San Giuseppe Cafasso

Pubblicato in Missione Oggi
SAN
GIUSEPPE
CAFASSO



RICORDANDO
i 200 anni della sua nascita 1811-2011
e i 150 anni della sua morte 1860-2010
Nota di redazione:

Il presente opuscolo è la fedele trascrizione del «Numero unico “S. Giuseppe Cafasso”, il prete della forca», che in occasione del primo centenario della sua santa Morte (1860-1960), il Santuario della Consolata e il Convitto Ecclesiastico vollero dedicargli come ricordo.
La trascrizione, che ha tralasciato quelle parti che si riferivano espressamente alla ricorrenza dei cent’anni, è esclusivamente ad uso interno dell’Istituto dei Missionari della Consolata in Italia, con il proposito di offrire ai Confratelli e seminaristi un sussidio divulgativo sulla personalità e santità di San Giuseppe Cafasso.

Torino, Casa Madre, 15 gennaio 2010
Anniversario della nascita di San Giuseppe Cafasso
Anno sacerdotale (2009 –giugno- 2010)

Contenuto

Lettera di Papa Giovanni XXIII               pag.       3
Le tappe luminose della sua vita                   “     5
Castelnuovo                                                  “     6
La sua spiritualità                                          “     9
Il devoto della Madonna                                “    13
Il Maestro di Teologia morale                        “    17
Il santo nipote Allamano                                “    20
Al palco della forca                                       “    21
In carcere ancora oggi                                 “    25
Il testamento di S. G. Cafasso                      “    29
Il Prete di Dio                                               “    30

LETTERA AUTOGRAFA
 DEL PAPA
GIOVANNI XXIII



al Cardinale Maurilio Fossati,
 Arcivescovo di Torino,
per le celebrazioni
 in onore di San Giuseppe Cafasso
nel centenario della sua santa morte.

Diletto Figlio,

Ci sta sommamente a cuore che i Sacerdoti coltivino la Santità. Per tale motivo ci è stata di grande gioia la notizia che tu, Diletto Figlio nostro, hai indetto costì so­lenni celebrazioni per onorare degnamente, con oppor­tune manifestazioni, la santa vita e l'illustre memoria di S. Giuseppe Cafasso, in occasione del I Centenario della Sua santa morte, che si compie l'anno prossimo.
Egli si distinse e rifulse talmente, per pietà, opero­sità instancabile, e dottrina, da poter esser veramente stimato gemma splendida del clero torinese, sì che i Suoi esempi e la Sua dottrina possano ritenersi in ogni tempo incitamento efficace a santificarsi con fermissima vo­lontà e sincera coscienza.

Non è Nostra intenzione richiamare qui minuta­mente tutto ciò che si dovrebbe ricordare della Sua vita. Non possiamo però omettere di indicare quali luci su aureo candelabro, alcune esimie virtù, di cui Egli fu in modo eccezionale ornato e soffuso.
Egli possedette infatti alacrità nell'operare, pru­denza nel decidere, prontezza nell'eseguire, energia nel sostenere le difficoltà, e carità ardente nel dedicarsi ai doveri del sacro ministero e nell'aiutare indefessamente il prossimo. Chi ha l'animo traboccante di amore, ha in­fatti sempre di che donare agli altri.
Egli fu invero egregio formatore di anime sacerdo­tali, illuminando le intelligenze con sana dottrina e for­giando i costumi con norme di rinnovata perfezione. Fu anche ricercato consolatore tanto più soave e vigilante quanto più tormentosa era la miseria, soprattutto per i carcerati e i condannati a morte.
S. Giuseppe Cafasso, della cui morte ricorre il cente­nario, iniziò e incrementò con ardente zelo il Convitto Ecclesiastico che diede invero tanti fulgidi frutti a To­rino e al Piemonte; tu, che per questa circostanza chiedi paterne esortazioni, provieni dal Collegio degli Oblati di S. Gaudenzio e Carlo, ricco di fama e di merito: e Noi, come membro esterno fummo aggregati alla Congrega­zione Sacerdotale del Sacro Cuore di Gesù, in Bergamo, che quest'anno celebra il cinquantenario della sua ope­rosa attività.
Da tali circostanze, che la commemorazione del Santo ci invita a ricordare, nasce occasione a che sempre più fioriscano, vigoreggino e s'estendano, per Nostro impulso e sotto guida e cura dei Vescovi, tali istituti ecclesiastici; e se per provvidenziale incremento questo si realizzerà, ciò sarà di grande vantaggio alla pietà e alla dottrina dei Sacerdoti, e offrirà ai Vescovi un aiuto di inestimabile valore, di cui potranno avvalersi in modo tempestivo e immediato.

