I “BAOBAB” DELLA VITA CONSACRATA

Category: Missione Oggi
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Alejandro Fernández Barrajón[1]

http://barrajon-barrajon.blogspot.com/

 

C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe:
erano i semi dei baobab. Il suolo ne era infestato.
Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi non si riesce più a sbarazzarsene.
Il Piccolo Principe[2]

Ho letto molte volte il libro di Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe. È affascinante. Oggi, giorno in cui compio quarantasette anni, l’ho riletto. Forse è un modo per tornare ai tempi passati; un bisogno, che sorge a una certa età, di recuperare storie della fanciullezza. Forse. Certo è che l’ho letto oggi e mi è sembrato completamente nuovo. Mi sono detto e ridetto che non è possibile, che lo conoscevo già, che nessun capitolo mi risulta sconosciuto, ma non sono riuscito a convincere me stesso. Mi è sembrato un libro nuovo e originale. Forse la sensibilità a quarantasette anni è diversa; forse l’esperienza e le batoste della vita - non ne ho avute molte, ma alcune non ho potuto schivarle - mi spingono a pormi dinanzi alla realtà in modo diverso. In questo assomiglio a mio padre: nella misura in cui è diventato anziano si è fatto anche molto più sensibile. È un’esperienza molto intensa aver tardato tanti anni a vedere come mio padre si emozionava in certe circostanze. E stato molto forte e molto bello.

Infine, Il Piccolo Principe mi ha commosso e mi ha incoraggiato a rivedere la mia vita, a guardare indietro, a scoprire che il tempo passa e che mi sono già lasciato molto indietro il meridiano della vita senza essermene accorto. E la mia vita, la maggior parte della mia vita, è stata consacrata. Non dico fedele, ma consacrata. L’unica fedeltà che posso rivendicare è che sono ancora qui, non me ne sono andato, anche se non so se questo sia segno di fedeltà o di inerzia. Molti dei miei amici se ne sono andati e continuo a trovarli immensamente fedeli alle loro idee, alla loro sensibilità, al loro stile di vita, alla loro profonda umanità. Ma mi afferro alla mia appartenenza attuale come segno di fedeltà, forse perché non ne trovo altre più affidabili.

E in questo capitolo voglio regalarvi la mia riflessione sulla vita consacrata e Il Piccolo Principe. Una riflessione che non è di mia proprietà; è l’esperienza che vivo tutti i giorni come consacrato, in stretto rapporto con tanti consacrati e consacrate con i quali continuo, felicemente, a camminare. Alcuni molto vicini e molto lontani; altri molto lontani e molto vicini: circondato da ogni parte dal paradosso e soprattutto dall’alto, perché Dio mi appare come un paradosso fuori del comune; appassionante, ma paradosso.

Lo considero un privilegio poter condividere con te queste riflessioni, questa piccola parte della mia vita. È molto gratificante sapere che sei lì, che hai un nome, che sei un pulsare di passione e di amore nella vita, come me. E molto gratificante sapere che sei disposto ad aprire le porte della tua casa e della tua vita per lasciarmi entrare come un volo di parole verso il tuo cielo.

“Mi accompagni sul pianeta dei baobab?” “Dei baobab?” . “Sì, vedrai, dei baobab”.

Il pianeta dei baobab

Sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive. Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive. Ma i semi sono invisibili. Dormono nel segreto della terra fino a che all’uno o all’altro pigli la fantasia di risvegliarsi. Allora si stira, e sospinge da principio timidamente verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo. Ma se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta. C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi dei baobab. Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare[3].

Su questo nostro pianeta di oggi, che chiamiamo modernità, stanno crescendo molte piante come sul pianeta del piccolo principe. C’è una realtà nuova che ci fronteggia e non sappiamo bene come porci lucidamente nei suoi confronti senza perdere il controllo della situazione.

Ci sono piante buone che stanno dando frutti e ombre stimolanti e necessarie. Indubbiamente il presente in cui viviamo è appassionante ed è pieno di promesse e speranze sempre più fondate. Il nostro mondo è un brulicare di conquiste e possibilità nuove impressionanti. Abbiamo buoni motivi di sentirci orgogliosi del tempo e del momento in cui viviamo. Se mi fosse stata data la possibilità di scegliere il tempo della mia vita tra i secoli che sono passati, avrei senza dubbio scelto questo. Che privilegio aver inaugurato il XXI secolo! La battaglia dei diritti umani la stiamo vincendo ogni giorno un po’ di più, anche se ci manca molto per sognare una giustizia strutturale.

Il pianeta della vita consacrata, così minuscolo, è anch’esso pieno di piante buone e salutari. Abbiamo una gloriosa storia da raccontare e, come un albero frondoso, i suoi rami carichi di frutti di santità arrivano fino a noi e continuano a incoraggiarci a superare la mediocrità. Non abbiamo molti motivi per lamentarci di questo pianeta benedetto e martire. Saremmo assai ingiusti se prevalesse in noi la rimostranza, il lamento, la tristezza o il pessimismo, con tutto quello che di buono e santo abbiamo, godiamo e celebriamo ogni giorno. Sono cresciute tanto e bene le buone piante sul pianeta della vita consacrata. Ci sono molti consacrati e consacrate, molti nomi abitati da Dio e infiammati di passione, che mantengono viva e accesa la speranza e la fedeltà, e che scrivono tutti i giorni pagine bellissime di amore a Dio e di vicinanza solidale con i poveri. Ce ne sono a centinaia. Ci sono molte radici forti e profonde sul pianeta della vita consacrata.

Ma ci sono anche su questi nostri pianeti molte erbe cattive che possono crescere troppo. Sono i baobab della modernità, che allungano i loro rami sotto forma di laicismo, di materialismo smisurato, di mancanza di valori, di capitalismo selvaggio, di edonismo incontrollato, di consumismo, di disuguaglianze e ingiustizie, di muri, di guerre, di fame, di violenza... molti baobab! “E se non li sradichiamo in tempo e li lasciamo crescere troppo”, direbbe il piccolo principe, “invadono tutto il pianeta, lo perforano con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e se i baobab sono troppo numerosi, lo fanno scoppiare”.

Nella vita consacrata dei nostri giorni sono cresciuti , anche i baobab. E vero che lo hanno fatto insieme a molte erbe buone, le quali, come la senape, allungano i loro rami affinché tutti gli uccellini possano venire a rifugiarvisi. Papa Benedetto XVI ci ha avvertito che è possibile che nella vita consacrata ci siano i baobab: “Non possiamo ignorare che alcune scelte concrete non hanno offerto al mondo il volto autentico e vivificante di Cristo. Di fatto, la cultura secolarizzata è penetrata nella mente e nel cuore di non pochi consacrati, che la intendono come una forma di accesso alla modernità e una modalità di approccio al mondo contemporaneo. La conseguenza è che accanto a un indubbio slancio generoso, capace di testimonianza e di donazione totale, la vita consacrata conosce oggi l’insidia della mediocrità, dell’imborghesimento e della mentalità consumistica”[4].

E dinanzi a questa realtà ci domandiamo che cosa succeda alla vita consacrata. Ha futuro? Questo piccolo e povero pianeta della vita consacrata non finirà per scoppiare per colpa di tanti baobab che stanno allungando le loro radici? È giunto il tempo di sradicare e di potare, necessario per evitare tanta erba cattiva? Non abbiamo bisogno di un intenso periodo di discernimento? Qual è il nostro ruolo nella Chiesa?

“È una questione di disciplina”, mi diceva in seguito il piccolo principe. “Quando si è finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli”[5]. Noi consacrati e consacrate abbiamo il compito urgente di pulire il nostro pianeta, di purificarlo/di trasformarlo in rosaio. E quali sono questi baobab che crescono e minacciano il pianeta della vita consacrata? Identifichiamoli, scopriamoli tra i nostri rosai e sradichiamoli completamente prima che diventino troppo grandi.

Noi consacrati di oggi ancora non sappiamo come sarà la vita consacrata che desideriamo, che chiediamo nelle nostre riflessioni, che sappiamo necessaria. Quella vita consacrata che anela a essere rifondata, ricreata e rinnovata. Ma sembra crescere un sentimento condiviso di come non deve essere la vita consacrata che aspettiamo. Ci risulta sempre più chiaro distinguere quali sono i - baobab che non vogliamo far crescere sul nostro pianeta o quali i baobab che stanno crescendo e che possiamo sradicare insieme prima che diventino troppo grandi.

Il baobab della nostalgia

“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”[6].

Non vogliamo un pianeta gremito di baobab frondosi di strutture che minacciano rovina. Una vita consacrata arenata nel passato.

