Franco Chittolina
L’impatto della crisi finanziaria ed economica
La crisi finanziaria si è manifestata soprattutto con il dissesto dei conti pubblici di molti Stati europei: alcuni fuori dalla soglia consentita del deficit, come l’Irlanda, la Gran Bretagna e la Spagna, ma anche la Francia e l’Italia con uno squilibrio relativamente contenuto; più allarmante la situazione del debito pubblico, in particolare per Belgio, Irlanda e Portogallo, ma soprattutto per l’Italia e la Grecia. Squilibri che hanno fatto temere rischi di bancarotta e che hanno tenuto con il fiato sospeso l’Unione Europea e la sua moneta unica.
Le conseguenze della crisi finanziaria sull’economia reale sono state pesanti: nella zona euro, solo la Germania ha realizzato una crescita importante, mentre gli altri Paesi hanno registrato una sostanziale immobilità quando non periodi di recessione.
Forte l’impatto della crisi sulla situazione sociale: la disoccupazione è aumentata, superando nell’eurozona la soglia del 12%, con picchi inquietanti per l’occupazione giovanile: un giovane su due senza lavoro in Grecia e Spagna, due su cinque in Italia. Le persone in condizione di povertà hanno superato in Europa la soglia dei 60 milioni e, secondo Eurostat, è a rischio povertà nell’UE una persona su quattro.
Inevitabile che l’avvitamento di tutte queste crisi l’una sull’altra provocasse non poche crisi politiche, non solo in alcuni Paesi dell’eurozona, ma anche ai vertici dell’Unione Europea.
La fragilità delle Istituzioni europee
A Bruxelles è proseguito il lavoro quotidiano della Commissione europea, debole nell’esercitare il suo diritto-dovere di iniziativa che le hanno affidato i Trattati per fare progredire l’integrazione europea e frenata dal perdurare degli interessi divergenti apparsi in seno al Consiglio europeo e poco sostenuta dalle buone intenzioni del Parlamento europeo.
In questo vuoto istituzionale, appena temperato dall’attivismo della Banca centrale europea (BCE), si sono affacciati due governi – quello tedesco e quello francese – decisi a cogliere “l’opportunità della crisi” per portarsi al timone di un’Unione incerta e divisa. Chi avesse scambiato questo “tandem” con il mitico “asse franco-tedesco” di un tempo, avrebbe sbagliato stagione. Dopo l’unificazione tedesca del 1990, le nuove leadership giunte al potere in Germania e Francia e le devastazioni provocate dalla crisi finanziaria, il paesaggio politico ed economico al di qua e al di là del Reno è profondamente cambiato.
La Germania è diventata il Paese di gran lunga più importante dell’UE, non solo per le sue dimensioni demografiche, ma ancor più per la sua forza economica e la sua crescente penetrazione sul mercato europeo e quello mondiale. Ne è naturalmente derivata una nuova ambizione politica da esercitare nell’UE, allargatasi nel frattempo ai confini orientali della Germania, e poi nel resto del mondo, con una particolare attenzione alla Cina.
E’ andata diversamente per la Francia, un Paese in crescente difficoltà tanto all’interno che sulla scena internazionale, dove il suo ruolo si è andato riducendo nonostante mantenga ancora alcune posizioni conquistate nel dopoguerra, come nel caso del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o, più recentemente, come è avvenuto in seno al Fondo monetario internazionale, a conclusione di vicende non proprio esaltanti per l’orgoglio francese. Forse è stato anche accusato il colpo dell’avvicendamento alla testa della Banca centrale europea, dove Mario Draghi ha sostituito il francese Jean-Claude Trichet con qualche problema nella successiva ricomposizione degli organi della BCE.
