di Johann Baptist Metz
1. L’era della globalizzazione è l’era del pluralismo delle religioni e delle culture. La religione oggi non vive più in un universo chiuso; essa è esposta alla concorrenza con altre religioni e con la loro pretesa di validità. Così si raccomanda tolleranza, dialogo o discorso. Ciò, certamente è importante. Ma è la risposta sufficiente al costitutivo pluralismo delle religioni? Non ci sono anche limiti alla tolleranza e criteri per il dialogo? E, nell’era della globalizzazione, non ci sono situazioni nelle quali la razionalità formale e puramente procedurale dei discorsi viene meno?
Tener conto di queste questioni non vuol dire di certo rinnegare o annullare il pluralismo, ma sviluppare una modalità ragionevole e accessibile a tutti di relazionarsi ad esso. Ma esiste nell’irrevocabile, riconosciuta molteplicità delle religioni e culture un criterio di comprensione del tutto vincolante e, in questo senso, veritiero? Oppure tutto rimane soltanto affidato all’arbitrio del mercato postmoderno? La globalizzazione nel campo delle religioni e delle culture, alla fin fine, conduce forse a una relativizzazione di ogni pretesa di validità, a un molteplice gioco di elementi religioso – culturali che, in definitiva, stanno uno di fronte all’altro senza una relazione?
Si devono interrogare e verificare le tradizioni e i contesti delle religioni e delle culture. Oggi, proprio nel nostro contesto culturale occidentale, in quest’era postmoderna, in quest’epoca nella quale Nietzsche si respira nell’aria, in questo tempo dell’ateismo amico della religione, molti favoriscono la “soluzione morbida” di una religione senza Dio. Non risulta essa più tollerante e più aperta al pluralismo del ricordo del Dio biblico che, in definitiva, è tramandato come Dio della storia e delle leggi? Nondimeno la mia proposta si indirizza a questa soluzione “forte”: alla memoria del Dio della tradizione biblica, in quanto articolata come memoria della sofferenza dell’uomo. Su questo si basa la mia proposta di un cristianesimo nell’era della globalizzazione.
2. Cominciamo – in questo tempo di pluralismo costitutivo – con il difficile concetto di universalità. Il principio monoteistico della tradizione biblica è, per l’appunto, un principio universalistico. Dio o è un tema che riguarda tutta l’umanità oppure non è affatto un tema. Gli dei sono riducibili alla pluralità e alla regionalità; Dio no. Egli è il “mio” Dio solamente se può essere anche il “tuo” Dio. Egli è il “nostro” Dio solamente se può essere anche il Dio di tutti gli altri uomini. In senso proprio, il concetto monoteistico di Dio non è idoneo a legittimare e a rafforzare il rapporto amico- nemico tra gli uomini. Esso è – detto in modo elementare – un concetto di pace, non un concetto di sottomissione: esso conduce al riconoscimento della figliolanza divina per tutti gli uomini.
Certamente il discorso su Dio ha talora assunto i tratti di un monoteismo “forte”, asservito alla politica del potere e come tale esposto alla più tagliente critica della politica della modernità. Esso per lo più, e non senza ragione, serve come fonte di legittimazione di un modo di concepire la sovranità in senso predemocratico, ostile alla divisione dei poteri; esso serve come radice di un obsoleto patriarcalismo e come ispiratore di fondamentalismi politici. Di fronte a tale critica, il cristianesimo non può, dunque, tentare di cavarsela, ripiegando – come non di rado avviene nella teologia contemporanea – nella teologia trinitaria e cercando di dimostrare dalla trinità di Dio la compatibilità del cristianesimo con il pluralismo e la modernità. Con ciò, infatti, il cristianesimo verrebbe a negare, sin dall’inizio, ogni capacità di pluralismo delle religioni strettamente monoteiste, come, ad esempio, la tradizione giudaica o anche quella islamica, a prescindere completamente dal fatto che un cristianesimo, che perdesse di vista il suo tipico sfondo monoteista, si collocherebbe chiaramente contro la tradizione biblica e con la sua teologia trinitaria e cristologia correrebbe il rischio di cadere in una palese mitologia.
