LA CROCE COME RIVELAZIONE DELL’AMORE DI DIO

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a cura di Card. Walter Kasper

 

Il 24 ottobre u. s., è stato aperto l’anno accademico della cattedra Gloria Crucis, della Pontificia Università Lateranense, cattedra dalla quale emana anche questa rivista, con una lezione inaugurale del cardinale teologo Walter Kasper. È stata una lectio magistralis straordinariamente comprensiva ed attuale, che ha messo in luce l’importanza capitale degli studi di teologia della croce oggi. Vi ha partecipato anche il rettore magnifico della stessa Università Monsignor Rino Fisichella. La lezione verrà pubblicata in un fascicolo a parte della collana Gloria Crucis. Riproduciamo qui l’ultima parte, riguardante la teologia cattolica della croce.

1. La teologia cattolica della croce

Sulla base di una rilettura della Scrittura e della Tradizione patristica sti-molata dalla teologia ortodossa e da alcuni concetti fondamentali del pensiero di Lutero, anche l’odierna teologia cattolica ha sviluppato una teologia della croce. Tra i nomi da ricordare1, il più importante è sicuramente quello di H. U. von Balthasar2, a cui ritorneremo in seguito.

Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è: dove si situa la teologia cattolica all’interno di questa discussione? La teologia della croce luterana è di stampo paolino; quella ortodossa viene solitamente descritta come giovannea. Quale è la caratteristica della teologia cattolica della croce?

1 St. P. BRETON, E. PRZYWARA, K. RAHNER, H. KÜNG, J. GALOT, H. MÜHLEN, W. KA-

SPER, Jesus der Christus, Mainz 1974, 196-199; 214-219; Der Gott Jesu Christi, 241-245.

2 H. U. VON BALTHASAR, Mysterium paschale, in: Mysal. III/2, 133-326; Theodra-

matik III, 297-309; IV, 191-243.

 

La tesi qui sostenuta, che verrà argomentata più sotto nel dettaglio, è che la teologia della croce cattolica sia primariamente sinottica e possa essere definita petrina, come si spiegherà tra breve. Questa argomentazione parte dalla croce storica e dalla sua interpretazione biblica; nella croce storica tenta di comprendere il Logos. In questo senso si tratta di una teologia “dal basso”, che non contrappone la kenosi al Logos, né comprende speculativamente il Logos come kenosi, ma lo ricerca nell’evento storico della kenosi e legge nella croce la rivelazione dell’amore divino.

2. I fondamenti biblici del concetto di sostituzione vicaria

La tesi appena formulata ci porta, come secondo passo, a ricercare i fon¬damenti biblici. L’esegeta Martin Hengel, di Tubinga, nel suo scritto “Pietro sottovalutato”, ha menzionato validi motivi che dimostrano sorprendentemente come la tradizione sinottica, attraverso Marco, discepolo di Pietro, risalga fino a quest’ultimo. Hengel sostiene addirittura che la teologia di Pietro possa essere equiparata a quella di Paolo3.

Hengel ritiene anche che si possa ricondurre a Pietro l’interpretazione sinottica della croce, sulla base del concetto di sostituzione vicaria. Il concetto di sostituzione vicaria, già presente nella teologia veterotestamentaria del servo sofferente (cfr. Is 52,13-53,12), è fondamentale per la venuta di Gesù in mezzo agli uomini, ad iniziare dal battesimo nel Giordano (cfr. Mt 3,15), fino ai racconti della passione (cfr. Mc 10,45) e a quelli dell’ultima cena (cfr. Mc 14,24; Mt 26,28; Lc 22,19 s; 1 Cor 11,24), che interpretano l’evento della croce come morte vicaria “per gli altri”. Dalla tradizione sinottica, di stampo fortemente petrino, il concetto di morte vicaria passa poi alla tradizione paolina (cfr. 2 Cor 5,21; Gal 3,13) e a quella giovannea (cfr. Gv 3,16; 10,11; 12,24 s; 15,13).

Quello della sostituzione è dunque un concetto chiave in tutti i Vangeli e nell’intero Nuovo Testamento. Esso sembra risolvere il nostro problema, poiché può essere considerato il giusto punto di partenza biblico per una teologia della croce4.