In questo contesto, l’immagine del “tandem” franco-tedesco va riletto per quello che è: in due a pedalare e con vigore diverso ma una sola alla guida, quell’Angela Merkel, Cancelliera tedesca, oggetto di crescenti critiche non solo nell’UE, ma anche negli USA e presso importanti Agenzie economiche internazionali per la sua “ossessione rigorista” a difesa degli interessi immediati della Germania.
L’Accordo a 25 e il rigore tedesco
Al di là delle immagini usate e dei commenti perplessi di molti osservatori, resta il fatto che questi ultimi anni sono stati caratterizzati nell’Unione Europea dalla volontà di rigore imposta dalla Cancelliera Angela Merkel ai Paesi in difficoltà, aggravandone talvolta la dimensione come nel caso della Grecia e spingendo 25 Paesi UE – fuori si sono chiamate Gran Bretagna e Repubblica Ceca – a sottoscrivere un Patto di rigore e stabilità dei bilanci pubblici nazionali, con forte impatto sul mercato del lavoro e sulle politiche sociali.
Si tratta di un Accordo intergovernativo, fuori dalle regole dei Trattati comunitari, privo di stimoli per la crescita e difficilmente gestibile da parte delle Istituzioni UE, almeno fino a quando non confluirà – se mai confluirà – in un vero e proprio Trattato comunitario e di difficile esecuzione per i Paesi in difficoltà finanziarie, come nel caso dell’Italia.
Il ritorno dell’Italia in Europa
All’appuntamento con questo singolare accordo, l’Italia è arrivata dopo infinite peripezie e ripetuti richiami all’ordine da parte delle Istituzioni europee. Il primo chiaro avvertimento era arrivato, il 5 agosto 2011, al governo italiano dalla Banca centrale europea, alle prese con un costoso sostegno ai titoli pubblici italiani nel corso dell’estate: il messaggio era stato probabilmente sottovalutato e aveva avuto una parziale risposta soltanto a inizio novembre, senza riuscire a convincere più di tanto le Istituzioni europee.
Ne era seguito un secondo e più perentorio richiamo da parte della Commissione europea, un messaggio che fu preludio alle dimissioni del governo Berlusconi e all’intervento del Presidente Giorgio Napolitano in favore di un governo tecnico, presieduto da Mario Monti, affiancato esclusivamente da ministri tecnici e chiamato a ridare credibilità internazionale all’Italia, affrontando un programma di riforme strutturali a forte impatto economico e sociale.
Al tavolo del negoziato sull’accordo intergovernativo Mario Monti ha portato un’Italia decisa a uscire dal coma, prima politico che economico, nel quale versava da anni e ha cominciato a incassare qualche risultato, ottenendo tuttavia insufficienti elementi di flessibilità per un patto che avrebbe rischiato di paralizzare a lungo l’economia italiana e cercando di restituire all’Italia il ruolo che le spettava, come Paese fondatore dell’UE e partner economico e commerciale importante della Germania.
Su questa strada si è sforzato di progredire il governo presieduto da Enrico Letta, con risultati modesti che hanno contribuito alla fine, insieme alla situazione di stallo politico provocato dalle ultime elezioni, alle sue dimissioni.
In quanto Paese fondatore dell’UE, l’Italia dovrà recuperare credibilità politica e vigore economico per rivendicare un ruolo alla guida dell’Unione, in coerenza con il progetto originario di integrazione europea dei Padri fondatori, reinterpretato alla luce del nuovo contesto europeo e internazionale.
Un’Unione Europea in affanno
Un contesto europeo profondamente modificato dalla progressiva espansione territoriale dell’UE, passata dai sei Paesi fondatori ai 28 attuali, con l’arrivo della Croazia nell’estate del 2013; ferita da una crisi finanziaria ed economica senza precedenti nella storia dell’Unione e dal ritorno di spinte nazionaliste e populiste, altrettanti ostacoli sulla strada di un’integrazione politica già oggi a più velocità, tra chi ha adottato la moneta unica – oggi 18 con l’approdo a gennaio 2014 della Lettonia – quelli che vorrebbero adottarla, quelli che rischiano di uscirne e quelli che sembrano farne volentieri a meno.
