missionari e i fedeli della parrocchia hanno inviato un dono simbolico al Papa Francesco, un "pandeiro" (tamburello) consegnato dall'arcivescovo di Feira de Santana, don Zanoni Demettino Castro. Papa Francesco non solo l'ha ricevuto ma l'ha anche suonato. Questo strumento cosí tradizionale è "segno della gioia di Bahia, segno della gioia del Vangelo". Per tutti noi  è stato motivo di grande gioia e gratitudine.

*Ibrahim Muinde è missionario della Consolata e lavora nella parrocchia di São Roque Matinha dos Pretos

La parrocchia di San Giovanni Battista, a Mauá (San Paolo) aveva una veste davvero festosa la mattina del cinque novembre con l'ordinazione sacerdotale di un figlio di questa terra, il missionario della Consolata Thiago Jacinto da Silva.

"È la realizzazione di un sogno. Un sogno di Dio che, insieme al mio e a quello di molti altri, si realizza oggi", ha espresso il neo sacerdote Thiago, che ha dichiarato di voler "rimanere unito all’amore di Dio e fare sempre la sua volontà". Nei prossimi mesi, il neo sacerdote sarà inviato al suo primo incarico missionario, che sarà a Taiwan, nel continente asiatico.

Pedro Carlos Cipollini, vescovo di Santo André, e ha potuto comprovare la partecipazione di decine di sacerdoti diocesani e religiosi, oltre che di parenti, amici, religiosi e laici provenienti dalla regione di San Paolo, Curitiba, Argentina e persino dal Kenya.

Scelto, unto e inviato

Nella sua omelia, il vescovo Pedro ha ricordato che il sì del nuovo sacerdote è una risposta all'amore di Dio che sceglie, unge e invia. "Tu, Thiago, sei stato scelto, unto e inviato in missione da Gesù Cristo, attraverso la Chiesa. Ricordiamo che la missione deve essere esercitata alla maniera di Gesù, il servo di Yahweh, verso le "periferie esistenziali", come esorta Papa Francesco: andare non nei discorsi, ma nella pratica".

Sottolineando l'esempio del Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il Vescovo ha invitato padre Thiago a sperimentare la "gioia di essere salvati" e a desiderare di comunicare questa salvezza a tutti i popoli, cercando sempre di essere "prima santi, poi missionari". "Diventa allora un continuatore del suo carisma di missionario, apostolo della missione, un uomo inquieto e resistente, che si è fatto tutto a tutti, obbediente e caritatevole, avendo sempre presenti i servizi di cui la missione ha bisogno”.

Seguendo l'esempio di Gesù, il Buon Pastore, che ha vissuto l'amore e il servizio, lancia questa sfida per la vita del nuovo sacerdote: "servire è la parola-chiave che apre al sacerdote le porte della pastorale".

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Breve Biografia

Il nuovo sacerdote Thiago Jacinto da Silva IMC è nato l'8 settembre 1993 a Santo André - SP, Brasile. È figlio di José Lourival da Silva e Eunice Jacinto da Silva e fratello di Yasmim. Ha sempre partecipato attivamente alla vita della parrocchia di São João Batista a Mauá-SP.

Nel 2010 ha iniziato il discernimento vocazionale con i Missionari della Consolata e ha svolto la formazione iniziale a Curitiba-PR, nell'anno Propedeutico e studiando Filosofia. Nel 2016 ha vissuto l'anno di noviziato a Martín Coronado, Buenos Aires (Argentina), dove ha professato i primi voti come Missionario della Consolata il 29 dicembre dello stesso anno.

È stato inviato in Kenya per studiare teologia a Nairobi dal 2017 al 2021. e ha svolto per un anno di servizio missionario a Wamba, nel nord del Paese, presso l'etnia Samburu. Nei prossimi mesi il neo sacerdote partirà per l'Italia, dove si preparerà per essere inviato al suo primo incarico missionario, che sarà Taiwan, nel continente asiatico.

* Padre Julio Caldeira è missionario della Consolata e coordinatore della comunicazione della Rete Ecclesiale Panamazzonica (Repam).

Partecipando al VII Simposio di Teologia india in Panama, dal 3 all'8 ottobre, padre Vilson Jochem ha rilasciato un'intervista esclusiva alla rivista Missões, parlando del lavoro con le popolazioni indigene e delle sfide della missione.

Padre Wilson, raccontaci la tua vocazione

Sono Vilson Jochem, sono nato in una famiglia di agricoltori nel comune di Atalanta, nell'interno dello Stato di Santa Catarina, in Brasile.