3 M. HENGEL, Der unterschàtzte Petrus, Tübingen 2006.

4 Anche W. PANNENBERG, a.a.O. 327, che rimane critico nei confronti della teologia della kenosi.

 

Questo concetto è espresso nel Nuovo Testamento con la formula “per voi”, “per noi”, “per molti”5, avente un triplice significato. Essa ci dice che Gesù ha dato la sua vita “al posto di” noi peccatori; noi come peccatori siamo assoggettati alla morte e non possiamo aiutarci da soli. In questa situazione, Dio è venuto in nostro soccorso ed ha assunto su di sé in modo vicario la maledizione del peccato, della morte, dell’abbandono di Dio. Il primo significato è dunque quello dell’intervento personale di Dio. Il secondo si riferisce al fatto che Gesù ha dato la sua vita “per noi” e “per molti”; è quello del sacrificio di Cristo per il nostro bene, in nostro favore. Infine la formula ci indica che Gesù ha compiuto tutto ciò “a causa” nostra, spinto da compassione verso di noi.

Agire in modo vicario significa quindi che Dio interviene al posto del peccatore, operando uno “scambio”, per la sua generosa misericordia ed il suo infinito amore. Egli fa questo per noi e per il nostro bene, interviene per noi, muore al nostro posto affinché noi viviamo. Gesù prende il posto degli ultimi per farci posto presso Dio. La kenosi è la forma esistenziale dell’amore nella condizione del peccato6. Non si svuota nel niente; essa mira piuttosto a riportare il bene, a ripristinare l’ordine voluto da Dio7.

L’idea della sostituzione vicaria è stata accolta anche all’interno del credo apostolico, dove recitiamo: “Propter nostram salutem descendit de caelis” . I Padri della Chiesa, portando avanti la riflessione, hanno accostato a questo concetto quello di commercium, ovvero di pio scambio. In modo conciso, si può dire che Dio è diventato uomo, è entrato pienamente nella condicio humana, affinché noi siamo divinizzati8.

5 Cfr. H. RIESENFELD, Art. Jv in: ThWNT VIII (1969) 510-518.

6 K. H. MENKE, Art., Stellvertretung, V., in: LThK IX (2000) 955.

7 L’espressione “Wieder-gut-machung” in tedesco (ripristinare il bene) viene inte¬sa qui in un senso più ampio rispetto alla teoria della soddisfazione di Anselmo da Can¬terbury. Cfr. W. KASPER, Jesus der Christus, 260-263.

8 Paolo 2 Cor 8, 9 ne getta le basi; formulato esplicitamente in IRENEO DI LIONE, Adv. haereses III, 19; fondamentale per la cristologia in ATANASIO, De incarn. 54. Cfr. H. U. VON BALTHASAR, Theodramatik III, 226-230; E.M. FABER, Art. «Commercium», in: LThK II (1994) 1274 s.

 

Il concetto di sostituzione vicaria è dunque un concetto teologico chia¬ve9, che esprime la legge di una struttura in processo di divenire. È la legge del chicco di grano che deve morire per produrre frutto (cfr. Gv 12,24). È la legge del lasciare tutto per raccogliere un guadagno centuplicato (cfr. Mc 10,28). È soprattutto la legge dell’amore. Soltanto nel darsi all’altro e nell’esserci pienamente per l’altro, l’amore realizza se stesso. L’abbandonare per guadagnare (cfr. Mc 8,35; Mt 10,39; 16,25; Lc 9,34; 17,33; Gv 12,25) è la legge fondamentale dell’amore e dell’amicizia (cfr. Gv 15,13). Essa è la legge di Cristo: portare i pesi gli uni degli altri (cfr. Gal 6,2).

È precisamente in questo ampio contesto che va compreso il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34)10. Questo grido è espressione del profondo svuotamento di se stesso che compie Gesù e della sua totale solidarietà con noi. Egli assume davvero su di sé il peso dell’abbandono di Dio, dell’eclissi di Dio dal mondo. Tuttavia, questa citazione dell’inizio del Salmo 22 è, in linea con la tradizione ebraica, un riferimento all’intero salmo, il quale comincia, è vero, con il lamento per l’abbandono di Dio, ma si conclude con la riconfortante certezza che Dio rimane fedele al suo popolo. Per questo, il grido di abbandono lanciato da Gesù non può assolutamente essere letto in chiave atea. Esso non ci dice che Gesù ha per così dire rinunciato al suo essere Dio, ma esprime piuttosto il fatto che Dio ci soccorre e ci salva perfino nella notte d’eclissi più buia in cui l’uomo possa trovarsi, in cui noi, soprattutto al presente, ci troviamo. Anche in una simile situazione, egli è il Dio presente (cfr. Es 3,15), egli è il Dio con noi.