Sempre all’interno dell’UE, è cambiato il peso economico e politico dei singoli Paesi: restano in condizioni di difficoltà Paesi come la Grecia e il Portogallo; hanno perso iniziativa i Paesi del Benelux, tenta di riemergere la Spagna, avanza ambizioni la Polonia; della Francia, Germania e Italia si è detto.
Resta da comprendere meglio il disegno perseguito dalla Gran Bretagna e dal suo attuale giovane leader David Cameron, a capo di una coalizione non proprio coesa sulla strategia europea e alle prese con crescenti pressioni anti-europee, al punto di prevedere un referendum per confermare la presenza inglese nella UE. In occasione del recente Accordo intergovernativo sulla “Unione di bilancio”, voluto dalla Merkel, la Gran Bretagna è rimasta risolutamente fuori, seguita soltanto dalla Repubblica Ceca, con il risultato però di perdere contatto con il nucleo duro dell’eurozona e quel ruolo di ponte verso gli USA, che adesso potrebbero guardare con più attenzione all’Italia per un dialogo con l’Europa.
Il progetto europeo nel nuovo contesto internazionale
E’ nel nuovo contesto internazionale che l’Unione Europea dovrà ripensare il suo progetto futuro, senza la pretesa di ritrovare nel mondo una centralità che appartiene ormai al passato, ma senza rinunciare a tessere nuove relazioni tanto con i suoi tradizionali vicini e alleati che con le nuove potenze emergenti, in particolare con la Russia, la Cina e l’India.
Ai suoi più immediati confini, l’Unione Europea dovrà portare a compimento quel disegno di riunificazione europea, avviato all’indomani del crollo del Muro di Berlino nel 1989, e che ha già portato nell’UE dieci Paesi usciti dall’orbita sovietica: un percorso che continua nei Balcani con la recente adesione della Croazia, con i negoziati in corso con Macedonia, Montenegro e Serbia, mentre attendono di essere riconosciuti come candidati all’adesione Bosnia-Erzegovina, Albania e Kosovo. Più complesso e delicato il rapporto con l’Ucraina che, sotto la pressione russa, ha per ora rinunciato a sottoscrivere un nuovo accordo che l’avrebbe avvicinata all’Unione Europea.
E’ però ai suoi confini orientali e meridionali che l’Unione Europea è attesa alla sua prova più difficile.
A est, nel difficile negoziato in corso con la Turchia e con i Paesi del Caucaso del sud, legati all’UE nel quadro del partenariato orientale, osteggiato dalla Russia. Con la Turchia i negoziati di adesione vivono una fase di stallo, giustificato di volta in volta con ragioni economiche, culturali e politiche che per gli uni sono un ostacolo all’adesione, per gli altri un motivo ad allargare l’UE a un Paese che sta rafforzando la sua economia e il suo ruolo politico e militare in un’area ad alta instabilità come quella mediorientale, dove l’Europa prova difficoltà a svolgere un ruolo di mediazione. E’ quanto sta avvenendo per la perdurante guerra civile siriana non disgiunta dal rischio che l’Iran potrebbe far correre alla pace, a ridosso dell’infinito conflitto israelo-palestinese e nelle irrisolte transizioni verso la democrazia dei Paesi della “Primavera araba”, un contesto geopolitico dove si manifestano interessi poco limpidi di grandi potenze, più attente al Mediterraneo di quanto sembra esserlo a volte l’Unione Europea.
UN FUTURO DA RI-COSTRUIRE
In questi ultimi anni l’Unione Europea è apparsa in difficoltà a fare fronte alla crisi che l’ha colpita, a mantenere una coesione, non solo economica ma anche sociale e politica, al proprio interno e a svolgere un ruolo significativo nel mondo. Se l’UE dovesse continuare così, ci sarebbe poco da scommettere sul suo futuro, su quello dell’euro e, forse, sul proseguimento della sua pacifica ricerca di un’unificazione politica di un continente storicamente diviso e in perenne conflitto, anche armato, al proprio interno.