Quando parlo della mia vocazione, potrei dire, come San Paolo, che il Signore mi ha chiamato “fin dal grembo di mia madre”. Dico questo perché, dopo aver festeggiato i dieci anni di ordinazione, mia madre ha raccontato che quando era incinta di me, nelle sue preghiere chiedeva che se avesse avuto un figlio maschio sarebbe diventato sacerdote e la stessa richiesta l'ha fatta il giorno del mio battesimo.

Così che quando a scuola mi chiedevano cosa volessi fare da grande, la risposta normale era che sarei stato un sacerdote. In realtà quando avevo 13 o 14 anni ho cominciato a pensare di nuovo a questa possibilità: fu allora che cominciai a dire ai miei genitori che volevo andare in seminario.

E perché con i Missionari della Consolata?

Tutto indicava che sarei andato con i Francescani Minori, che erano quelli che lavoravano nella mia parrocchia. Eppure nel 1986 padre Dante Possamai passò dal collegio dove studiavo, parlando delle Missioni e chiedendo se qualcuno voleva essere missionario.

Ricordo bene quando dissi a mia madre: "per fare il prete non è importante il dove", decisi di scrivere a padre Dante e iniziai questo cammino vocazionale. Dio sa come fare le sue cose.

Raccontaci della tua formazione

Sono entrato nel seminario minore nel 1987. Nel 1990 ho cominciato gli studi di Filosofia; nel 1993 ho fatto l’anno di noviziato a Bucaramanga (Colombia) e il 9 gennaio 1994 ho emesso la prima professione religiosa. Dal 1994 al 1999 ho frequentato i corsi di Teologia a Bogotá, prima la teologia di base e poi anche una specializzazione.

Il giorno della mia ordinazione è stato il 30 ottobre 1999 ad Atalanta, la mia città natale, quindi quest'anno compio 23 anni di sacerdozio.

Il mio primo incarico è stato il Venezuela dove mi trovo attualmente. Nei primi anni ho lavorato nell'animazione missionaria e vocazionale; il lavoro con i giovani è stato un'esperienza bellissima e ho imparato tanto. Ho svolto questo incarico fino al 2005.

Dal 2005 al 2018 ho lavorato con gli indigeni Warao nello Stato di Delta Amacuro. Dal 2018 al 2021 sono stato in amministrazione e dal 2021 sono tornato a lavorare con gli indigeni Warao, dove mi trovo attualmente.

Quali li sfide più importanti, e quali le maggiori soddisfazioni?

Le sfide incontrate in questi anni di vita missionaria sono state molte. Dal punto di vista dell'animazione missionaria e vocazionale posso dire che la principale è stata quella di sapere capire e camminare al ritmo dei giovani, sperimentando la loro stessa realtà per poterli accompagnare nei loro desideri e preoccupazioni. 

Se siamo disposti a stare loro vicini possiamo anche provocare il loro impegno. Un elemento davvero gratificante è stata la "Caminada Juvenil Misionera", un'attività che abbiamo iniziato nel mese di ottobre 2003 per celebrare il mese missionario in modo diverso, camminando e riflettendo sulla realtà missionaria della Chiesa.

Il lavoro con le popolazioni indigene Warao è stato fonte di molte più sfide. Entrare in un'altra cultura significava imparare a vivere la vita e anche la fede in modo diverso e con ritmi diversi. Quelle che erano le mie priorità non sempre erano le loro; si trattava di un altro modo di vivere e di fare le cose.

Poi bisognava imparare a muoversi sui fiumi e in qualche occasione, come Pietro, mi son trovato a dire: "Aiuto, Signore, stiamo per affondare". Con il passare del tempo è stata un'esperienza di grande ricchezza e mi ha reso una persona migliore.

Ricordo alcune frasi: "Padre devi imparare ad amare questo popolo, con i suoi difetti, per scoprire le sue tante virtù". 

Da gioia scoprire l'affetto che le comunità hanno per noi, vedere la disponibilità e l'entusiasmo che provano per le nostre visite periodiche. Dicevano: "Abbiate pazienza, aspettate almeno dieci anni e comincerete a capire; siete i nostri sacerdoti, faremo un cammino insieme, uniti alla comunità".

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Il lavoro pastorale con le popolazioni indigene è una delle priorità dei Missionari della Consolata in America. Che bilancio fai di questo lavoro?

Il primo elemento è la presenza, il sapere stare in mezzo ai popoli nativi. Questa presenza richiede anche permanenza, non basta andare per qualche anno.