3. Il discorso sul Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che è anche il Dio di Gesù, non è espressione di un qualsiasi monoteismo, ma di un monoteismo “debole”, vulnerabile, empatico; esso è essenzialmente una teologia sensibile al dolore. Mi si permetta di dire così: per quanto riguarda questo monoteismo biblico si tratta di un “monoteismo riflessivo” . Ciò significa due cose: in primo luogo, questo monoteismo è accompagnato da una forma di “illuminismo biblico”, cioè, sebbene contenga elementi di un monoteismo arcaico con i suoi tipi violenti e le sue figure amico/nemico che si oppongono alla pace, allo stesso tempo però, esso conosce un “divieto di farsi delle immagini”, una radicale critica dei miti e la teologia negativa dei profeti. In questo luogo, la teologia della tradizione biblica è una teologia che, a motivo del problema tanto insolubile quanto ineludibile della teodicea, ovvero del problema del dolore all’interno della creazione uscita buona dalle mani di Dio, è una teologia costitutivamente interrotta, che non ha una risposta ma una domanda di troppo. Essa è perciò, una teologia che si può universalizzare solo a partire dal problema del dolore, a partire dalla memoria passionis, a partire dalla immedesimazione del dolore, in particolare del dolore degli altri, fino al dolore del nemico. Questa teologia può essere universale, ovvero significativa per ogni uomo, solamente se nel suo nucleo essenziale, è una teologia sensibile al dolore altrui. Sforzarsi di raggiungere questo monoteismo ha presumibilmente un significato decisivo per gli attuali, tanto discussi conflitti culturali – per esempio, tra la cultura politica dell’occidente e quella dei paesi islamici. Ritengo che sia senza prospettiva, in vista di questa ed analoghe discussioni, voler eliminare completamente il “principio monoteistico”. Piuttosto si tratta di richiamare ed evocare i tratti di questo monoteismo sensibile al dolore, presenti nelle tradizioni di tutte e tre le grandi religioni monoteiste: presso gli ebrei, i cristiani, i musulmani. Naturalmente tutte le religioni monoteistiche sono segnate profondamente dal loro storico tradimento dell’assioma fondamentale del monoteismo biblico, in base al quale il ricordo di Dio è legato all’immedesimarsi nel dolore altrui. E oggi non sono sempre ancora le stesse religioni monoteiste che peccano contro questo immedesimarsi nel dolore altrui e così risvegliano o rendono stabili situazioni di odio e di violenza: nella ex Jugoslavia, in Irlanda, nel conflitto tra Israele e i Palestinesi, nel Libano, nel subcontinente indiano, e così via?
4. Le tradizioni bibliche del discorso su Dio e la storia neotestamentaria di Gesù conoscono una forma irrinunciabile di universalismo, di responsabilità universale. Al riguardo, però, e su questo si dovrebbe far attenzione, l’universalismo di questa responsabilità non è primariamente orientato all’universalismo del peccato dell’uomo ma all’universalismo del dolore nel mondo. Il primo sguardo di Gesù non si rivolgeva al peccato dell’altro, ma all’altrui sofferenza. Il peccato per lui era anzitutto rifiuto della partecipazione al dolore dell’altro, era rinunzia a pensare oltre l’oscuro orizzonte della storia della propria sofferenza, era, come l’ha definito Agostino “il ripiegamento del cuore su se stesso”, una consegna al narcisismo latente della creatura. Ed è così che il cristianesimo cominciò come comunità di narrazione e di memoria, alla sequela di Gesù il cui primo sguardo era dedicato alla sofferenza altrui.