La “manutenzione ordinaria” a cui sono state sottoposte le intese in vigore non potranno salvare a lungo l’UE dal decadimento politico e dal declino economico. L’Europa è arrivata a un bivio: o si dota di un nuovo progetto coraggioso o è destinata a consumarsi nella litigiosità dei suoi Paesi partner, condotti spesso da leadership miopi e senza grandi ambizioni. E’ diventata ormai necessaria per l’UE una “manutenzione straordinaria”, ispirata a un nuovo progetto politico, sorretta da Istituzioni profondamente riformate e, soprattutto, affidata a cittadini attivi, finalmente decisi a costruire la “loro” Unione che, non sottovaluta quella tra gli Stati, ma è molto di più e, di quella, anche molto più impegnativa.
E’ solo a queste condizioni che la pace potrà essere per la nuova Europa non solo un obiettivo – come è ora – ma un valore da perseguire “senza se e senza ma”, radicato nella solidarietà tra i molti e diversi popoli europei, fondata sulla giustizia prima che sulla legalità, perché possa formarsi una società inclusiva nella quale dialoghino tutte le culture che si ispirano alla tolleranza e alle regole della democrazia.
Non si tratta di aggiustare alla meglio una macchina ormai invecchiata, che ha certo reso molti servizi, ma che ormai non è più in grado di rispondere alle nuove sfide del mondo globale. Per
potere avanzare occorrono adesso nuovi cittadini europei, un nuovo Trattato, nuove Istituzioni, nuove politiche, nuove leadership e nuovi orizzonti-mondo.
Nuovi cittadini europei
L’Unione Europea che ci consegna la storia è stata creata poco più di sessant’anni fa da Padri fondatori visionari e coraggiosi, consapevoli della necessità di salvaguardare e consolidare una pace conquistata dopo gli anni tragici della seconda guerra mondiale e dopo secoli di sanguinosi conflitti sull’intero continente. Il primo progetto di comunità europea mirava a intrecciare gli interessi economici e commerciali dei Paesi partner e si avvaleva di regole complesse, destinate a tracciare un cammino progressivo verso l’integrazione politica.
A servizio di questo disegno fu chiamata una tecnocrazia organizzata ed efficiente che spinse in avanti le Istituzioni a marce forzate, riuscendo a raggiungere gli obiettivi fissati, in alcuni casi addirittura in anticipo sulle scadenze previste. Per entrambi quei protagonisti della prima stagione di integrazione, politici dell’epoca e tecnocrazia istituzionale, si trattò di avanguardie e di “élites”, mosse da una visione politica e dalla prospettiva dei nuovi interessi economici e commerciali che da quel disegno potevano derivare.
Più contenuta, in quei primi anni del dopoguerra, la partecipazione attiva dei cittadini, quando ai loro occhi prevalevano le urgenze della vita quotidiana e le loro organizzazioni sociali conducevano lotte per la riconquista di diritti a lungo negati. In Italia, il primo sindacato dei lavoratori continuò per lunghi anni a opporsi al progetto comunitario nel quale vedeva prevalere gli interessi del capitale piuttosto che quelli dei lavoratori. E così, tra contrasti, diffidenze e tiepide adesioni popolari, il progetto comunitario progredì nelle sue realizzazioni senza potersi avvalere di una larga partecipazione popolare e la situazione non migliorò nemmeno significativamente quando, nel 1979, i cittadini europei vennero chiamate alle urne per eleggere, per la prima volta a suffragio universale diretto, il Parlamento europeo. Anzi, con gli anni e i nuovi allargamenti, la partecipazione elettorale andò riducendosi, fino a toccare trent’anni dopo, punte di astensionismo superiori al 50%.