Luca ha interpretato giustamente le dure parole dell’abbandono riportate in Marco, dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Ed in Giovanni troviamo l’affermazione che corona trionfalmente il mistero della croce: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30).

Anche le parole della kenosi nell’inno della lettera ai Filippesi (cfr. 2,7; 2 Cor 8,9; Eb 2,9) vanno capite in questo senso11. Kenosi (in latino exinanitio) significa svuotamento, cessione, rinuncia, alienazione. Attraverso la pro-

9 K.-H. MENKE, Stellvertretung Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologi¬sche Grundkate-gorie, Freiburg, Br.2 1997; Art. Stellvertretung I-IV, in: LThK IX (2000) 951-956; E. M. FABER, Der Selbsteinsatz Gottes, Würzburg 1995.

10 Cfr. H. GESE, Psalm 22 und das Neue Testament, in: ZThK 65 (1968) 1-22.

 

pria auto-alienazione, Gesù, che era Dio nella forma (ϕv), ha scelto di prendere il posto di noi peccatori, di noi che siamo assoggettati alla morte e quindi suoi servi. Ecco perché Gesù assume la forma (ϕv) di servo. Ma lasciandosi crocifiggere non per necessità del destino ma per sua propria volontà e per obbedienza al Padre, egli sottrae alla morte il suo pungiglione (cfr. 1 Cor 15,55) e ci libera dalla schiavitù, dandoci una nuova vita. L’auto-alienazione non si esaurisce dunque nel vuoto, nel nulla; al contrario, essa è la via verso l’innalzamento, tramite cui Gesù diventa Kyrios, ovvero Signore del mondo. La morte di Gesù è la morte della morte e la liberazione a nuova vita. La sua kenosi suggella così la vittoria della vita sulla morte, della libertà sulla necessità del destino, dell’amore sull’odio12.

Agostino ci fornisce una giusta interpretazione di tutto questo quando scrive in modo conciso e pregnante: “Sic se exanivit: formam servi accipiens, non formam Dei ammitens, forma servi accessit, non forma Dei discessit” (Sermo IV, 5)13. Solo perché Dio, abbassandosi, si è reso presente e attivo, è possibile dire: “Ucciso dalla morte, egli uccide la morte” (Agostino, In Jo XII, 10 s.)14. “Mortem nostram moriendo destruxit” proclama la liturgia.

Si capisce dunque perché per Paolo la croce costituisca il mistero della sapienza di Dio (cfr. 1 Cor 1,7-25; 2,6-10; 2 Cor 13,4) e la parola della croce sia l’essenza del messaggio salvifico (cfr. 1 Cor 1,18; 2,2). Negli scritti più tardi del Nuovo Testamento la croce assume addirittura una dimensione cosmica; attraverso la croce, tutto (; v) viene riconciliato a Dio (cfr. Col 1,20). L’Apocalisse giovannea ci presenta l’agnello immolato come luce del cosmo (cfr. Apc 21,23).

Nel Nuovo Testamento la kenosi non è quindi contrapposta al Logos; sul Logos essa getta una nuova luce. A sua volta, il Logos non può essere interpretato in maniera speculativa e dialettica come kenosi. Piuttosto, è la ke-

11 Cfr. E. KÄSEMANN, Kritische Analyse von Phil 2,5-11, in: Exegetische Versuche und Besinnungen, Vol. 1, Góttingen 1960, 51-95; J. GNILKA, Der Philipperbrief, Freiburg i.Br. 1968, 112-131; R. SCHNACKENBURG, Mysal III/1, 309-322; H.U. VON BALTHASAR, Mysal III/2, 143-158.

12 Cfr. W. KASPER, Jesus der Christus, 185 s.

13 AGOSTINO, Sermone IV, 5.

14 AGOSTINO, In Jo XII, 10 s.

 

nosi della croce a svelare pienamente il senso del Logos, che è l’amore. E l’a-

more è il senso dell’essere.