Abbiamo bisogno di affrontare quanto prima una revisione delle nostre strutture, delle nostre case, dei nostri compiti, delle nostre fedeltà, delle nostre mentalità, delle nostre presenze, per non disperdere tante forze - che non abbiamo - puntellando strutture ed edifici del passato, o mentalità e idee dei tempi che furono. Le nostre forze vive devono essere al servizio della vita e non dei musei, per quanto quotati siano. Ciò significa essere disposti ad affrontare un periodo lungo e serio di discernimento personale e istituzionale che ci porti ad affrontare iniziative nuove a servizio della vita e della giustizia. E, al contrario, a liquidare servitù e rendite che ci legano a una tradizione che muore e a forme del passato che non entusiasmano più nessuno né richiamano alla vita e alla festa. Appare ormai evidente che lo stile di vita consacrata classica è chiamato a sparire in un futuro non lontano, nonostante ci siano notevoli resistenze all’interno del pianeta.

La vita consacrata appartiene al presente. Come nei versi di Gloria Fuertes7, non poche volte il passato pretende di impadronirsi di essa. Perché il suo passato è stato molto glorioso e oppone resistenza al non esserlo più. Spesso il passato cattura la vita consacrata e le assesta sberle di forme, di idee, di parole, di atteggiamenti che la lasciano pietrificata, con la testa voltata e trasformata in statua di sale come la moglie di Lot. Il passato non perde l’opportunità di diventare protagonista dei nostri carismi e del nostro futuro. Ma il passato non può avere oggi la parola definitiva, come ci dice Gloria Fuertes.

Tutto il passato si vuole impadronire di me e io mi voglio impadronire del futuro, mi voltano la testa perché io guardi indietro e io voglio guardare avanti. Non posso fermarmi, scusate, ho fretta, sono un fiume di forza, se mi fermo morirò affogata nel mio stesso ristagno.

Il meglio della vita consacrata è il suo presente. La vita consacrata ha fretta di raggiungere gli uomini e le donne di questa modernità e accompagnare i loro passi e il battito dei loro cuori. Fermarsi, per lei, significa morire affogata nel suo stesso ristagno.

Il baobab del “light”

Quello che il piccolo principe non osava confessare a se stesso, era che di questo pianeta benedetto rimpiangeva soprattutto i millequattrocentoquaranta tramonti nelle ventiquattro ore[7].

Non vogliamo una vita consacrata “light”, che diventi un circolo di single che organizza gite in collaborazione con i servizi sociali e i gruppi della terza età.

Se la vita consacrata non è un rosaio di Dio, ambito in cui fiorisce e si coltiva con passione l’esperienza di Dio, comunità disposte a vivere la propria fede in modo deciso e condiviso, in profonda diversità e tolleranza, aperte alla multiculturalità che ci circonda, non è un pianeta abitabile ed è meglio che scoppi a causa dei giganteschi baobab.

Noi consacrati siamo colpiti dal sorgere di Dio nelle nostre vite. E su questo pianeta della vita consacrata Dio sorge molte volte. È possibile scoprire e celebrare tutti i giorni il Dio che ci ha sedotto e catturato nella realtà precaria delle nostre comunità e delle nostre vite. È possibile. Solo per questo vale la pena che la vita consacrata esista, e sempre varrà la pena. C’è chi si impegna a vederci in caduta libera, a sottolineare le statistiche negative, a farci passare per residenze per anziani. Avranno qualche problema. Forse pensano che la ricchezza della vita consacrata stia in se stessa, nei suoi numeri e nella sua età, e non riescono a scoprire che essa è nel suo Signore. Monsignor Gardin ha dichiarato che “la vita religiosa è chiamata a essere una vita qualitativa, è chiaro. La questione quantitativa non dipende da noi né deve essere al centro delle nostre preoccupazioni”8. La storia della vita consacrata è un ritratto vivo in cui il divino e l’umano si abbracciano con ammirevole naturalezza. Per questo è sempre stata accompagnata dal silenzio, dalla contemplazione, dalla bellezza. La vita consacrata ha bisogno di riservare uno spazio sempre vergine tra le sue pieghe perché Dio lo abiti e il suo risuonare giunga in tutte le stanze della casa.

Qualche anno fa, i mezzi di comunicazione si sono fatti portavoce del grande successo d’incassi ottenuto in Europa dal film documentario di Philip Gròning, II grande silenzio. Nella sala del cinema dove ho visto questo film, non si sentiva fiatare nessuno. Centosessantadue minuti di silenzio. Mi domandavo come fosse possibile che un simile film avesse successo e fosse accolto con tanta aspettativa di pubblico in una società del rumore, della fretta, dello stress. E certamente è perché la gente sente il bisogno di spazi di silenzio, di ascolto, di incontro con se stessi e con le domande più intense. Bisogna vedere come il silenzio parla nel film girato nella Certosa vicino a Grenoble! In Germania è arrivato a superare gli incassi di Harry Potter. C’è ansia di silenzio e di spiritualità nell’Europa della tecnologia e del benessere. Sta crescendo una generazione di giovani stanca di tanto consumismo, di tanto rumore, di tanto edonismo e materialismo; una generazione che sogna spazi di silenzio e di contemplazione, di religiosità, a suo modo, anche se non si identifica con una Chiesa concreta. È assai possibile che nei prossimi anni emergano reazioni molto forti, volte alla ricerca dell’autenticità, dell’interiorità, della mistica, del silenzio...

Nella vita consacrata c’è sempre stata questa preoccupazione di ricerca, di silenzio, di ascolto di Dio. In spiritualità molto diverse, a seconda delle congregazioni, appare sempre questa necessità di assoluto, di preghiera, di lode, di mistero. E senza questa dimensione di profondità religiosa non c’è vita consacrata né consacrato che resista a lungo. Il nostro tempo corre il rischio di convertire in “light” tutto ciò che tocca. Succede così nei prodotti che fabbrica “usa e getta”. La vita consacrata di questo tempo corre il rischio di lasciarsi narcotizzare dalle mode sociali e dai modelli di vita che impongono i serial, i film, le multinazionali, fino a diventare spazi religiosi “light”. Comunità orientate all’attività in cui si coltiva un po’ il religioso, senza che esso diventi segno di identità o pietra angolare della dinamica comunitaria.

In questi tempi di relativismo totale è più che mai necessario intensificare la nostra proposta religiosa di ricerca, di studio, di celebrazione delle cose di Dio. Non soltanto perché il mondo ha necessità di riferimenti al sacro, ma perché ne abbiamo bisogno soprattutto noi consacrati, per non perdere di vista l’ideale che ci unisce e ci consacra. Il Baobab del “light” sta crescendo sul pianeta terra; non lasciamo che i suoi rami e le sue radici penetrino nei nostri chiostri, nella nostra casa, nei nostri costumi, fino a riempire tutto, dentro e fuori; se così fosse, come dice il piccolo principe, scoppierebbe irrimediabilmente. Una vita consacrata piena di baobab non interessa a nessuno, nemmeno a se stessa.

Il baobab incolume

No alla vita consacrata polarizzata esclusivamente verso la spiritualità, disincarnata, che separa la vita dall’esperienza dì fede. No ai fraticelli e alle suorine puri e devoti, incolumi, che non si informano e non si rendono conto di come va la vita né dell’ingiustizia strutturale che emerge nei più svariati contesti.

Antonio Machado è uno dei miei poeti preferiti. Lo leggo e lo rileggo continuamente: la sua creatività e la sua semplicità al tempo stesso non cessano di entusiasmarmi, soprattutto dopo che ha superato la tappa modernista. I suoi riferimenti alla vita consacrata sono molto scarsi. In una poesia intitolata El tren (Il treno) parla di una “suorina” in un tono talmente mieloso e puramente spirituale, che finisce per infastidirmi. Dà l’impressione di non aver conosciuto la vita consacrata matura e naturale, incarnata e profetica, che vive gomito a gomito con le miserie della gente senza smettere di stare gomito a gomito con Dio. Forse la vita consacrata in quell’epoca offriva l’immagine caramellosa e dolce che Machado riflette nella sua poesia. Ecco alcuni dei versi a cui mi riferisco:

Davanti a me va una suorina così carina!
Ha quell’espressione serena che alla pena dà una speranza infinita. E io penso: Tu sei buona; perché hai dato il tuo amore a Gesù; perché non vuoi essere madre di peccatori. Ma tu sei materna, benedetta tra le donne, piccola madre verginale.

Nel tuo volto c’è qualcosa di divino sotto la cuffia di lino. Le tue guance - quelle pallide rose - si fecero rosate e poi arse nel tuo seno il fuoco; e oggi, sposa della Croce, sei luce, e soltanto luce...

L’immagine di vita consacrata che trasuda da questi versi risulta nauseante. Non credo che i nostri tempi necessitino o ammirino una vita consacrata con un profilo tanto etereo e superficiale. La vita consacrata non può essere rassegnazione, né bontà estatica, né rinuncia alla maternità di peccatori. Non può trasformarsi in guance rosate sotto cuffie di lino. In qualche tempo si è forse promossa una vita consacrata incolume e pura, ornata di forme e merletti; ma non è questa la vita consacrata di cui ha bisogno oggi il nostro popolo. Il miglior modo di puntare su una vita consacrata adulta e incarnata è la formazione permanente. Dobbiamo essere autentici professionisti della società senza smettere di essere professionisti dello Spirito.