Questa sensibilità per il dolore altrui caratterizza il ‘nuovo modo di vivere’ di Gesù. Esso è, a mio avviso, l’espressione più forte di quell’amore al quale alluse, quando – del resto del tutto in linea con la sua eredità giudaica – parlò dell’unità inscindibile dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Ci sono parabole di Gesù, con le quali Egli in modo speciale si è calato narrativamente nella memoria dell’umanità. Di queste fa parte in primo luogo, la celebre parabola del “Buon samaritano”, con la sua critica al sacerdote e al levita, i quali, entrambi, nel loro viaggio tra Gerico e Gerusalemme, a motivo di un “interesse più alto” che lo dispensi. Chi dice “Dio” nel modo di sentire di Gesù, mette in conto di smantellare, mediante l’altrui infelicità, idee religiose preconfezionate. Parlare del Dio di Gesù, significa decisamente mettere a tema il dolore altrui e denunciare responsabilità inevase, solidarietà negate. Nel modo plastico di esprimersi di una arcaica società di provincia – e naturalmente senza tener conto dei problemi strutturali delle società tardo moderne – la parabola attesta la sensibilità al dolore del discorso su Dio.
5. Il cristianesimo ebbe già molto presto grosse difficoltà con le elementari esigenze di sensibilità al dolore, contenute nel suo messaggio. La questione inquietante per le tradizioni bibliche, riguardo alla giustizia per coloro che soffrono ingiustamente, fu di fatto molto presto mutata e riformulata nella questione concernente la redenzione dei colpevoli. Il problema della teodicea fu attenuato o ridotto al silenzio dalla soteriologia dal messaggio della morte espiratoria di Gesù. La dottrina della salvezza cristiana ha troppo drammatizzato il problema del peccato, mentre ha relativizzato il problema della sofferenza. Il cristianesimo si trasformò da una religione con una primaria sensibilità al dolore in una religione con una primaria sensibilità al peccato. Il primo sguardo non si volgeva alla sofferenza della creatura, ma al suo peccato. Ciò portò, com’è noto nel corso della modernità, a una reazione contraria – fatale fino ad oggi, fino all’attuale congiuntura di una piena separazione tra religione e colpa, tra mistica e morale. Ma su ciò torneremo più avanti.
6. Nella lingua tedesca non c’è una parola che esprima senza equivoci questa primaria sensibilità al dolore e il fatto che Gesù volgeva il primo sguardo al dolore altrui. Mitleid (compassione) suona troppo come accentuazione sentimentale, è troppo “non-politico”. C’è il sospetto che le condizioni sociali vengano depoliticizzate da un eccesso di moralizzazione e che le ingiustizie dominanti vengano offuscate dalla tendenza al sentimento. Così faccio il tentativo di adoperare l’insolita parola Compassion (‘compassione’) come parola chiave per il progetto di mondo, tipico della religione biblica nell’era della globalizzazione. Questa compassione senza percezione partecipativa al dolore altrui, come immedesimazione nell’altrui dolore è, a mio parere, per l’Europa l’eredità comune della tradizione biblica, così come la curiosità teorica è l’eredità comune della tradizione greca e come la teoria del diritto repubblicano è l’eredità comune della tradizione romana, nelle nostre globalizzate condizioni di vita.
7. Per quanto riguarda la compassione (Compassion) come progetto di mondo, tipico del cristianesimo, nell’epoca della globalizzazione, menziono qui tre aspetti.
Anzitutto questa compassione può valere come ispirazione per una nuova politica di pace. In occasione di uno dei consueti sondaggi sui cambiamenti del secolo, mi hanno chiesto quale evento degli ultimi anni mi avesse particolarmente colpito. Io ho richiamato una scena dell’anno 1993 quando a Washington – alla presenza del presidente degli Stati Uniti – Rabin per Israele e Arafat per i Palestinesi si sono stretti per la prima volta la mano e si sono assicurati a vicenda che nel futuro avrebbero voluto guardare non solo alle proprie sofferenze, ma di essere pronti a guardare alle sofferenze dell’altro, di non dimenticare e di prendere in considerazione nella loro politica le sofferenze di coloro che fino a quel momento si consideravano nemici. Questo era per me l’approccio di una politica di pace a partire dalla memoria passionis, dal far proprio il dolore altrui. Che cosa sarebbe successo, per esempio, nella ex Jugoslavia se i popoli di quella regione – tanto cristiani quanti musulmani – avessero agito secondo questo imperativo? Se nei loro conflitti etnici non solo non si fossero ricordati delle proprie sofferenze, ma anche delle sofferenze degli altri, delle sofferenze di che fino a quel momento era considerato un nemico? Che cosa ne sarebbe delle guerre civili nelle altre regioni d’Europa se i cristiani non avessero di volta in volta tradito questa compassione? E solo se anche tra noi – in questa nuova Unione Europea – cresce una cultura politica ispirata da questa compassione, cresce la prospettiva che l’Europa sarà uno scenario culturale che fiorisce e non uno scenario che brucia, un territorio di pace e non un territorio che cova violenza ovvero un’area di crescente guerra civile.