Stimiamo degne di approvazione le varie iniziative opportunamente preparate per richiamare a memoria e celebrare con degne lodi le virtù e gli esempi di S. Giu­seppe Cafasso. In virtù di tali celebrazioni saranno sti­molati gli animi, nei difficili tempi in cui viviamo, alla costanza, alla pazienza, alla operosità, e si contribuirà non poco ad affrettare il tempo in cui la legge e l'amore di Cristo proteggano i singoli individui e l'umana società.
Ciò augurando di gran cuore, desideriamo successo gran­dioso ed effetti duraturi alle celebrazioni che costì terrete in onore di S. Giuseppe Cafasso, e impartiamo paterna­mente, in pegno dei celesti favori, l'apostolica benedizione a te, Diletto Figlio, e a tutti quelli che promuoveranno codesti convegni e vi parteciperanno.

Papa Giovanni XXIII
Roma, presso S. Pietro – 16 dicembre 1959

LE TAPPE LUMINOSE DELLA SUA VITA

«Il pio sacerdote Don Cafasso, dice un testimonio suo contemporaneo, parlava spesso in vita della morte e diceva che un pezzo di Paradiso aggiustava e compensava tutto». In verità tutta la sua vita fu un anelito crescente verso il Cielo. Con un'umiltà che ci sbalordisce il Santo così si esprime: «Disceso che sarò nel sepolcro, desidero e prego il Signore a fare perire sulla terra, la mia memoria, sicché mai più alcuno abbia a pensare di me, fuori di quelle preghiere che attendo dalla carità dei fedeli. E ac­cetto in penitenza dei miei peccati tutto quello che dopo la mia morte si dirà nel mondo contro di me».

A cent'anni dalla sua morte sale unanime la lode a Dio che ha glorificato il suo Servo fedele. La memoria del Cafasso non è perita, ma vive nel cuore di tutti. Vive nel cuore dei fedeli che nume­rosi accorrono a venerarne le Reliquie nel Santuario della Consolata; vive nelle carceri, dove i detenuti lo pregano come loro celeste patrono e dove, in quest'anno centenario, l'urna con la Reliquia del suo braccio viene accolta con omaggi di pietà commo­vente; vive nell'animo dei sacerdoti, che guardano a Lui, quale esempio traboccante di amore di Dio di zelo per le anime.
Possano queste poche pagine, che parzialmente ri­cordano Don Cafasso, destare nell'anima dei fedeli e dei Sacerdoti un più intenso desiderio di virtù e santità, seguendo le orme di Lui, giustamente defi­nito «perla del clero italiano».

15 gennaio 1811: Nasce in Castelnuovo d'Asti da Giovanni ed Orsola
Beltramo.

16 gennaio 1811: Battezzato nella Parrocchia di S. Andrea.

16 settembre 1823: Riceve la Cresima da S. E. Mon­signor d'Angennes.

1° luglio 1827: Veste l'abito ecclesiastico nella Par­rocchia di Castelnuovo.

11 ottobre 1827: Primo incontro con Giovanni Bosco.

18 settembre 1830: Riceve la Tonsura e gli Ordini minori.

7 aprile 1832: Riceve il Suddiaconato.

23 marzo 1833: Riceve il Diaconato.

21 settembre 1833: Ordinazione Sacerdotale nella Chiesa
dell'Arcivescovado di Torino.

22 settembre 1833: Celebra la prima Messa a Ca­stelnuovo.

28 gennaio 1834: Primo incontro con il Teol. Guala e ingresso al Convitto
 Ecclesiastico.

Quaresima 1834: Primi Catechismi ai Carcerati.

29 giugno 1836: Inizia il suo ministero di Con­fessore.

Novembre 1836: Nominato Ripetitore di Morale al Convitto Ecclesiastico.

17 settembre 1839: Assiste il primo condannato a morte.

6 dicembre 1848: Nominato Rettore del Convitto e della Chiesa di S.
 Francesco.

23 giugno 1860: Muore a 49 anni.

Maggio 1862: Prima esumazione della salma.

16 febbraio 1895: Inizio del Processo Diocesano di Beatificazione.
  
8 ottobre 1896: Trasporto della salma al Santuario della Consolata.

23 maggio 1906: S. S. Pio X firma la commissione per l'introduzione della
causa di beatificazione.

3 maggio 1925: S. S. Pio XI lo proclama Beato.

22 giugno 1947: S. S. Pio XII lo canonizza.

9 aprile 1948: Patrono delle carceri d'Italia.

10 gennaio 1948: Patrono dell'Unione Apostolica del Clero d'Italia.