Il baobab addomesticato

Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo... Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri... Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.

“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore...”[8].

Questo testo ci introduce in modo assai simbolico ed espressivo alla dinamica della vocazione. Quando Dio non occupa un posto preferenziale nella nostra vita, quando non ha avuto impatto su di noi, non significa niente di speciale. Possiamo credere in lui come se fosse un’idea, una speranza o un desiderio, una conclusione razionale o sentimentale, ma in tal caso non sarà l’unico al mondo. Sarà come quella volpe, simile a mille volpi. Ma se lui ci ha addomesticati e noi ci lasciamo addomesticare da lui...! Parliamo di addomesticare in senso metaforico. Potevamo parlare in senso biblico: se lui ci seduce e noi ci lasciamo sedurre (cfr. Ger 20,7), allora si produce in noi una dinamica nuova, di incontro, di passione, di gioia, di aspettativa. Esattamente come quello che dice la volpe: “Se mi addomestichi la mia vita si illuminerà. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri”.

Lasciarci catturare da Dio significa complicarci la vita, modificare la nostra rotta, essere aperti a vedere la vita con altri occhi, mettendo in gioco il cuore. E l’esperienza condivisa da tutti i profeti, da tutti gli eletti, da tutti i chiamati. Incontrarci con Dio è, nelle parole della volpe, imparare a scoprire il prezzo della felicità. Niente sarà più uguale, la vita si riempirà di connotazioni diverse e di registri nuovi. Per san Paolo tutto quello che viene prima sarà spazzatura (cfr. Fil 3,8); per santa Teresa si tratta di assumere una determinata determinazione; per Zaccheo si tratta di restituire ai danneggiati quattro volte tanto (cfr. Le 19,8); per i Magi implica tornare per un’altra strada (cfr. Mt 2,12). Non c’è vocazione autentica che non implichi un turbamento interiore e una rivoluzione del cuore.

Esiste, per la strada e nelle vetrine, una felicità d’occasione; è una felicità tumultuosa, rumorosa, folle, fino agli estremi; una felicità che si suole ottenere a forza di cose, di sensazioni nuove, di autorità o prestigio. Una felicità cercata con autoinganni, con bugie, con eroina o con estasi, ma questa felicità è così passeggera e occasionale che ci lascia come con i pòstumi di una sbornia e se ne va non appena la realtà si impone. C’è un’altra felicità, più serena, più estranea, più sacrificata. Più costosa. Uno degli inni della liturgia delle ore di Leopoldo Panerò8, la definisce “quella nobile tristezza che chiamano allegria”. È quella felicità interiore che è realmente trasformante e che produce una serenità profonda e incredibile e ci rende sempre più pacifici e umani.

I consacrati hanno esperienza di una felicità profonda e gioiosa, come un tesoro trovato nel campo che ci porta a vendere tutto per comprare quel campo (cfr. Mt 13,44). È la felicità che scaturisce dall’incontro con Dio e che ci trasforma in uomini e donne che si incontrano: con noi stessi, con gli altri, con la società, con i poveri, con la natura, con il cosmo. Siamo chiamati all’incontro. Se siamo persone che non si incontrano, allora siamo persone senza chiamata, senza vocazione. Essere senza vocazione nella vita è come aver perduto l’autobus quando più avevamo fretta, come voler suonare la chitarra e trovare che è scordata, come volerci sdraiare sul prato del parco e scoprire che è pieno di catrame. La vita senza vocazione all’incontro è uno sberleffo e una frustrazione. È una scommessa sulla solitudine più silenziosa e disabitata che ci sia: quella del cimitero.

A noi consacrati si legge in volto che siamo stati chiamati e che lo siamo tutti i giorni. Sapete perché? Perché ci chiamano e prestiamo attenzione; ci cercano e ci trovano; ci confidano una pena e ci sfugge una lacrima; ci invitano a una festa e non manchiamo; ci scontriamo con la giustizia e siamo capaci di sbottare in uno scatto di rabbia o di disgusto; ci sorride un bambino e ci sciogliamo. Ci poniamo in preghiera e un brivido ci corre dentro. Ci insultano e siamo capaci di sorridere. Ci lodano e subito arrossiamo. Abbiamo una profonda vocazione all’incontro perché Dio ci ha incontrato e noi ci siamo incontrati con lui. La vocazione non è un’esperienza in più della vita. È la vita che si fa esperienza. Non è un istante, è un processo; non è una voce, è un compito; non è un sentimento, è un’utopia. È la sensazione di sentirci abitati e popolati sulla piccola isola che ciascuno di noi è. Ecco come ne parla Gloria Fuertes:

Su quest’isola che sono, se qualcuno vi arriva, è mio desiderio che s’incontri con qualcosa - sorgenti di versi infiammati e cascate di pace sono ciò che possiedo. Un nome che mi sale lungo l’anima e non vuole che io pianga i miei segreti; e sono terra felice - perché ho l’arte di essere beata e povera al tempo stesso. Per me è un piacere essere ignorata, isola ignorata dell’oceano eterno.
Al centro del mondo senza un libro, so tutto, perché è giunto un missionario e mi ha lasciato una Croce per la vita - per la morte mi ha lasciato un mistero.

La vocazione è, dunque, una croce: “chi vuole seguirmi, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). Ed è un mistero, come la forza del lievito, della luce, del sale... come il chicco di grano interrato, come la mattina di Pasqua. La vita consacrata desidera soltanto essere addomesticata dal suo Signore, che è lo Spirito. Ha ansia e necessità di Dio, dei suoi passi, della sua presenza, delle sue risonanze. Il prezzo della sua felicità è la ricerca incessante di Dio tra le tenebre del mondo, dell’orrore e dell’ingiustizia, della sofferenza e della violenza. I migliori momenti e le conquiste della vita consacrata sono quelli che ha dedicato a sentire Dio, a celebrarlo, a contagiarlo. Non è certo ai margini dell’esperienza di Dio.

La vita consacrata si sente addomesticata dal suo Signore e non desidera essere addomesticata da nessun altro. Desidera conoscere i passi di Dio, le orme della sua presenza nell’umanità. “Gli altri passi”, dice la volpe al piccolo principe, “mi fanno nascondere sotto terra”. C’è chi desidera una vita consacrata addomesticata da molti padroni, rinchiusa nella sacrestia, ridotta a puro aroma di incenso, impersonale, muta e sommessa. Ma essa riconosce soltanto i passi del suo Signore come una musica. “Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il granò, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...”n.

No alla vita consacrata sottomessa, relegata in un angolo, servile, senza capacità critica, timorosa e dipendente.

La modernità ci sta chiamando a illuminare dalla nostra condizione di consacrati la realtà che passa in questo momento davanti a noi. Se la vita consacrata del presente e del futuro delega o rinuncia alla sua condizione profetica sarà invasa dalle lunghe radici dell’autoritarismo e del controllo. Sarà sottomessa da tutti i poteri materiali del momento. Sarà prigioniera di ideologie e denaro. Sarà addomesticata e ammansita da molti, perché funga da animale di compagnia. Non interessa sul pianeta della Chiesa una vita consacrata senza mordente e senza capacità profetica. Ha sempre goduto di una forte personalità, di una grande creatività e audacia, di una iniziativa coraggiosa e disposta al martirio. E la nuova vita consacrata che deve sorgere - e sta già sorgendo - non può rinunciare alla sua storia e alla sua bella missione. Una vita consacrata con l’alzheimer non interessa sul pianeta della Chiesa. La vita consacrata è un carisma e, come tale, molto libera, molto intraprendente, molto universale.

Il baobab autosufficiente

No alla vita consacrata fatta di individualismi, di fragilità affettive, di distanze interpersonali, di autosufficienze e sterili solitudini.

La battaglia affettiva è la prima che la persona deve vincere per sentirsi chiamata alla vita e alla felicità. Gran parte dei nostri traumi e solitudini, dei nostri incontri mancati e abbandoni hanno a che fare con questa battaglia sempre aperta e non sempre vinta, che dura tutta la vita e nella quale mettiamo realmente in gioco il nostro castello.

Per qualche tempo si è avuta l’impressione che la battaglia della vita affettiva non riguardasse la vita consacrata; era piuttosto un tema mondano e lontano dalla spiritualità dei consacrati. Di fatto la nostra formazione su temi affettivi e la nostra conoscenza della psicologia dell’essere umano hanno lasciato molto a desiderare nei nostri piani formativi.

Negli ultimi anni ci stiamo impegnando a fondo in questa battaglia, convinti dell’importanza che il mondo affettivo riveste nel vivere in modo maturo i nostri voti e nella felicità che deve accompagnare la nostra opzione di consacrati. Forse le batoste che molti di noi e dei nostri fratelli hanno ricevuto, in relazione all’affettività, ci hanno messo in guardia.