In secondo luogo questa compassione può essere considerata come fondamento per una nuova politica del riconoscimento. Nelle condizioni politiche globali non si può solo trattare del rapporto degli uni rispetto agli altri come partner del procedimento discorsivo, ma – in modo più fondamentale – si tratta della relazione degli rispetto agli altri che sono oppressi ed esclusi. Rapporti di riconoscimento strettamente simmetrici, come sono insinuati nella concezione delle nostre progredite società basate su procedimenti discorsivi, in definitiva, non vanno oltre una logica del rapporto di concorrenza, del mercato, dello scambio. Solo rapporti asimmetrici di riconoscimento, solo l’attenzione degli uni nei riguardi degli altri, emarginati e dimenticati, spezza la violenza della logica del mercato. In questa sottolineatura dell’asimmetria, non pochi sospetteranno un concetto di politica troppo enfatico. In realtà esso reclama, invece, solo l’irrinunciabile rapporto tra politica e morale. Senza questa “implicazione morale” la politica, la politica mondiale, sarebbe soltanto ciò che già oggi appare ampiamente essere, l’ostaggio dell’economia e della tecnica e della loro cosiddetta “ineluttabilità” nell’era della globalizzazione.
Infine, questa compassione può davvero portare al rafforzamento della memoria umanizzata. Essa protesta contro un pragmatismo della libertà moderna, che si è staccato dalla memoria del dolore e che sotto il profilo morale si accenna in maniera sempre crescente. Essa è una protesta contro la smemoratezza della libertà moderna. Cosa accadrebbe allora, se gli uomini un giorno, potessero combattere con la sola arma dell’oblio contro l’infelicità nel mondo? Se potessero costruire la loro felicità solo sulle basi di un oblio delle vittime, privo di compassione, ossia una cultura dell’amnesia nella quale, tutt’al più, il tempo deve guarire ogni ferita? Di che cosa, allora, si dovrebbe nutrire la ribellione contro la mancanza di senso della sofferenza nel mondo? Che cosa, dunque, dovrebbe ispirare ancora l’attenzione per il dolore altrui e la visione di una nuova e più grande giustizia?
8. Negli attuali tentativi di formulare un ethos globale, il discorso cade di solito su un universalismo etico che dovrebbe essere recuperato sulla base di un cosiddetto consenso fondamentale o minimo tra le religioni e le culture. Eppure, sotto il profilo strettamente teologico e non solo sotto quello della politica delle religioni, va detto che un ethos globale non è un prodotto di consenso. Chi vorrebbe ricondurre questo ethos globale alla approvazione di tutti, dinamica che il consenso, l’approvazione di tutti può essere, invero, la conseguenza ma non il fondamento e il criterio di una pretesa universale. L’ethos globale si radica per lo più nel riconoscimento incondizionato di un’autorità che può essere invocata senz’altro, anche nelle grandi religioni e culture dell’umanità: nel riconoscimento dell’autorità di coloro che soffrono come qui, in estrema sintesi, vorrei indicare. Questa autorità di coloro che soffrono (non della sofferenza!) – ammettiamolo apertamente – secondo i moderni criteri del consenso e del discorso è un’autorità “debole”. Essa non può essere assicurata né dal punto di vista ermeneutica né dal punto di vista discorsivo. L’obbedienza di fronte a questa autorità precede la comprensione e il discorso, e questo al prezzo di qualsiasi moralità. “Guarda e conosci”, così una volta l’ha formulato il filosofo Hans Jonas. Questa “autorità debole” di coloro che soffrono è l’unica autorità che ci è rimasta nelle nostre condizioni di soggetti illuminati e critici rispetto all’autorità. Indico brevemente le sue dimensioni:
- A questa autorità di coloro che soffrono è sottomessa la ragione umana a costo della sua ragionevolezza, se non vuole finire in una ragione puramente strumentale, puramente funzionale. “La necessità di far sì che il dolore diventi eloquente è la condizione di ogni verità”. Con ciò Theodor W. Adorno formulò l’apriori del dolore di ogni metafisica oggi ancora tollerata e concessa e della sua pretesa di verità.