Detto questo, ecco che abbiamo compiuto il primo passo verso una trattazione sistematica della teologia della croce.

3. Una trattazione sistematica della cristologia della kenosi

Il Nuovo Testamento ci dice che Dio stesso è all’opera sia nella kenosi di Gesù che nel suo innalzamento. Dio si rivela nel suo Figlio (cfr. Gv 3,16; 1 Gv 4,9 s; Rom 5,8; 8,32). Nel Gesù terreno, nel Gesù crocifisso si manifesta la gloria di Dio (cfr. Gv 1,4, ecc.) ed il suo amore (cfr. Rom 5,8 s; 8,32; Gv 3,16 s., ecc.). Sulla croce ci viene dunque svelato Dio stesso come amore (cfr. 1 Gv 3,8.16).

Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV 2). Se la rivelazione è intesa come auto-rivelazione, allora la realtà di Dio non è “qualcosa” che si nasconde “dietro” la sua rivelazione: là, Dio stesso è presente. L’amore di Dio rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come amore. Sulla croce egli si rivela come colui la cui essenza è amore. Detto in maniera più astratta: nella Trinità economica rivelata dalla croce e dalla risurrezione, si rivela la Trinità immanente15.

Per comprendere più profondamente la natura trinitaria di Dio, possiamo partire dalla natura dell’amore16. Precisamente da qui era partito anche Agostino17, senza però sviluppare oltre il suo pensiero. Per lui, come per la tradizione teologica classica, fondamentale è l’analisi dell’atto conoscitivo18. Nella teologia odierna possiamo costatare lo stesso interesse. Stimolato dalle analisi di Fichte, di Schelling, di Hegel e soprattutto dal personalismo dialogico di origine ebraica, come in Martin Buber e, in modo sostanzialmente più

15 K. Rahner ha espresso l’assioma: “La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa” (Osservazioni sul trattato dogmatico “De Trinitate”, in: Schriften zur Theo¬logie, Vol. IV, , Einsiedeln 1960, 115); Der dreifaltige Gott als transzendenter Urgrund der Heilsgeschichte, in: Mysal II (1967) 328. Su questa problematica cfr. W. KASPER, Der Gott Jesu Christi, 333-337; H.U. VON BALTHASAR, Theodramatik III, 297-305.

16 Cfr. W. KASPER, Der Gott Jesu Christi, 241-245; sviluppato ulteriormente in G.

GRESHAKE, Der dreieine Gott. Eine trinitarische Theologie, Freiburg i. Br. 1997.

17 AGOSTINO, De Trinitate VIII, 10: «Ecce tria sunt, amans et quod amatur et amor».

18 Cfr. W. KASPER, Der Gott Jesu Christi, 266 s.

 

radicale, in Emmanuel Lévinas, lo studio del fenomeno dell’amore occupa adesso un posto di primaria importanza.

Oggi, il punto di partenza della riflessione teologica sulla Trinità è principalmente l’auto-comunicazione di Dio. Ma l’amore, che comunica se stesso per essere una cosa sola con l’altro, non significa fusione. Il vero amore non assorbe l’altro, né lo usa per la propria auto-conoscenza o auto-realizza-zione. L’amore non ha una struttura dialettica, ma una struttura dialogica. Amore significa essere una cosa sola con l’altro, preservando l’identità di ognuno, e permettendo allo stesso tempo la realizzazione ed il compimento di ciascuno. Chi darà la propria vita, la riceverà. L’unità nell’amore comporta dunque il riconoscimento della differenza. L’amore sa distinguere e sa ritrarsi. L’amore fa un passo indietro; esso rende l’altro libero e ne riconosce l’alterità. La logica dell’amore è dunque quella del lasciarsi spazio reciprocamente: è quella, anche, della rinuncia. Amore e dolore, amore e morte, ecco due realtà strettamente legate, come ci dicono da sempre i grandi poeti.

Possiamo allora interpretare l’affermazione che Dio è amore così: Dio è se stesso nell’essere totalmente per l’altro. Il Dio-amore può essere concepito soltanto come un’auto-differenziazione al suo interno. Pertanto, la dottrina trinitaria non contraddice il monoteismo, come più volte si sente dire. Essa esprime piuttosto il fatto che un Dio-amore può essere pensato soltanto in maniera trinitaria. La Trinità è il monoteismo concreto19.