Noi consacrati non possiamo rinunciare all’amore umano e all’affetto personale e comunitario, perché sarebbe come rinunciare a essere integralmente uomini e donne. Da questa fragilità spirituale negli affetti che abbiamo vissuto stiamo passando a poco a poco a una realtà relazionale e affettiva più ricca, più elaborata, più umana, più gratificante. Ma ci resta ancora molta strada da percorrere perché le nostre comunità non siano enti freddi e svuotati di affetto; perché i giovani che si avvicinano a noi ci scoprano vicini e accoglienti, impegnati in un progetto di incontro interpersonale e di dialogo permanente che risulti attraente per loro. Se il baobab dell’incomunicabilità cresce eccessivamente sul nostro piccolo pianeta, prima o poi esploderà. Il peggior esplosivo della vita comunitaria è la mancanza di amore, la mancanza di incontro: è la solitudine disabitata.

Il baobab narcisista

“Buon giorno”, disse il piccolo principe, “che buffo cappello avete!”.
“È
per salutare”, gli rispose il vanitoso. “È per salutare quando mi acclamano, ma sfortunatamente non passa mai nessuno da queste parti”.
Ah sì?”, disse il piccolo principe che non capiva.
Batti le mani l’una contro l’altra”, consigliò perciò il vanitoso.
Il piccolo principe batté le mani l’una contro l’altra e il vanitoso salutò con modestia sollevando il cappello[9].

No alla vita consacrata che alimenta se stessa, che guarda se stessa, che si pone come fine a se stessa.

Per molti anni abbiamo trasformato la vita consacrata in un sistema di retroalimentazione e autorifornimento ammirevole. E ha funzionato più o meno bene. Le congregazioni a fatica uscivano da se stesse e la formazione era orientata a promuovere l’istituzione, a perpetuarla, a rafforzarla sempre più nell’insieme della Chiesa e per la missione.

La debolezza delle nostre istituzioni attuali, la chiusura di molte case, la mancanza di forze vive per mantenere e puntellare le nostre strutture ci hanno fatto scoprire che non siamo per le istituzioni, ma per il carisma, per il Regno. Sprecare forze eccessive nella propria istituzione quando scarseggiano, ci sembra uno sproposito.

Ed è sorto spontaneamente - ma sicuramente lo Spirito c’entra molto - uno sguardo che va oltre noi stessi, le nostre istituzioni, oltre l’istituzione ecclesiale. Non per rinnegarle, ma per trascenderle. È uno sguardo lungo che punta verso l’orizzonte.

Percepiamo in effetti con una certa chiarezza che Gesù non era in funzione delle istituzioni - che piuttosto mise in discussione e purificò - ma in funzione della Buona Novella e del Regno, dove i poveri e gli emarginati hanno un grande ruolo e diventano definitivamente i protagonisti.

Noi consacrati non siamo per il tempio, per la legge, per il diritto, per le istituzioni; lo siamo per essere buona notizia di Gesù, incarnata nel nostro popolo. Pei questo forse dobbiamo formare istituzioni e strutture, non in funzione di se stesse, ma dei poveri e dell’annuncio della Buona Novella del Vangelo. E per questo forse dobbiamo mettere in discussione o riformare strutture del passato che non esercitano più un ruolo decisivo di incontro e di vicinanza con i destinatari della Buona Novella ai quali siamo stati inviati.

Il baobab patriarca

No alla vita consacrata patriarcale, che emargina la donna e la rende dipendente.

Nessuno ormai mette più in discussione il fatto che l’uomo e la donna sono pari secondo il Vangelo e chiamati alla complementarità in tutti gli ambiti della vita sociale. Il mondo dell’islam non ha ancora fatto propria questa realtà e, senza dubbio, subirà nei prossimi anni un profondo movimento di illuminazione e una tremenda convulsione interna, perché la storia avanza e l’uguaglianza di uomini e donne si va imponendo a forza di logica e di ragione. Vedremo molte battaglie in questo ambito, ora che tanti musulmani cominciano a integrarsi nella cultura occidentale e cristiana, e scoprono che certe posizioni dell’islam si scontrano in maniera definitiva con la cultura occidentale e cristiana. Ci sono due strade: o i fratelli musulmani si aprono alla realtà che li circonda e assumono con serenità questi valori nei quali il mondo occidentale non può tornare indietro; o invece si pongono ai margini della realtà, disintegrati dalla cultura circostante e, in questo caso, il conflitto sarà scontato e sarà la legge a dover essere applicata decisamente per evitare situazioni di conflittualità e violenza.

Dicevo che il mondo occidentale sembra già aver assunto come una conquista l’uguaglianza tra uomo e donna, almeno in maniera teorica. La donna non è più la padrona di casa ufficiale che passa la vita tra le pentole e cresce i figli senza uscir di casa. La donna, per fortuna, occupa oggi posizioni di prestigio nel mondo della cultura, nella politica, nel mondo universitario, nelle arti e in tutta la realtà sociale. Altra questione poi è vedere se questa uguaglianza si incarna realmente nei singoli eventi che configurano il nostro procedere nel XXI secolo o se la distanza tra ciò che pensiamo e ciò che realmente facciamo si amplia ogni giorno di più.

Nella vita consacrata i passi che abbiamo compiuto in questo senso sono molto significativi e senza possibilità di fare marcia indietro. Nell’insieme dell’istituzione ecclesiale questi passi sono molto lenti, ma, ne sono certo, a poco a poco prenderanno il ritmo che la modernità impone. La Chiesa non può restare estranea a questa nuova posizione della donna nella nostra cultura e nel nostro contesto.

La teologa Isabel Gómez Acebo diceva recentemente che “nelle nostre fila risulta strano vedere come molte religiose continuino a essere sottomesse ai loro omologhi maschi, che alcune devono chiedere consulto per le loro vesti e che le monache di clausura non seguono le stesse norme dei monaci...”10. Effettivamente è necessario che si sviluppi una sensibilità nuova sul tema del ruolo che la donna deve avere nella Chiesa e nella vita consacrata, senza trincerarci dietro posizioni irremovibili che cozzano apertamente con la circostante realtà sociale. Facciamo in modo di non doverci lamentare poi se il nostro popolo, e specialmente i giovani, si allontanano dalla Chiesa senza che ne sappiamo il perché. Un maggior protagonismo della donna nella dinamica quotidiana della Chiesa non potrà mai essere una minaccia, ma piuttosto una ricchezza e una promessa che amplia il futuro.

La vita consacrata deve alle donne conquiste impressionanti e un’ammirevole capacità di donarsi tipicamente femminile, materna e caritativa. La presenza femminile in questi ambiti umanizza e apporta una grande creatività grazie al dinamismo proprio della psicologia femminile che tende a essere più affettiva, più attenta ai dettagli, più spontanea, più poetica.

La Chiesa non solo non considera un problema la donna, ma riconosce che ella ha un potenziale impressionante di vita e di capacità di dono che non può sprecare con argomenti inconsistenti e stantii, che ci immobilizzano nel passato e ci allontanano dalla realtà più viva.

Il baobab patriarcale è in ritirata nella vita consacrata, e desideriamo che lo sia anche nel seno del popolo di Dio. Il piccolo principe direbbe che “bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli”[10].

L’elenco di donne che stanno offrendo grandi e preziosi contributi alla riflessione teologica, nel laicato o nella vita consacrata, cresce di giorno in giorno. La teologia femminile si fa strada da sola mediante una lunga lista di nomi già consacrati, contribuendo con nuove prospettive e sfumature che aggiungono colore e profondità alla riflessione condivisa.

Non possiamo concepire la vita consacrata del presente e dell’immediato futuro senza l’apporto decisivo della donna e la sua fondamentale uguaglianza con gli uomini. Altrimenti sarebbe come lottare contro i mulini a vento, convinti che si tratti di giganti.

Il baobab sfuggente

“Dove sono gli uomini?”, domandò gentilmente il piccolo principe.
Un giorno il fiore aveva visto passare una carovana:
Gli uomini? Ne esistono, credo, sei o sette. Li ho visti molti anni fa. Ma non si sa mai dove trovarli. Il vento li spinge qua e là. Non hanno radici, e questo li imbarazza molto”[11].

No alla vita consacrata che fugge dal mondo, rifugiata nei suoi castelli d’inverno in cerca di uno stato di perfezione che la allontana dal popolo e dai poveri. No a una vita consacrata sradicata, senza profondità, senza umidità, senza i piedi per terra, senza cuore o con il cuore di pietra.

Il sacerdote e il levita del Vangelo erano immersi nella loro spiritualità, nei loro doveri verso il tempio, e passarono oltre il ferito steso per terra al bordo della strada. Passarono sfuggendo la realtà. Non è un atteggiamento estraneo e sconosciuto per noi. Spesso nella storia della vita consacrata abbiamo guardato dall’altra parte, all’interno, ai nostri doveri religiosi e monastici, in atteggiamenti realmente angelici, e ci siamo persi il fragore della battaglia là dove soffre e si consuma l’umanità.