- A questa autorità di coloro che soffrono è sottomessa ogni etica, nella misura in cui essa vuole basarsi su reciprocità ed intersoggettività, cioè nella misura in cui essa non si occupa semplicemente di come ognuno deve regolarsi con se stesso, ma di come noi dobbiamo trattarci gli uni gli altri. Qui l’autorità di coloro che soffrono gioca un ruolo normativo. Essa impedisce l’incalzante erosione dell’etica da parte della tecnica. Essa interrompe la dissoluzione dell’uomo in un totale esperimento biotecnico, che, con la massima “ciò che riesce è permesso”, rischia di operare una serie consecutiva di infrazioni delle regole etiche. L’autorità di coloro che soffrono oppone resistenza nei confronti di una biotecnica o di una antropotecnica nella quale l’ “uomo” è completamente ridotto a oggetto e, in realtà, è considerato come l’ultimo pezzo della natura, non ancora del tutto sperimentato.
- Anche la chiesa è sottomessa a questa autorità di coloro che soffrono. Questa autorità non può essere nemmeno racchiusa in uno schema ecclesiologico, poiché essa, anche per la chiesa, non può essere raggirata. E così essa può anche divenire critica rispetto alla concreta condotta ecclesiale. L’annuncio di Dio da parte della chiesa non ha forse troppo dimenticato che la teologia delle tradizioni bibliche si articola nell’immedesimazione del dolore altrui, che cioè, la memoria veritativa di Dio non può essere scissa dalla memoria dl dolore che grida fino al cielo? La “crisi di Dio” che sta sullo sfondo della oggi tanto conclamata crisi della chiesa, non è anche provocata da una prassi ecclesiale, nella quale è stato e viene ancora annunciato un Dio che sta di spalle alla storia di dolore dell’uomo? L’annuncio della chiesa non opera forse talvolta appunto per questo motivo in modo fondamentalistico, poiché in essa l’autorità di Dio è staccata dall’autorità di coloro che soffrono, sebbene Gesù stesso, nella famosa parabola del giudizio finale (Mt 25), abbia posto l’intera storia dell’umanità proprio sotto l’autorità di coloro che soffrono?
- A questa autorità di coloro che soffrono sono sottomesse tutte le religioni e le culture dell’umanità, poiché essa, rettamente considerata, non è raggirabile neanche dal punto di vista religioso e culturale. Il riconoscimento di tale autorità, a mio avviso, in modo ancor più convincente sottratto a ogni relativismo culturale di quanto non lo sia il solito discorso sui diritti umani e sulla dignità umana. Essa, perciò, si lascia formulare come quel criterio che può orientare il discorso delle culture e delle religioni in condizioni globalizzate di vita. Non si può forse pervenire a una ecumene della compassione tra le religioni dell’umanità?
9. “Il mondo”, così ho letto in un articolo del direttore del Washington Councel of Foreign Relation, “fa rotta inesorabilmente verso uno di quei momenti talmente tragici, che farà chiedere agli storici del futuro perché non sia stato fatto qualcosa al momento opportuno. I responsabili della politica e dell’economia non si sono accorti a quali profondi abiezioni portava il cambiamento economico e etico? E che cosa li ha trattenuti dall’intraprendere i passi indispensabili per impedire una globale crisi sociale?”.