Di fronte alla realtà della sofferenza, la Trinità è l’unica forma di monoteismo che possa essere concepita e che possa esistere. Dalla croce in poi, pensare a Dio in modo trinitario significa pensare ad un Dio che al suo interno lascia spazio all’altro se stesso. Diversamente dal Dio onnipotente che molti si immaginano, Dio è assolutamente non violento. Dio, nella sua essenza, è colui che si apre totalmente e che si offre. Dio non opprime; egli si lascia addirittura cacciare dal mondo, e ci si mostra debole, impotente20. Dio è in se stesso kenotico. Balthasar parla della kenosi originaria e di una “divisione” all’interno di Dio21. Ma in questo suo essere kenotico, Dio non rinun-

19 W. KASPER, Der Gott Jesu Christi, 323; 354 ss, 373. Sull’attualità della questio¬ne di fronte al problema del monoteismo cfr. M. STRIET, Monotheismus und Kreuz, in. IkaZ Communio 32 (2003) 273-284.

20 Secondo l’espressione molto citata di D. BONHOEFFER, Wiederstand und Erge-

bung, München 1970, 394.

21 H. U. VON BALTHASAR, Mysal III, 152 s.

 

cia a se stesso, non si trasforma in qualcosa di diverso, non abbandona la pro-

pria divinità. In questa sua esistenza kenotica, Dio è Dio.

Come la croce è la rivelazione dell’amore intratrinitario di Dio, così l’a¬more intratrinitario di Dio è la condizione interna che rende possibile la compassione di Dio fino alla morte in croce. Origene ha formulato chiaramente questo prerequisito: “Primus passus est, deinde descendit. Quae est ista, quam pro nobis passus est, passio? Caritatis est passio” (Homelia in Ez. VI, 8)22. La cro¬ce è dunque la forma più esterna dell’amore divino che si dà, è la forma più esterna dell’amore costitutivo di Dio, ovvero id quo maius cogitari nequit.

Questa tesi comporta una vera e propria rivoluzione metafisica23. La relazione non è più concepita come una semplice realtà accidentale. Così come la vera realtà non corrisponde più semplicemente né alla Sostanza, che sussiste in sé e per sé, né al Soggetto che esiste in sé e per sé secondo il pensiero moderno. Adesso è nella relazione stessa che si fonda la sussistenza delle persone della Trinità. Dio è relazione, e nella relazione egli viene a noi. Nell’essere il Dio per noi e con noi, egli rivela la sua natura più profonda.

Il tema della sofferenza di Dio, che è stato sempre così spinoso per la tradizione teologica, acquista allora una nuova dimensione. La sofferenza, ed in questo dobbiamo riconoscere che la teologia classica ha assolutamente ragione, non può essere sperimentata da Dio in modo passivo. Quando Dio soffre, lo fa in modo divino. La sofferenza divina non è espressione di una mancanza, ma di una libera volontà. Dio non è investito passivamente dal dolore della creatura, ma si lascia coinvolgere intenzionalmente. Per questo, l’onnipotenza di Dio non è in contraddizione con il suo amore; la sua onnipotenza si manifesta nell’amore, poiché è precisamente l’onnipotenza che rende possibile il ritirarsi senza rinunciare a se stessi. L’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza del suo amore, che rivela ciò che è ed è ciò che è proprio nel lasciare spazio all’altro24.

22 ORIGENE, Homelia in Ez. VI,8.

23 Cfr. J. RATZINGER, Einführung in das Christentum, München 1968, 142-150; K. HEMMERLE, Thesen zu einer trinitarischen Ontologie, Einsiedeln 1976; W. KASPER, Der Gott Jesu Christi, 354; 377; G. GRESHAKE, a.a.O. 457-460.

24 S. KIERKEGAARD, Die Tagebücher 1834-1855, München 1949, 239 f; K. BARTH,

Kirchliche Dogmatik II/1, 597; Th. PRÖPPER, Art. Allmacht III, in: LThK I (1993) 416.