Oggi, come in altri tempi, corriamo lo stesso pericolo. Possiamo guardare dall’altra parte, passare oltre, perché non ci riguarda la realtà di centinaia di famiglie indebitate a causa di ipoteche, dei figli drogati, della situazione di tremenda solitudine di molti anziani, che vivono e muoiono male dietro le porte accanto alle nostre. E in un altro ordine di cose possiamo chiudere gli occhi davanti a quell’altra realtà più lontana che ci raggiunge ogni giorno sotto forma di notizie raccapriccianti e che trasforma la vita umana in mercanzia e promesse vane. Esiste un sistema strutturale di ingiustizia, alimentato dagli imperi, che genera sofferenza in abbondanza, fa scoppiare guerre atroci e interminabili e rafforza l’oppressione dei potenti sui più deboli.

Una vita consacrata sfuggente non interessa a nessuno. Marx lanciò ai credenti un guanto e una sfida - e non era molto lontano dalla realtà - quando ci accusò di essere “oppio del popolo”. L’itinerario percorso successivamente, in particolare a partire dal Vaticano II, diede torto a Marx. L’incarnazione della vita consacrata nella realtà sofferente dei nostri popoli è stata una costante ammirevole e continua a esserlo in migliaia di consacrati che condividono la loro vita con i più poveri dei poveri. L’icona di umanità del XX secolo - e quindi di santità - più accettata da tutti è una consacrata: madre Teresa di Calcutta. Nell’anno 2009 sono stati assassinati 37 operatori di pastorale, sacerdoti, religiosi, religiose e laici, impegnati a essere strumenti a favore della giustizia e dello sviluppo dei popoli. Nessuna istituzione sociale annovera nel suo albo d’oro un raccolto di santità e di martirio così grande.

Ma il pericolo di questo baobab dell’evasione è sempre all’agguato e ci minaccia nei nostri impegni “decaffeinati” e comodi, borghesi e accondiscendenti. La vita consacrata, per esserlo veramente, va sempre intimamente unita all’incarnazione. Verso tali terre ci spinge continuamente lo Spirito Santo e, se ci spinge, non possiamo non andare.

Il baobab magistrato

“Giudicherai te stesso”, gli rispose il re. “È la cosa più difficile. È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri. Se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente un saggio”[12].

No a una vita consacrata che giudica, esclude, condanna e rifiuta.

Noi consacrati abbiamo sempre avuto la capacità di saperci collocare con grande precisione in uno spazio ideologico molto concreto, all’ombra di alcuni valori ben accetti, protetti da verità ben assimilate, spalleggiati da una tradizione molto antica che finisce per fare scuola. Qualcosa di simile a un esercito di uomini e donne disciplinati, a conoscenza dei propri obblighi e sotto un regime di stretta autorità sostenuto dal nostro voto di obbedienza. Mentre invece il resto dei mortali si trovava in un altro spazio, a volte molto lontano da noi, invischiato nelle sue mezze verità quando non nei suoi errori. E in gran parte ciò si deve alla nostra resistenza e lentezza attuali a entrare in un dialogo aperto e sereno con la modernità, con gruppi ideologici diversi da noi, con i controvalori che circolano per strada e che ogni giorno sono sempre più valori per la società. “L’inferno sono gli altri”, pensavamo, e “al di fuori dei nostri spazi non c’è salvezza”; ma i nostri spazi si stanno svuotando e corriamo realmente il rischio di restare soli nel nostro “cielo”.

La pluralità multicolore che la nostra società attuale vive e l’immenso arcobaleno di ideologie che tutti i giorni si dibattono per la strada e nei mezzi di comunicazione sta mettendo in discussione anche il nostro ambito ideologico e il nostro schema chiuso di valori e priorità. E non è un male che sia così. Il peggio che poteva succederci era che restassimo fossilizzati in uno schema chiuso e paralizzato di valori e di idee, come dinosauri condannati a estinguersi.

La vita consacrata non è chiamata a giudicare, ma ad amare; non è chiamata a squalificare, ma a perdonare; non è chiamata a escludere, ma a integrare; non è chiamata a separare ma a radunare. Non esiste realtà umana possibile in cui la vita consacrata non debba rendersi presente con una parola di consolazione e di incoraggiamento, evangelica e samaritana.

Il Vangelo non ha mai avuto paura di scontrarsi con la realtà, con l’ambiente ebraico e con il mondo greco, con i pagani e con gli stranieri, con quelli di dentro e con quelli di fuori. Proprio inculturandosi in tutti gli ambienti è riuscito a dare il meglio di se stesso e si è notevolmente arricchito nella sua proposta umanizzante. Il dialogo di san Paolo con il mondo greco aprì il Vangelo a una vasta cultura nella quale il cristianesimo ha raccolto frutti abbondanti.

La società postmoderna attuale ci invita quotidianamente al dialogo, al dibattito, all’incontro. Non possiamo, come consacrati di oggi, restare ai margini del dibattito culturale e sociale nel quale ci troviamo immersi. Dobbiamo andare incontro a tutti. E potremo farlo soltanto quando avremo coltivato un atteggiamento di rispetto, di valorizzazione del diverso, di interesse per l’altrui; quando saremo disposti a superare le nostre reticenze e, ancor più, i nostri atteggiamenti di disprezzo, di condanna, di esclusione. Finché saremo convinti che fuori di noi e del nostro ambito sacro e di culto non c’è salvezza, non sarà possibile un incontro reale con la cultura del momento. Mantenerci in un atteggiamento di difesa permanente, di diffidenza, di vittime dinanzi all’impudenza di questa modernità che mette tutto in discussione, è come isolarci e renderci sordi e ciechi allo tsunami che passa e che prima o poi colpirà tutti noi.

La missione della vita consacrata oggi, più che in altri tempi, è andare incontro a tutti ed essere disposti ad accompagnare tutti. Il nostro popolo saprà perdonarci qualunque cosa, tranne che il voler costituire una casta superiore, una classe di puri e di ritualisti, un gruppo rinchiuso nei suoi schemi levitici che se ne lava continuamente le mani, in un’ansia ritualista assurda, per evitare di contaminarsi con l’odore e con il chiasso della nostra gente.

Il baobab clonato

No a una vita consacrata clonata, uniforme, intollerante, incapace di celebrare e godere con la pluralità.

Che gioia e fortuna la pluralità! Com’è bello che ci sia tra noi gente originale, distinta, diversa! Quale ricchezza e varietà di carismi ha donato lo Spirito alla vita consacrata, alla Chiesa e alla società!

Un gruppo umano dove non esiste il diverso, dove si unificano i criteri e i pensieri, dove non c’è spazio per una sana dissidenza, dove viene soffocato lo spirito critico, dove l’obbedienza cieca si impone come un muro insuperabile, dove l’autorità diventa freno permanente invece di essere ambito di incoraggiamento e sostegno, diventerà una setta perniciosa e ostile; il più lontano possibile dal Vangelo. Tutti conosciamo qualche setta intorno a noi e la povertà umana che vi si constata è scoraggiante. Noi cristiani dobbiamo rifuggire dallo spirito di setta come il gatto fugge dai carboni accesi. La cattolicità del nostro spirito è una casa dalle porte e finestre aperte, dove l’aria fresca della modernità entra senza ostacoli- Tutta l’aria! Anche l’aria inquinata della strada e della vita ha diritto a godere del vento di Pentecoste. Le uniformi e le forme esteriori sono, molte volte, espressione di uniformità interiori dove non c’è spazio per la pluralità.

Sogno una vita consacrata che sia ambito permanente di libertà, di dialogo e di incontro. Dove non si accumulino né si archivino i temi tabù, ma il dialogo sia capace di chiamare ogni cosa con il suo nome. Dove non ci scandalizziamo per delle inezie ma siamo disposti come fratelli a vagliare tutto ciò che genera in noi sfiducia o paura. Evidentemente ciò richiede molta maturità, molta profondità umana e spirituale, e non sempre siamo in condizioni di coltivarla. Ma questo ideale non può essere emarginato all’orizzonte delle nostre migliori aspettative.

L’obbedienza nella vita consacrata non viene letta in chiave evangelica. Preserva molte reminiscenze di autoritarismo e di uniformità; ma sta crescendo, fortunatamente, una lettura dell’obbedienza più evangelica, che ha a che fare con il dialogo e il rispetto della differenza; più con l’incoraggiare che con il correggere; più con lo spronare che con il reprimere. L’autorità è servizio e animazione nella vita consacrata - e nel popolo di Dio - altrimenti, la cosa migliore è isolarla e passarne al largo, per evitare imposizioni ideologiche camuffate da ortodossie, che ci trasformano in istituzioni del passato, poco interessanti per il mondo giovanile.

Il rapporto della Fundación Santa Maria, “Giovani spagnoli 2005”, rivelava che l’80% dei giovani non avevano fiducia nell’istituzione ecclesiale perché si presenta “troppo ricca, impegnata politicamente e antiquata in materia sessuale”. Non voglio ora entrare nel merito della questione se i giovani abbiano ragione o meno; ma non può non essere preoccupante - e dovrebbe essere motivo di profondo discernimento per tutti - il fatto che i giovani, in una percentuale così alta, la pensino così. “Quando il fiume rumoreggia”, dice il vecchio adagio, “porta acqua”.