Seguendo la metodologia dei nostri stessi primi missionari, così come la ricordiamo anche nella Conferenze di Muranga, si tratta di conoscere la cultura, la lingua e la cosmovisione di ogni popolo. È necessario entrare nel loro mondo, perché siamo noi che andiamo da loro per imparare a stare con loro, valorizzando la ricchezza del loro vivere comunitario: solo in quel contesto potremo proporre in modo opportuno il vangelo di Gesù.

Cerchiamo sempre di incoraggiare i popoli indigeni a essere sempre più protagonisti della loro storia, e anche a scoprire la presenza di Dio nel loro passato e nel loro presente.

Un altro elemento indispensabile è quello di valorizzare all'interno della Chiesa e della società la saggezza e il contributo dei popoli originari per un mondo più umano, capace di rispettare il rapporto con gli altri e con la natura. Creare quell’armonia con l'ambiente che permette la continuità della vita.

Una grande richiesta che riceviamo dai popoli indigeni è che nelle case di formazione si lavori e si studi anche la teologia india, in modo che non sia conosciuta solo da alcuni addetti ai lavori ma da tutti coloro che un giorno potranno lavorare con loro. 

Evidentemente dovrà arrivare il giorno in cui loro stessi sapranno elaborare la loro propria teologia, con metodologia e contenuti propri, non necessariamente ereditati dalla razionalità occidentale. Non è un percorso semplice né corto, il Consiglio Episcopale Latinoamericano sta cercando di favorirlo.

Le sfide di essere missionario oggi

Essere missionari oggi comporta come prima sfida quella di aprire la mente e il cuore alla cultura in cui siamo inseriti. È un processo piuttosto arduo, perché richiede di aprire la mente al nuovo e mettere in secondo piano la propria cultura, il proprio modo di pensare, per essere disposti a iniziare un nuovo processo di apprendimento. La Chiesa oggi ci chiede di saper camminare con le comunità e i popoli, non come padroni ma come compagni, come fratelli e sorelle. "Mi sono fatto Giudeo con i Giudei... Greco con i Greci, schiavo con gli schiavi... Mi sono fatto tutto come tutti gli altri per conquistare alcuni a Cristo". (1 Cor 9,20-23)

*Maria Emerenciana Raia è redattrice della rivista Missões da dove è tratta questa intervista

Nello stato brasiliano del Maranhão noi missionari possiamo testimoniare l’esperienza di una comunità che ha combattuto per ben quindici anni una lunga battaglia legale contro una impresa mineraria, la Vale, una delle più grandi del Brasile, che sfruttava un immenso giacimento di ferro e aveva costruito un complesso siderurgico quasi sulla loro porta di casa senza che nessuno fosse consultato.

Per capire gli interessi che c’erano in gioco è sufficiente dire che ogni giorno passava, sulla testa della nostra gente che viveva con 5 dollari al giorno, l’equivalente di 60 milioni di dollari di minerale.

Quando noi missionari comboniani siamo arrivati, l’impresa siderurgiche era li da più di vent’anni; la foresta era scomparsa; perfino il clima era cambiato e la stagione delle piogge si era ridotta di un mese; molte persone si ammalavano e tante sono morte. Eppure abbiamo trovato delle comunità che stavano strenuamente opponendosi a questa situazione e sono stati loro a coinvolgerci nella battaglia che stavano combattendo. Dicevano: “senza di voi non ce la facciamo, ma se creiamo una alleanza forte riusciremo a  prevalere”. 

Mi ha sempre impressionato tantissimo la forza morale, la resistenza e la tenacia di questa gente: è stata una lotta sproporzionata, ci sono voluti 15 anni, ma alla fine hanno costretto imprese e governo ad abbassare la testa davanti alla resistenza, l’orgoglio e la dignità di queste persone. Hanno ottenuto una nuova terra nella quale costruire le loro case; le alleanze costruite in modo parsimonioso hanno prodotto frutti; è stata costruita una città totalmente nuova, pulita e sicura. 

Si è lavorato a una riparazione integrale che ha tenuto presente l’onore della memoria, niente di quel che è successo deve essere dimenticato, nessuna vittima può finire nell’oblio; questa riparazione ha permesso condizioni di vita adeguate per le generazioni che verranno e la comunità non si è mai divisa; hanno costruito le loro case e il loro futuro secondo i loro propri criteri. In un processo di riparazione integrale i poveri smettono di essere semplicemente beneficiari e diventano protagonisti.