 

Il Dio compassionevole, che si manifesta sulla croce, è la risposta alla questione della teodicea25: Dio è il Dio che soffre e che muore, e si fa vicino a coloro che sono oppressi, torturati, martirizzati. Dio è al loro fianco e soffre con loro. Questo non significa però che dobbiamo glorificare o divinizzare la sofferenza. Dio non divinizza la sofferenza, ma la redime, mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la trasforma in speranza. La croce è infatti la via verso la risurrezione e la trasfigurazione. Il dolore e la morte non hanno l’ultima parola. La cristologia della kenosi ci conduce oltre se stessa, verso la cristologia pasquale dell’innalzamento e della trasfigurazione. Come dice la Scrittura, “nella speranza noi siamo stati salvati” (Rom 8,20.24; 1 Pt 1,3).

4. Uno sguardo alla spiritualità cristiana odierna

Lo abbiamo appena detto: la teologia della kenosi non è una speculazione astratta. Essa costituisce la tela di fondo della riflessione sulla teodicea e sul significato esistenziale della sofferenza e della morte. Essa è inoltre di grande importanza per il dialogo ecumenico. Una considerazione a parte meriterebbe il suo ruolo all’interno del dialogo interculturale e interreligioso, soprattutto per l’incontro con la spiritualità buddista ed il suo concetto di nirvana26.

In questo contesto, desidero fare solo alcune osservazioni conclusive sul significato che la teologia della kenosi riveste per una spiritualità cristiana odierna27. Vi sono molte figure di grande rilievo che hanno mostrato l’importanza della sostituzione vicaria e che, testimoniandola con la propria vita, costituiscono un esempio luminoso per la spiritualità odierna e per un rinnovamento missionario della Chiesa: Teresa di Lisieux, Charles de Foucauld, Edith Stein, Maximilian Kolbe, D. Bonhoeffer, Oscar Romero e molti altri. Ognuno a modo proprio, essi si sono immersi nel grido di dolore e di abbandono di Gesù ed hanno portato sulle proprie spalle, con solidarietà, il peso

25 Critici su questa posizione di Balthasar: K. RAHNER, Schriften zur Theologie, Vol. 15, 1983, 211s; KARL RAHNER im Gespräch, ed. da P. Imhof und H. Biallowons, Vol. 1, München 1982, 245 s.

26 La teologia della croce in questo contesto in K. KITAMORI, Theologie des

Schmerzes Gottes, Göttingen 1972.

27 Cfr. H. SCHiJRMANN, Jesu ureigener Tod. Exegetische Besinnungen und Ausblick,

Freiburg i. Br. 1975, 130-155.

 

dell’eclissi di Dio dal mondo. Per loro, l’esperienza della notte, del deserto, dell’ultimo posto non ha significato un cammino verso un niente privo di senso, ma si è trasformata in qualcosa di attivo, in una vita spesa per gli altri, affinché la luce di Dio risplendesse anche nel buio più opprimente.

Anche per il cristiano di oggi non esiste un altro cammino. Nel mondo occidentale, egli normalmente non è esposto ad una brutale violenza anti-cristiana, ma è costretto a vivere in una società che non conosce Dio, o lo conosce così poco da non essere neppure in grado di sostenere un ateismo cosciente. A Dio si è ormai indifferenti. Il mondo è diventato un deserto, una notte in cui non si distingue più nulla, in cui non c’è più né un sotto né un sopra, in cui si è perso l’orientamento.

In questa situazione, la Chiesa non può più atteggiarsi a potente istituzione, portando davanti a sé la croce come segno temporale di vittoria. Il cristiano, piuttosto, dovrà sperimentare l’impotenza della croce, dovrà condividere la sofferenza di altri. Ed è proprio ora, in questa notte d’eclissi, che egli dovrà preservare e testimoniare per gli altri la luce della fede, della speranza e dell’amore. Ecco la sfida del cristiano di oggi e di domani: una presenza attiva a favore degli altri.

Maria è esempio e tipo di questa esistenza kenotica, lei, l’umile serva che ha dato spazio a Dio, dapprima nel suo cuore e poi nella sua carne. Maria ha portato avanti la speranza fino ai piedi della croce. E lo ha fatto per noi. Ha pronunciato il suo “fiat” al posto di tutta l’umanità. Maria è fulgido esempio di un’esistenza attiva “per” l’altro; ella è l’aurora di un nuovo mondo.

 

 

 

 


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