La cattolicità della Chiesa, l’universalità della vita consacrata, vanno di pari passo con la diversità, la pluralità, la multiculturalità. Sarebbe una scandalosa contraddizione se fossimo contrari alla clonazione di esseri umani e favorissimo la medesima clonazione ideologica tra noi stessi. Dove soffia lo Spirito ci sono necessariamente vasti spazi di libertà.

Il baobab scollegato

No a una vita consacrata ai margini della comunione, convertita in magistero parallelo e senza legami di impegno con la Chiesa locale.

In non pochi pastori della Chiesa esiste la strana sensazione che la vita consacrata proceda per sentieri paralleli, quando non addirittura opposti. Si respira un certo timore - non generalizzato - che la vita consacrata diventi un magistero parallelo, una forma diversa di concepire la Chiesa e di lavorare al suo interno. Alcuni hanno parlato di bolle pastorali che galleggiano nelle Chiese locali. Forse pesano esperienze di altri tempi e di altri continenti. Sto pensando a una vita consacrata molto profetica e testimoniale in America Latina, che in alcuni momenti ha proposto forme di vivere e impegni in mezzo al popolo che “sconfinavano” in atteggiamenti politici partitici e che hanno generato una certa sfiducia nei pastori.

Ma non credo che sia il caso concreto dell’Europa. Questa sfiducia di alcuni pastori verso la vita consacrata è solo frutto della poca conoscenza e della mancanza di spazi per l’incontro e il dialogo. Ogni volta che si realizzano incontri e il dialogo è reso possibile, si smascherano tanti timori e sospetti che erano stati alimentati da voci, in diverse occasioni, interessate. Dobbiamo affrontare i fantasmi che circolano tra noi per mancanza di trasparenza e dialogo. Non possiamo permetterci, nei tempi che corrono, atteggiamenti di rifiuto dell’incontro, che ci squalificano presso il popolo di Dio e che rendono inconsistente la nostra offerta evangelizzatrice.

La vita consacrata è Chiesa di Gesù, si sente Chiesa e non vuole cessare di esserlo in nessuna circostanza. Le riflessioni più attuali - certamente molto ricche e frequenti - che noi consacrati e consacrate stiamo portando avanti, insistono e concordano sul lavorare con impegno per l’unità e la comunione, sul costruire una Chiesa unita e aperta, sull’unire le forze tra tutti, pastori, consacrati e laici, per spingere nella stessa direzione. Possono esserci - ci sono in tutti gli ambiti - problemi specifici o particolari che compromettono la comunione, che sono deplorevoli e recano un danno profondo alla Chiesa. Ma sono casi assolutamente minoritari e mai generalizzabili.

Non è giusto criminalizzare tutta una collettività, sia essa di pastori, di consacrati o di laici, per situazioni particolari molto isolate. Ma al tempo stesso questa realtà deve portarci tutti a essere aperti e tolleranti con gli altri, per non imporre stili e forme in cui alcuni fratelli e sorelle possano trovarsi a disagio. Diceva sant’Agostino che in tema di opinione c’è libertà. E così dev’essere. Non è bene convertire i temi di opinione in questioni chiuse. Uno zelo eccessivo, degli uni o degli altri, nel regolare, controllare, limitare, correggere può invadere quell’area immensa che lo Spirito ha donato ai credenti: la libertà dei figli di Dio. E non per cattiva volontà, che non esiste, ma per un eccesso di zelo, che, nel caso dei genitori verso i figli, finisce per educarli male.

È necessario abbandonare le paure e confidare di più nello Spirito; limitare meno e promuovere di più; diffidare meno e ascoltare attentamente tutti. Il cosiddetto concilio di Gerusalemme deve sempre essere per noi un punto di riferimento per il dialogo, l’ascolto, l’accettazione e il perdono. In quella sede la fraternità si impose sull’autorità e tutta la Chiesa ne uscì beneficiata. Abbiamo bisogno di una fraternità crescente e generosa.

La vita consacrata non può vivere ai margini delle Chiese locali dov’è inserita e dove vive e lavora; come non può vivere ai margini di quell’impegno universale che la rende disponibile e missionaria. Si possono coniugare perfettamente, e lo vediamo tutti i giorni, l’universalità della vita consacrata e l’incarnazione nella Chiesa locale. I consacrati devono prestare le loro forze alla Chiesa locale e i pastori devono contare sui consacrati per le loro Chiese locali nei loro piani di pastorale. Ignorarci vuol dire impoverirci tutti. Molte delle nostre povertà pastorali nell’ambito delle nostre Chiese locali si spiegano con questa reciproca mancanza di conoscenza, con competizioni assurde e, soprattutto, con un silenzio deciso che ci allontana.

La Chiesa locale non può cadere nel riduzionismo assurdo di contemplare come pastorale unicamente ciò che deriva dalle iniziative della propria parrocchia. Qualsiasi cristiano, per il solo fatto di essere battezzato, è obbligato a essere testimone e a esercitare la sua piccola pastorale là dove si trova. Ancor più le comunità di consacrati e consacrate nelle loro opere e missioni specifiche, là dove lavorano. La chiave di un maggior successo pastorale sta nel coordinare, incoraggiare, includere, dialogare, perché sia un fronte pastorale comune e assunto da tutti. Ciò eviterebbe malintesi, impedimenti, imposizioni e autoritarismi ai quali, purtroppo, siamo abituati. Deve nascere, ora più che mai, un modo di elaborare la pastorale della Chiesa a partire dall’unità di forze e proposte. E ciò significa sradicare quanto prima il baobab franco tiratore e scollegato. Lavorare in rete è oggi un principio sempre più condiviso da tutti.

Il baobab adempiente

No a una vita consacrata che pone l’accento e la propria sicurezza nella fedeltà ai voti.

Il quarto pianeta era abitato da un uomo d’affari. Questo uomo era così occupato che non alzò neppure la testa all’arrivo del piccolo principe.
Buon giorno”, gli disse questi. “La vostra sigaretta si è spenta”.
“Tre più due fa cinque. Cinque più sette: dodici... Ventidue più sei: ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ventisei più cinque trentuno[13].

Il fariseo che pregava in piedi nelle prime file della sinagoga e si sentiva giustificato per quello che era e quello che faceva, cammina ancora con noi oggi, consacrati del XXI secolo. È un baobab pericoloso che ci disumanizza e affonda le sue radici nella terra dell’adempimento, della legge, di ciò che è comandato.

La legge è la risorsa degli insicuri, dei paurosi, degli scrupolosi. Abbiamo bisogno della legge, ma al servizio delle persone. “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).

Se ordiniamo la vita consacrata in funzione dell’adempimento dei voti, degli orari, delle programmazioni, delle costituzioni... diventiamo uomini normativi e incasellati. Ciò che realmente ci arricchisce e ci fa crescere è la vita e l’amore che sappiamo mettere in tutto quello che fa parte del nostro cammino quotidiano. Si possono recitare i vespri con amore o con noia, godendone o soffrendo. Non si tratta solo di recitare le nostre preghiere. Si tratta di entrare in contatto e di godere della presenza di Dio; di assaporare le sue risonanze e di metterci in atteggiamento di ascolto.

Ricordo un aneddoto, un episodio a cui assistetti, in una comunità di religiose, durante un momento di preghiera comunitaria. Alcune giovani fecero partire come sottofondo per la preghiera una musica molto ritmata, con una base di batteria e chitarre elettriche. E il volume era considerevole. Nel silenzio della preghiera cominciarono a sentirsi percussioni forti che invitavano a muovere ritmicamente il corpo. Alcune delle sorelle più anziane che se ne stavano molto raccolte - non dico addormentate - alzarono la testa sorprese, chiedendosi che cosa stesse succedendo. Una delle sorelle ordinò immediatamente di abbassare il volume perché in quel modo era impossibile concentrarsi. Le giovani si mostrarono chiaramente contrariate, ma abbassarono il volume per non infastidire le sorelle. Alla fine del canto fu letto un testo spirituale. Una delle sorelle anziane, con la mano all’orecchio, si lamentò che leggevano a voce troppo bassa e che lei aveva problemi di udito. Bisognò alzare il volume tra le risate di alcune giovani. Quando fu il momento di recitare a due cori il Magnificat fu praticamente impossibile trovare un ritmo. Alcune superavano le altre, correvano di più, mentre altre erano più lente e non c’era modo di adeguarsi le une alle altre. Ricomparvero le risate di alcune e gli sguardi infastiditi di altre perché sembrava proprio un concerto stonato. Alla fine pregammo per tre quarti d’ora, ma in realtà non pregammo. Avevamo compiuto l’orario e il rito previsto, ma non era stato facile, per le avverse circostanze, creare un clima di serenità e di pace per entrare in un ambiente di preghiera sentita.