Chi, propriamente, pratica, in questo senso, una coscienziosa politica mondiale? Dove sono le istituzioni che potrebbero assumersi una responsabilità globale, reclamata dal punto di vista morale? Forse le Nazioni Unite con i loro divergenti interessi in ciò che concerne le questioni dei diritti umani? Forse alla fine sono le tanto rinomate subisituzioni come Amnesty International (per il diritto alla libertà nel mondo), come Terre des Hommes (per i poveri nel mondo) oppure come Green Peace (per i problemi ecologici mondiali)? Ma, con tutto il rispetto, sono esse sufficienti? Si può con esse rendere possibile e garantire una politica mondiale nella quale – in considerazione dell’accelerata globalizzazione dei mercati e dell’eccedente amnesia culturale nei mondi virtuali della nostra industria dell’informazione e della cultura – rimane assicurato il primato della politica rispetto all’economia e alla tecnica? Al riguardo la politica non avrebbe bisogno del sostegno di una memoria più ampiamente e fondamentalmente radicata? Non ha essa bisogno in modo nuovo della memoria di dolore – da intendere nel senso della compassione, della percezione partecipante del dolore altrui – accumulate nelle religioni dell’umanità?
10. Affinché la globalizzazione non porti a una volgarizzazione moralistica e a una cultura del mondo del minimo denominatore comune, il nucleo religioso delle culture dell’umanità non dovrebbe essere trascurato proprio oggi. Ora tutte le grandi religioni dell’umanità sono concentrate intorno ad una mistica del dolore. Essa potrebbe essere anche la base per una coalizione delle religioni per la salvezza e l’incremento della compassione sociale e politica del nostro mondo, nella comune resistenza contro le cause del dolore ingiusto e innocente, ma anche contro la fredda alternativa di una società mondiale, nella quale l’ “uomo” sempre più scompare nei sistemi vuoti di umanità dell’economia, della tecnica e della sua industria dell’informazione e della cultura. Questa ecumene della compassione sarebbe non solo un evento religioso ma anche politico. Ciò ovviamente non per portare acqua al mulino di una trasognata politica astratta o di una fondamentalistica delle religioni, ma per rendere possibile e sostenere una coscienziosa politica mondiale, nell’era della globalizzazione.
Al riguardo in futuro sarà soprattutto una questione di significato decisivo e determinerà dappertutto il discorso delle religioni: come si rapportano due forme classiche di questa mistica del dolore delle religioni nei riguardi del dolore altrui? Ritratta, da una parte, delle tradizioni bibliche monoteiste e dall’altra, della mistica del dolore delle tradizioni dell’estremo oriente, in particolare di quelle buddiste, che, nel frattempo guadagna sempre più adepti anche nel mondo postmoderno dell’occidente, dopo la proclamata “morte di Dio”.
Mi si permetta infine di riformulare le difficoltà a proposito dell’incontro della mistica del mondo occidentale con la mistica buddista dell’estremo oriente, nella forma di una domanda. (Laddove una ricezione occidentale del buddismo vanificasse questa domanda, essa porterebbe in definitiva solo a forme triviali di una grande religione dell’umanità e confermerebbe con ciò in modo indiretto solo quello scetticismo crescente che il buddismo originario dell’oriente nutre nei confronti di una sua disinvolta assunzione in forme di vita occidentale). E cioè non c’è, forse, nella mistica buddista del dolore un’idea di fondo che l’uomo occidentale può sì comprendere, ma che difficilmente può accettare come propria forma di vita? La mistica del dolore dell’estremo oriente non porta forse al presupposto che tutte le laceranti contrapposizioni tra io e mondo possano essere superate nel fatto che l’io, alla fine si dissolve nella preesistente unitotalità e armonia dell’universo? Allora qui l’io non è forse una palese illusione mistica oppure, come già Friedrich Nietzsche aveva formulato, come qualcosa di “messo a deposito”, per così dire, il primo vero e proprio antropomorfismo che permea l’intera storia religiosa e spirituale dell’occidente?