Quella è stata una gran bella vittoria ma siamo ancora lontani dalla fine della guerra perché dietro abbiamo un sistema economico fallimentare ma che ci resistiamo a cambiare. Il modello fatto di estrazione, consumo e scarto può continuare a funzionare se si sono in tanti angoli del mondo “zone di sacrificio” come quella che vi ho descritto. I danni ambientali sono irreversibili e l’estrattivismo non offre una seconde opportunità: tutto è irrimediabilmente bruciato e distrutto. Le regioni più ricche in beni comuni (che le imprese chiamano risorse) sono anche le regioni più tormentate dalla guerra, dalla violenza, dall’impoverimento e anche dalla malattia. In questa contraddizione mondiale c’è di mezzo il sistema finanziario che è quello che alimenta il tutto: l’impresa Vale per esempio non porta il suo minerale direttamente in Cina, dove è consumato; prima lo vende in Svizzera, dove paga meno tasse che in Brasile, con un risparmio grandissimo, un mancato e sostanzioso ingresso per il popolo brasiliano. 

Oggi l’Amazzonia è quasi arrivata a un punto di non ritorno. Gli scienziati calcolano che quando il disboscamento arriverà al 25% del territorio si innescherà un processo di savanizzazione; il bosco tropicale non sarà più in grado di rigenerarsi con quei cicli ecologici complessi che hanno fatto di questa regione la più biodiversa del pianeta, una ricchezza che, tra l’altro, conosciamo ancora abbastanza poco. 

Per questo il modello estrattivista così come la conosciamo non ha più senso, non è più sostenibile. Il messaggio di Papa Francesco nella Laudato si’, nel sinodo dell’Amazzonia, nella Fratelli Tutti è stato per noi una benedizione. Dietro questi interventi magistrali c’è una grande intuizione spirituale: cominciamo a capire che non siamo il centro della storia, che siamo stati creati assieme e quindi siamo davvero tutti fratelli e sorelle in un senso particolarmente universale. Grazie a questo deve cambiare tutto il nostro modo di pensare, di costruire le relazioni politiche, anche di vivere la nostra fede.

Papa Francesco ci sta animando con un progetto molto bello ed ambizioso: l’economia di Francesco. Noi in Brasile l’abbiamo chiamata l’economia di Francesco e Chiara perché questo sistema economico maschilista, patriarcale e coloniale, del quale siamo tutti vittime, ha proprio bisogno di una dimensione femminile per ripensarsi. L’economia femminile è l’economia circolare, quella dei piccoli spazi e delle relazioni, quella delle cooperative, quella che crede nei piccoli e nella loro capacità di crescere.

Nella nostra riflessione in Brasile abbiamo individuato tre grandi modelli di economia: il primo è il modello del saccheggio esplicito e del sistema neo liberale non controllato. Il secondo è il modello della ridistribuzione e dello sviluppo; era quello che lo stesso Lula aveva promosso nel suo precedente governo, il punto debole di questo modello sta nel fatto che è sempre centrato nello sfruttamento intensivo delle risorse, la ricchezza ha la stessa origine ma viene poi diversamente distribuita e a lungo termine non ha futuro. C’è allora il terzo modello che in qualche modo ci indica il magistero del papa Francesco; quando Lui invita giovani, indigeni e movimenti popolari sta indicando questo cammino: è quello dei popoli locali, delle comunità, del femminile, dei popoli indigeni, di chi ha cura dei territori.

Quando venne eletto in Brasile Bolsonaro, inizialmente tutti pensammo che avevamo a che fare con un incompetente. In realtà la cosa era molto più grave: lui stava portando avanti un progetto ben studiato che prevedeva la distruzione dei territori amazzonici e l’eliminazione culturale e forse anche fisica di tutte le minoranze etniche che difendono e sanno vivere in armonia con la selva.

In Bolsonaro c’era condensata tutta l’incapacità di pensare un mondo di convivenza e invece tutto è al servizio del capitale, dei poteri forti della finanza, del latifondo, delle monocolture. Un progetto suicida che si sostiene a colpi di interessi loschi e miopi che pensano al guadagno di oggi senza nessuna proiezione di futuro anche minimamente sostenibile: mai si pensa alle nuove generazioni. 

È tutto il contrario di quello che fanno i popoli originari. Gli indigeni del nord America, quando devono prendere decisioni di carattere ambientale importanti cercano sempre di pensare alle conseguenze fino alla settima generazione. I nostri popoli dell’Amazzonia ci insegnano come costruire relazioni non distruttive con l’ambiente amazzonico e lo fanno a partire dalle loro tecnologie, dai loro miti, dalla loro secolare convivenza con la natura. 

Questo modello ha profonde conseguenza anche per la nostra fede: l’eucaristia è il sacramento della comunità solidale, il Padre Nostro la preghiera che mette assieme il Padre e il Pane che sono di tutti. 

* Dario Bossi è il superiore dei missionari Comboniani in Brasile

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