Perché racconto questo aneddoto? Per distinguere quello che è adempiere un dovere da quello che è pregare. Per dire che l’adempimento non è segno di fedeltà. Evidentemente senza adempimento non è nemmeno possibile la fedeltà; ma il primo deve porsi al servizio della seconda e mai diventare fine a se stesso. L’ideale che richiama i consacrati è legato all’ammirazione e all’adesione a Gesù di Nazareth che desideriamo coltivare. E a questo ideale sono chiamate tutte le forme e tutte le leggi. Una vita consacrata legalista, eccessivamente regolata e controllata, risulta opprimente e artificiale. Il baobab adempiente deve cedere il passo all’albero della gratuità nella vita di ciascun consacrato e delle nostre comunità.

Il baobab dirigente

“Io conosco un pianeta su cui c’è un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che addizioni. E tutto il giorno ripete come te: "Io sono un uomo serio! Io sono un uomo serio!" e si gonfia di orgoglio. Ma non è un uomo, è un fungo!”[14].

No a una vita consacrata avviluppata in mille documenti e programmazioni che non coltiva ampi spazi per la liturgia, per la bellezza, per la festa, per l’incontro, per godere la vita.

Il peggio che potrebbe capitare alla vita consacrata in questi tempi è che si trasformi in un istituto di uomini e donne seri e formali, come in uno stato di perfezione, che fanno della loro opzione un carcere di sentimenti. Come se essere fedeli a Dio, nella nostra consacrazione, consistesse nel chiuderci alla vita, nell’adempiere fedelmente alle norme e nel disinteressarci di quella realtà festiva e rumorosa che è la vita in cui vivono, lavorano, sognano e si divertono gli uomini e le donne. La vita consacrata è chiamata a umanizzare e riempire di festa la vita con la speranza a cui siamo stati chiamati e con la certezza che pone in noi un Dio pieno di amore e di passione per i suoi figli. La vita consacrata non può essere un ufficio delle cose spirituali o un laboratorio di programmazioni serie, con polizze, sigilli ufficiali e sportelli dove ci sentiamo dire: “Torni domani”.

Percepisco in alcuni giovani - fortunatamente molto pochi - un interesse strano nell’agghindarsi del passato, di un fare signorile e ufficiale, convinti che la dignità della nostra consacrazione dipenda dall’etichetta, dall’abito scuro e dall’eccesso di amido. O, all’estremo opposto, alcuni giovani preoccupati di vestirsi con abiti firmati fino alle calze. Ancora una volta le forme si riempiono di ragione, rivestendo di un guscio esterno l’essenza della consacrazione autentica, la grazia di un cuore modellato secondo il desiderio di Dio e pieno di misericordia e di compassione, che non cerca uno stile di classe ma vuole mescolarsi e contaminarsi con l’umanità ferita gravemente. La vita consacrata è una scommessa sulla semplicità, sulla naturalezza, sull’austerità. La vita consacrata non è quella che se ne va in giro agghindata e facendosi notare; è quella che ascolta e accompagna, senza protagonismi né rilevanze, senza etichette né tagli d’abito, convinta che, vicinissimo alla vita e ai poveri, Dio cammina, parla e soffre con i suoi figli. Noi consacrati non vogliamo essere dirigenti della vita spirituale, che camminano in fretta con la loro valigetta di cose imparate senza fermarsi con la gente, senza contemplare la bellezza del tramonto o senza il tempo di ascoltare, che fanno attenzione a non sedersi sulla panchina del parco dove arrivano i mendicanti, per paura di sgualcirsi la piega dei pantaloni o dell’abito.

Pensiamo all’Abbé Pierre. Il suo impegno e la sua vita al servizio dei poveri lo hanno fatto diventare l’antitesi del dirigente spirituale. La sua rivoluzione tra i “trappisti di Emmaus” è riuscita a rendere credibile il Vangelo e a trasmettere la speranza ai poveri. Lo stesso papa Benedetto XVI ha voluto unirsi con un telegramma di intense condoglianze al sentimento di tristezza che ha contagiato molti uomini e donne, credenti e non, di tutta l’Europa.

Il baobab dell’apparenza

Il quinto pianeta era molto strano. Vi era appena il posto per sistemare un lampione e l’uomo che l’accendeva. Il piccolo principe non riusciva a spiegarsi a che potessero servire, spersi nel cielo, su di un pianeta senza case, senza abitanti, un lampione e il lampionaio. Eppure si disse:

“Forse quest’uomo è veramente assurdo. Però è meno assurdo del re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e dell’ubriacone. Almeno il suo lavoro ha un senso. Quando accende il suo lampione, è come se facesse nascere una stella in più, o un fiore. Quando lo spegne, addormenta il fiore o la stella. E una bellissima occupazione, ed è veramente utile, perché è bella”[15].

La forza della vita consacrata non sta nei numeri, nelle statistiche, nell’influenza sociale, nell’economia... sta nella fedeltà. Sta nella capacità testimoniale, simbolica e referenziale. Sta nella forza della sua debolezza. Sta nella capacità che abbiamo di promuovere la vita, di creare la vita, di animare alla gioia di vivere. Il piccolo principe è stato capace di offrirci una definizione molto ben riuscita della vita consacrata attraverso il simbolo del lampione e del lampionaio. “È veramente utile, perché è bella”.

La forza della vita consacrata non sta nella sua potenza, ma nella sua debolezza. I momenti della storia in cui la vita consacrata ha avuto un peso numerico considerevole nel complesso della Chiesa coincidono con i suoi momenti di maggior decadenza. Non è il numero ciò che rende la vita consacrata preziosa e necessaria. E se comprendessimo questo forse supereremmo, una volta per sempre, quell’insistente “antifona” che recitiamo tutti i giorni, che si diffonde come un’influenza aviaria nelle nostre comunità: ah, quelli che eravamo prima! Uno sguardo nostalgico che ci fa retrocedere, che ci sequestra verso il passato, che ci chiude alla speranza e alla creatività.

La forza del lievito non sta nella sua quantità, ma nella sua capacità di fermentare. La forza della luce non sta nella sua intensità, ma nella sua capacità di indebolire l’oscurità. Una luce eccessiva produce cecità e abbaglio fino a impedirci di vedere. La missione della vita consacrata non è quella di puntare gli abbaglianti per accecare e impressionare tutti quelli che passano; la sua missione è tenere accesi gli anabbaglianti per farci vedere senza accecare, per illuminare i sentieri della vita senza imporre, per dissipare la nebbia con la sola presenza del nostro passaggio. La luce della lucciola colpisce non per la sua intensità, ma per la sua bellezza.

La forza della vita consacrata sta nell’illusione e nella scommessa utopica sulla follia della croce e sulla speranza della domenica. Siamo consapevoli che la vita consacrata deve necessariamente morire, perché non è la Pasqua. E il modo migliore di morire è regalando la vita. Come lo esprime bene Gloria Fuertes!

Anche se non morissimo morendo, è giusta per tale circostanza la parola: Morte. Morte è che non ci guardino quelli che amiamo, morte è restare solo, muto e quieto e non poter gridare che sei ancora vivo.

Ci sono molte realtà alle quali dobbiamo necessariamente morire. La semina è piena di morte, andando piangevano... (cfr. Sal 125,6). La vita consacrata non è una lotta per sopravvivere, ma per vivere “super”.

Il baobab materialista

Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere.
Perché vendi questa roba?”, disse il piccolo principe.
“È
una grossa economia di tempo”, disse il mercante. “Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla settimana”.

“E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?”
“Se ne fa quel che si vuole...”
“Io”, disse il piccolo principe, “se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana...”
[16].

La vita consacrata è sempre stata legata alla povertà e al distacco, consapevole che la sua maggiore ricchezza è il Signore. Non si è fatta povera per aumentare il numero dei poveri, ma per arricchire i poveri e solidarizzare realmente con loro. La vita consacrata non benedice la povertà, né la propone; quello che desidera è servire i poveri. Come Cristo, che “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9).

Agli occhi del nostro popolo, la Chiesa è un’istituzione piena di ricchezze e di un abbondante patrimonio, e anche la vita consacrata è così. Ci sono i nostri grandi edifici, a volte disabitati, le nostre proprietà e affari. Ci sono le nostre ampie possibilità culturali e artistiche. Ma indubbiamente non possiamo non chiederci se le ricchezze che possediamo ci allontanino o meno dalla consacrazione autentica; se vengono realmente poste al servizio dei carismi e dei poveri. Dobbiamo domandarci se non sia meglio che gli edifici che non usiamo a sufficienza vengano messi al servizio della carità, di Ong o progetti di sviluppo, soprattutto quando pensiamo a chiudere una casa o ad abbandonare una presenza. Chiediamoci se la nostra cultura è al servizio di tutti e, soprattutto, di quelli che hanno meno possibilità culturali; se il nostro tempo è fondamentalmente per noi o per condividerlo mediante la gratuità e l’ascolto.

L’80% dei giovani del nostro Paese pensavano, secondo l’indagine svolta dalla Fundación Santa Maria[17], che la Chiesa è “troppo ricca”. Lo stesso si può dire della vita consacrata nella percezione che i giovani hanno di noi. Questa realtà merita sempre una riflessione profonda perché non perdiamo di vista l’orizzonte della nostra consacrazione che è l’imitazione di Gesù povero. Dobbiamo rivedere le nostre fedeltà economiche perché non siano causa del nostro cadere in disgrazia.