Ora è pur vero che in questo modo di vedere c’è qualcosa di assolutamente seducente per soggetti europei stressati e moralmente strapazzati. Eppure laddove il soggetto autonomo viene messo in questione proprio a partire da una prospettiva mistica, non accade forse che in tale mistica anche tutti gli altri soggetti svaniscono in una sorta di illusorietà? Dove sarebbe in ciò ancora una non eludibile obbligazione alla compassione, alla sensibilità per e alla cura del dolore degli altri, dei “più piccoli tra i fratelli”? La mistica del dolore dell’estremo oriente non allenta forse il rapporto tra mistica e morale a un prezzo troppo alto? Tutto questo non può, anzi non deve essere fatto oggetto di domanda, anche e proprio quando ci si rende conto del pericolosi un eccesso di moralizzazione nella nostra mistica occidentale del dolore?
La mistiche del dolore delle tradizioni bibliche monoteistiche è, in ogni caso nella sua essenza, una mistica politica, una mistica sociale e politica della compassione. Essa è una mistica del volto, non una mistica della natura senza volto o una mistica cosmica unitotale. Il suo imperativo categorico suona: svegliarsi, tenere gli occhi aperti! Gesù non insegnò – con tutto il rispetto per Buddha e la spiritualità dell’estremo oriente – una mistica degli occhi tappati, ma una mistica degli occhi spalancati, una mistica del dovere incondizionato di percepire il dolore altrui. Al riguardo egli fece i conti nelle sue parabole con le creaturali difficoltà di comprensione degli uomini, con il loro innato narcisismo, definendoli uomini che guardano eppure non vedono. Esiste probabilmente una fondamentale paura del vedere, del guardare esattamente in profondità, di quel vedere profondo che ci involve in quanto abbiamo visto e che non ci consente di passare accanto, come se non avessimo colpa? “Guarda e conosci!”. Qui è ancorata quella responsabilità ineludibile dell’io che, dal punto di vista cristiano, si chiama “coscienza”; e ciò che chiamiamo “voce” di questa coscienza è la nostra reazione all’irruzione del volto estraneo di coloro che soffrono.
11. Si può parlare giustamente di provocazioni primarie e di provocazioni secondarie del messaggio di Gesù. La compassione fin qui tratteggiata sarebbe allora la primaria provocazione del suo messaggio. Noi cristiani, nel corso del tempo abbiamo fatto confusione in qualche cosa, a tale riguardo? Può darsi che molti considerino questo cristianesimo della compassione un vago romanticismo pastorale. E certamente, questa compassione è una radicale provocazione, come appunto anche il cristianesimo, come anche la sequela, come anche Dio. Nel linguaggio di una religione borghese inaridita, che null’altro tanto teme quanto il proprio fallimento e che, perciò, preferisce sempre il passero nella mano alla colomba sul tetto, tutto ciò difficilmente può essere tematizzato. Ci sono, dunque, per un cristianesimo della compassione, della crescente sensibilità per il dolore degli altri, orecchie davvero aperte? Io posso, in definitiva, rispondere solo con una controdomanda: chi dovrebbe essere ritenuto all’altezza di questa primaria provocazione del messaggio di Gesù e di ciò che in esso c’è di radicale? Chi si dovrebbe ritenere capace dell’idea avventurosa di essere disponibile per gli altri, prima che si ottenga qualcosa da loro? A chi si potrebbe inculcare questo “modo diverso di vivere”, anche oggi, proprio oggi?A chi, se non ai giovani? Ma non poniamo la questione troppo in alto! Facciamo attenzione alle tracce, ai segnali di una durevole empatia, di una intrepida disponibilità a non scansare il dolore degli altri; facciamo attenzione agli intrecci e ai basilari progetti di compassione, che si sottraggono all’attuale corrente di una perbenistica indifferenza e di una curata apatia e che si rifiutano di vivere felicità e amore come teatralizzazione narcisistica di se stessi. Forse ciò che Friedrich Nietzsche così intensamente disprezzava nel cristianesimo, è proprio ciò che i cristiani oggi – in considerazione del nostro mondo pluralistico – avrebbero da testimoniare per prima cosa: compassione, passione per chi soffre come espressione della loro passione per Dio.
(trad. di Francesco Muscato)