Non sfugge a nessuno che, nelle mutate condizioni di oggi e con un’Unione da ricostruire dopo le molte crisi di cui è stata vittima ma anche responsabile, sarebbe un’illusione riaprire il cantiere dell’integrazione europea senza associarvi più direttamente i cittadini, prima nell’elaborazione del nuovo progetto di Unione e poi nella sua gestione quotidiana. Impresa non facile, ma necessaria che deve tradursi in una pedagogia paziente per spiegare la complessità dell’avventura europea e mobilitare i cittadini nel sostenere un progetto nel quale si riconoscano.
Jean Monnet, padre e architetto delle prime comunità europee, avrebbe dichiarato al termine della sua vita che “se dovessi ricominciare, ricomincerei dalla cultura”. Forse, nell’Unione europea di oggi, direbbe che bisogna “ricominciare dalle culture”, quelle dei molti popoli, europei e non, che vivono in Europa e che di una nuova Europa interculturale hanno bisogno.
Un nuovo Trattato comunitario
I Trattati comunitari hanno contribuito fortemente a segnare la storia dell’integrazione europea: da quello della Comunità europea del carbone e dell’acciaio nel 1951 fino al Trattato attuale, quello di Lisbona, entrato in vigore a fine 2009. Riletti nella loro successione hanno sempre segnato qualche punto di progresso per il cantiere europeo, come nel caso del Trattato di Roma del 1957 o di quello di Maastricht del 1992 fino al Trattato in vigore attualmente. Non sempre però le promesse che vi erano contenute sono state mantenute appieno o per la resistenza di alcuni Stati membri o perché bloccati da congiunture economiche e politiche che hanno indotto i Paesi partner a giocare in proprio, facendo prevalere i loro interessi su quelli dell’Unione.
Una significativa svolta politica avrebbe potuto essere impressa all’avventura europea già dal Trattato costitutivo di una Comunità europea della difesa, non ratificato dalla Francia nel 1954 e, più tardi, da quel “Progetto di Costituzione europea” affondato, ancora dalla Francia e poi dall’Olanda, nel 1985.In quest’ultimo caso non tutto andò perduto ed elementi importanti di quel progetto vennero ripresi nel Trattato di Lisbona firmato nel 2007, al punto che si parlò di un Trattato che sarebbe dovuto durare a lungo, non meno di dieci anni.
Oggi, ad appena quattro anni dalla sua entrata in vigore, molte voci autorevoli si levano per chiedere che venga messo in cantiere un nuovo Trattato. Sembra pensarlo persino la Cancelliera Angela Merkel, dopo aver imposto un Accordo intergovernativo – denominato “fiscal pact” o “Unione di bilancio” – che, se tutto andrà bene, potrà funzionare da provvisoria stampella a un’ Unione Europea, dotata di una moneta unica ma non di un governo comune dell’economia e ancor meno di una politica fiscale, almeno armonizzata tra gli Stati membri.
Insomma, ancora un rattoppo che ricorda un memorabile discorso di Altiero Spinelli al Parlamento europeo per convincere l’Unione della necessità di riscrivere radicalmente i suoi Trattati. In quell’occasione Spinelli, al quale adesso molti tornano a richiamarsi, rievocò il romanzo di Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, dove si racconta l’avventura di un vecchio pescatore che esce in mare aperto su una barchetta la cui “vela era rattoppata con sacchi di farina e quando era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne”. Per Spinelli quella era l’immagine dell’Europa di allora e, purtroppo, è ancora quella dei nostri giorni.