Il contesto materialista che ci circonda può costituire per noi una benda sugli occhi che ci impedisce di vedere con chiarezza la realtà evangelica che perseguiamo: “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). La ricchezza materiale può condurci a una povertà spirituale devastante. Quando il consumo, le mode, le sicurezze, le comodità, le cose... si insediano in noi e nelle nostre comunità, il baobab materialista cresce fino a usurparci lo spazio della semplicità e della gratuità. La vita spirituale si restringe, diventa tirata, si indebolisce per mancanza di spazio naturale.

Il materialismo è come un virus, un “trojan” che si installa nel nostro hard disk, nella nostra vita consacrata, fino a distruggerci il sistema di avvio. Abbiamo bisogno di un potente antivirus che ci avverta e ci metta in guardia contro il materialismo feroce che s’insinua in tutte le crepe del nostro essere consacrato. Ah, Dio mio, sé non mancassimo di nulla!

Il baobab disabitato

Oh! da me”, disse il piccolo principe, “non è molto interessante, è talmente piccolo. Ho tre vulcani, due in attività e uno spento... Ho anche un fiore”[18].

Se immaginassimo per un istante il piccolo principe su un pianeta disabitato, senza i suoi tre vulcani, uno dei quali inattivo, e senza il suo fiore unico e originale, l’attrattiva del suo pianeta si perderebbe immediatamente e la magia del piccolo principe svanirebbe. Un pianeta ha bisogno dei suoi vulcani e dei suoi fiori, dei suoi abitanti e dei suoi sogni. Anche il pianeta della vita consacrata.

La vita consacrata è sempre stata abitata da amore e passione. Abitata dalla presenza di Dio e da una sensibilità profonda che l’ha guidata verso i poveri. I nostri fondatori sono stati tutti, senza eccezioni, pianeti abitati e accesi. Ci sono stati sempre molti vulcani, e attivi, nella vita consacrata, che hanno riempito di fuoco e di passione le nostre vene e sono diventati coraggiosa proposta e testimonianza missionaria. I dati non ingannano.

La vita consacrata di oggi deve essere terra abitata dallo Spirito. Non possiamo rassegnarci a essere encefalogrammi piatti di affetto e di nomi. Vite deserte di passione che finiscono per essere cipressi solitari al centro dei nostri chiostri. Siamo abitati da passione per Dio e per l’umanità. E questa passione ci chiama tutti i giorni dinanzi al sacrario della presenza divina e a quello della presenza umana. Siamo chiamati a riempire di speranza questa vecchia terra straziata e divisa, disseminata di muri e di distanze. Perché questa terra ha cuore, ha vocazione di focolare e di presenza divina. Dio passeggia tutte le sere in questo giardino. Gloria Fuertes ci presenta, attraverso versi candidi e profondi, il cuore straziato della terra:

Il cuore della Terra ha uomini che lo straziano. La Terra è molto anziana. Soffre di attacchi al cuore - nel profondo. I suoi vulcani pulsano troppo per eccesso di odio edi lava. La Terra non ha più l’età per gli strapazzi, è stanca. Quando le seppelliscono dentro bambini mitragliati le vengono i conati.

La vita consacrata, come la terra, è un ambito da abitare. Una vita disabitata è una terra infartuata o un bambino ucciso dalle mitragliate. Che lo Spirito di Dio ci abiti, ci possegga, ci inondi dentro e fuori, faccia della nostra casa la sua casa e della nostra vita il suo soffio.

Il baobab “occupante”

Il piccolo principe fece l’ascensione di un’alta montagna. Le sole montagne che avesse mai visto, erano i tre vulcani che gli arrivavano alle ginocchia. E adoperava il vulcano spento come uno sgabello. “Da una montagna alta come questa”, si disse perciò, “vedrò di un colpo tutto il pianeta e tutti gli uomini...”. Ma non vide altro che guglie di roccia ben affilate. “Buon giorno”, disse a caso.

“Buon giorno... buon giorno... buon giorno...”, rispose l’eco.
Chi siete?”, disse il piccolo principe. “Chi siete?... chi siete?... chi siete?...”, rispose l’eco. “Siate miei amici, io sono solo”, disse. “Io sono solo... io sono solo... io sono solo...”, rispose l’eco. “Che buffo pianeta”, pensò allora, “è tutto secco, pieno di punte e tutto salato. E gli uomini mancano d’immaginazione. Ripetono ciò che si dice loro... Da me avevo un fiore e parlava sempre per primo[19].

Su questo pianeta della vita consacrata ci sono anche molti baobab secchi, aguzzi e salati. E uomini e donne senza immaginazione che ripetono le stesse cose come un’eco. Il fenomeno dell’“occupazione” non è solo un movimento controculturale e alternativo di alcune città importanti nei Paesi sviluppati. Anche nella vita consacrata ci sono occupanti. In alcuni dei nostri fratelli e sorelle il disincanto cresce come i baobab. Tutti noi consacrati abbiamo qualche baobab occupante al centro dei nostri atteggiamenti, che oppone resistenza a crescere, a rinnovarsi, ad aprirsi alla novità che lo Spirito vuole suggerirci. Uomini e donne, come echi, ripetono quello che hanno imparato, con radici eccessivamente profonde, che resistono a muoversi anche se lo Spirito soffia con energia.

Siamo uomini e donne che condividiamo la vita ma non ce la contagiamo. Viviamo insieme, ma ad anni luce di distanza. Circondati da atteggiamenti individualisti che ci trasformano in occupanti della stanza numero X dell’hotel- convento in via della malinconia. Noi consacrati e consacrate non possiamo essere un esercito di uomini e donne in compagnia che si siedono e camminano soli. Una collezione di solitudini disabitate.

Non possiamo dimenticare che alcuni dei nostri fratelli hanno perso il riferimento dell’utopia e vivono male. Vivono male rifugiandosi nell’alcol, trascurando continuamente la loro salute, legati alla televisione o al pensionamento anticipato, circondati da piccoli o grandi dipendenze che impediscono loro di godere di una vita sana, positiva e piena di sfide. In tutti noi c’è la minaccia di qualche occupante che aspetta la sua opportunità. Il numero di disillusi nella vita consacrata è diminuito negli ultimi anni grazie alla conquista di una maggiore libertà, ma restano ancora - e forse resteranno sempre - fratelli e sorelle di età diverse che hanno lasciato spegnere i loro sogni di consacrati e si rifugiano in forme e apparenze per evitare la loro terribile solitudine e insicurezza riguardo al futuro.



[1] ALEJANDRO FERNÀNDEZ BARRAJÒN è nato in un villaggio della Mancha, la terra di don Chisciotte. Il contatto con la natura, fin da piccolo - la sua era una famiglia di pastori - lo fa entrare in sintonia con Dio: nel contatto con essa sperimenta Dio senza ostacoli. Ancora molto giovane entra nell'Ordine dei Mercedari, dove è poi formatore dei seminaristi e successivamente Superiore Provinciale. È stato anche Presidente della Conferenza dei Religiosi di Spagna. La vita religiosa è per lui una autentica ‘passione’ a cui ha consacrato il meglio della sua creatività, della sua riflessione, della sua vita. Ripete frequentemente che non si può comprendere la sua vita al di fuori di essa. È una personalità dai molti talenti: scrittore, pittore, musicista. L'arte è per lui una espressione privilegiata, come la natura, per sperimentare Dio e lasciarsi sedurre da lui. Le sue riflessioni sgorgano dall'esperienza e dalla vita che condivide con tanti religiosi e religiose: con loro, egli dice, si sente come un pesce nell'acqua.

[2] Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, ed. Tascabili Bompiani, Milano 2008, pp. 29-30.

[3] Ibid., pp. 28-30.

[4] Benedetto XVI, Ai Superiori e Superiore generali degli Istituti di vita consacrata e delle Società di Vita Apostolica, 22 maggio 2006.

[5] A. de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, p. 30.

[6] Ibid., p. 98.

[7] Poetessa e scrittrice di letteratura infantile della Spagna del XX secolo.

[8] Leopoldo Panerò Torbado (1909-1962), poeta molto popolare in Spagna, L'interesse per i suoi scritti di poesia continua tanto che di recente la sua opera integrale è stata nuovamente pubblicata.

[9] Ibid, p. 55.

[10] Gómez Acebo, jSon las mujeres eìproblema?, in 21 RS, 895, gennaio 2007, p. 21.

[11] Ibid., p. 85.

[12] Ibid, p. 53.

[13] Ibid., p. 61.

[14] Ibid., pp. 36-37.

[15] Ibid., p. 67.

[16] Ibid., p. 101.

[17] Fundación Santa Maria, Jóvenes Españoles 2005, Madrid.

[18] A. de Saint-Exupéry, II Piccolo Principe, pp. 75-76.

[19] Ibid., pp. 86-87.


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