Nuove Istituzioni europee
I Trattati europei, dai primi delle Comunità europee a quello attuale dell’Unione Europea, sono costruiti su un modello istituzionale la cui originalità e complessità si è rivelata preziosa per avviare il percorso di integrazione europea, ma è ormai inadeguata per portarlo a compimento. Il tentativo, nei primi tempi riuscito, era quello di cercare un equilibrio tra Istituzioni a prevalente vocazione sovranazionale e quelle poste a salvaguardia dei legittimi interessi nazionali, un sistema di spinte e controspinte che avrebbe dovuto portare progressivamente ad una originale e inedita “democrazia tra le nazioni”, con caratteristiche diverse dalle sperimentate “democrazie all’interno delle nazioni”, proprie degli Stati membri.
Il modello ha meglio funzionato quando la Comunità era composta da pochi Paesi, politicamente più coesi tra di loro; ha cominciato a scricchiolare con l’aumento degli Stati membri, portatori di progetti di integrazione divergenti e fortemente gelosi della propria sovranità: tra questi non solo Francia e Gran Bretagna, ma anche molti dei Paesi dell’Europa centrorientale che quella sovranità l’avevano da poco riconquistata.
Adesso bisognerà trovare equilibri più avanzati, che rafforzino la vocazione sovranazionale dell’assetto istituzionale europea: una Commissione europea, detentrice del potere di iniziativa ma anche futuro esecutivo dell’UE, un vero governo il cui presidente dovrà godere di una forte legittimità popolare; un Parlamento europeo rafforzato nei suoi poteri e “Camera dei popoli” in dialogo con un Consiglio europeo, “Camera federale”, in rappresentanza dei territori dell’Unione; una Corte di Giustizia confermata nel suo potere giurisdizionale, con progressive funzioni di Corte costituzionale europea.
Ci vorrà del tempo per realizzare tutte queste riforme, ma grande è anche l’urgenza di riuscirci perché la storia non aspetterà l’Europa-tartaruga del passato.
Nuove politiche europee
A poco servirebbero un nuovo Trattato e nuove Istituzioni europee se non fossero messe a servizio di nuove politiche dell’Unione, chiamate a riformare quelle esistenti e a realizzarne di nuove per affrontare le impegnative sfide che attendono l’Europa.
Che molto ci sia da riformare nelle attuali politiche dell’UE, la crisi in corso l’ha messo in evidenza, a cominciare dalle disavventure di quell’Unione economica e monetaria fortemente sbilanciata sulla moneta e sostanzialmente priva di un governo europeo dell’economia. Una “zoppia”, come ha denunciato con forza Carlo Azeglio Ciampi, che l’UE sta pagando cara e alla quale bisognerà al più presto rimediare. E alla quale non rimedia certo l’Accordo intergovernativo a 25, voluto dalla Germania, più punitivo che stimolatore di sviluppo.
Per affrontare il problema alla radice sarà necessario rivedere le competenze dell’UE in materia fiscale e, più generalmente, in materia di politica di bilancio che non potrà più essere lasciata alle sole “sovranità nazionali”, chiamate inoltre a cedere più ampie deleghe all’UE anche per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza, se si vuole che l’Europa torni a contare nel mondo.
Sarà inoltre necessario un maggiore impegno sul versante della politica sociale, compresa una progressiva convergenza dei sistemi di welfare, per una coordinata tutela dei diritti e lotta contro l’esclusione, con un’attenzione particolare alle politiche migratorie, da collocare nell’alveo di condivise responsabilità europee.
Nel 1951 fu scelta coraggiosa la politica comune nel settore del carbone e dell’acciaio, oggi lo sarebbe quella di una politica comune della ricerca e dell’energia: non solo per aumentare il vantaggio competitivo dell’UE sui mercati internazionali, ma anche per alimentare una politica ambientale comune a salvaguardia del pianeta.
Nuove leadership europee
Trattati, istituzioni e nuove politiche non andrebbero lontano se non fossero portati dalle gambe di uomini e donne capaci di assumersi la responsabilità del bene comune da perseguire, forti delle loro competenze e, più ancora, del legame costante e attento con i loro concittadini e non solo quelli del loro elettorato né della sola loro nazionalità, ma di tutti quanti, europei e non, che vivono sul territorio dell’Unione.
La nuova classe dirigente di cui l’Europa ha bisogno non deve ubbidire a soli criteri anagrafici, per non perdere risorse preziose tra chi, con gli anni, porta in dote all’avventura comune memoria ed esperienza e per comporre squadre che raccolgano quanto di meglio possono dare generazioni diverse. Soprattutto abbiamo bisogno di leadership umili capaci di ascoltare, preparate per affrontare i problemi, democratiche per cercare insieme le soluzioni e collegiali per non farci correre i rischi di “un uomo solo al comando”.
Non tutto è da inventare, ma molto resta da costruire, chiamando all’impegno politico tutti i cittadini e non solo le “élites”, perché solo così potrà prendere forma una “Unione di popoli” e non solo un’Unione di Stati, utile nella scorsa stagione ma inadeguata ad affrontare l’attuale.
Nuovi orizzonti europei
Vista sulla carta del mondo, l’Europa è una penisola di modeste dimensioni, al punto da far sorgere a Paul Valéry una domanda. “L’Europa diventerà quello che in realtà è, cioè un piccolo promontorio del continente asiatico?”. Se contasse solo la geografia, la risposta a quella domanda sarebbe scontata, ma poiché conta, e molto, anche la storia e la libera intrapresa degli uomini, tutto diventa più complesso e aperto a esiti diversi.
Nella sua storia l’Europa ha conosciuto secoli di grande presenza in molte regioni del mondo, in particolare a partire dal secolo delle scoperte, alle quali sono seguiti lunghi periodi di dominazione coloniale. E’ ormai una condizione che appartiene al passato dell’Europa e c’è da sperare che più nessuno ne abbia nostalgia.
Oggi la presenza nel mondo si misura su dimensioni diverse: quella degli intrecci e delle contaminazioni culturali, quella degli scambi commerciali e finanziari e, ancora, quella della capacità politica di controllare territori e orientare la politica di Stati “pretesi sovrani”.
I nuovi orizzonti dell’Europa cominciano dai suoi immediati confini, con i Paesi che nell’Unione Europea ambiscono a entrare o ad associarsi più strettamente: la risposta è nella strategia di allargamento che deve proseguire alle condizioni convenute e in quella della Politica di vicinato, in particolare nell’area mediterranea, per chi alle condizioni previste per l’allargamento per ora non risponde.
Ma a orizzonti più lontani deve guardare l’Europa: al nord l’aspettano nuove occasioni per rivedere le sue relazioni con la Russia e al sud il dovere, ma anche l’interesse, di farsi maggiormente carico dello sviluppo dell’Africa, suo “continente limitrofo”. A ovest, al di là dell’Atlantico, con i cambiamenti politici in corso in America latina, le ex-colonie europee guardano al “laboratorio” delle democrazie europee, alle quali hanno anche molto da insegnare; anche con gli USA saranno necessari chiarimenti, non solo a proposito delle attuali alleanze militari, ma più ancora per il raccordo tra due modelli di società che possono essere occasione di insegnamenti reciproci.
E finalmente l’Asia, il futuro prossimo del mondo, dove emergono due grandi potenze economiche, commerciali e politiche come la Cina e l’India, due Paesi-continente molto diversi tra di loro e attori importanti dei cambiamenti in corso a livello mondiale, non immuni da possibili sorprese quanto agli esiti politici, se non addirittura militari, come nel caso della Cina.
Nuovi orizzonti-mondo attendono l’Europa: sono appuntamenti ai quali sarebbe drammatico presentarsi in ritardo, come troppo spesso è avvenuto negli ultimi tempi.
Tocca a noi cittadini e all’Italia ritornare in gioco perché la grande partita mondiale che si sta giocando non ci costringa nel ruolo passivo di spettatori.