25 novembre 1959: Patrono del Convitto Ecclesia­stico della Consolata,

16 dicembre 1959: S. S. Giovanni XXIII invia a S. Em. il Card. Maurilio Fossati una lettera autografa per le celebrazioni dell'anno centenario.

CASTELNUOVO: CULLA DI SANTI

«Il pio sacerdote Don Cafasso, dice un testimonio suo contemporaneo, parlava spesso in vita della morte e diceva che un pezzo di Paradiso aggiustava e compensava tutto». In verità tutta la sua vita fu un anelito crescente verso il Cielo. Con un'umiltà che ci sbalordisce il Santo così si esprime: «Disceso che sarò nel sepolcro, desidero e prego il Signore a fare perire sulla terra, la mia memoria, sicché mai più alcuno abbia a pensare di me, fuori di quelle preghiere che attendo dalla carità dei fedeli. E ac­cetto in penitenza dei miei peccati tutto quello che dopo la mia morte si dirà nel mondo contro di me».

A cent'anni dalla sua morte sale unanime la lode a Dio che ha glorificato il suo Servo fedele. La memoria del Cafasso non è perita, ma vive nel cuore di tutti. Vive nel cuore dei fedeli che nume­rosi accorrono a venerarne le Reliquie nel Santuario della Consolata; vive nelle carceri, dove i detenuti lo pregano come loro celeste patrono e dove, in quest'anno centenario, l'urna con la Reliquia del suo braccio viene accolta con omaggi di pietà commo­vente; vive nell'animo dei sacerdoti, che guardano a Lui, quale esempio traboccante di amore di Dio di zelo per le anime.
Possano queste poche pagine, che parzialmente ri­cordano Don Cafasso, destare nell'anima dei fedeli e dei Sacerdoti un più intenso desiderio di virtù e santità, seguendo le orme di Lui, giustamente defi­nito «perla del clero italiano».

15 gennaio 1811: Nasce in Castelnuovo d'Asti da Giovanni ed Orsola
Beltramo.

16 gennaio 1811: Battezzato nella Parrocchia di S. Andrea.

16 settembre 1823: Riceve la Cresima da S. E. Mon­signor d'Angennes.

1° luglio 1827: Veste l'abito ecclesiastico nella Par­rocchia di Castelnuovo.

11 ottobre 1827: Primo incontro con Giovanni Bosco.

18 settembre 1830: Riceve la Tonsura e gli Ordini minori.

7 aprile 1832: Riceve il Suddiaconato.

23 marzo 1833: Riceve il Diaconato.

21 settembre 1833: Ordinazione Sacerdotale nella Chiesa
dell'Arcivescovado di Torino.

22 settembre 1833: Celebra la prima Messa a Ca­stelnuovo.

28 gennaio 1834: Primo incontro con il Teol. Guala e ingresso al Convitto
 Ecclesiastico.

Quaresima 1834: Primi Catechismi ai Carcerati.

29 giugno 1836: Inizia il suo ministero di Con­fessore.

Novembre 1836: Nominato Ripetitore di Morale al Convitto Ecclesiastico.

17 settembre 1839: Assiste il primo condannato a morte.

6 dicembre 1848: Nominato Rettore del Convitto e della Chiesa di S.
 Francesco.

23 giugno 1860: Muore a 49 anni.

Maggio 1862: Prima esumazione della salma.

16 febbraio 1895: Inizio del Processo Diocesano di Beatificazione.   

8 ottobre 1896: Trasporto della salma al Santuario della Consolata.

23 maggio 1906: S. S. Pio X firma la commissione per l'introduzione della San Giuseppe Cafasso nacque a Castelnuovo d'Asti il 15 gennaio 1811 da Giovanni ed Orsola Beltramo. Preceduto da una sorella e da un fratello, avrà due anni dopo una seconda sorellina: Marianna, che sarà la Madre del Servo di Dio Can. Giuseppe Allamano, Rettore del Convitto e del Santuario della Consolata e fondatore dell'Istituto Missioni Consolata. La fami­glia Cafasso è stata veramente non solo fonte di vita, ma anche fonte di grazia e di santità.
Mamma Orsola non ha avuto nella vita del Santo il rilievo che ebbe Mamma Margherita per Don Bosco. Don Cafasso, vissuto sempre in comunità nel Convitto Ecclesiastico, non l'ebbe più al suo fianco dopo l'ordi­nazione sacerdotale.

Ma troviamo, in alcuni episodi della vita del Santo, una corrispondenza di sentimenti con le virtù della madre che ci rivela quanto da essa ha ricevuto.
Fanciullo di sette od otto anni, il piccolo Giuseppe, vedendo la mamma che, premurosa ad accorrere dove c'è bisogno della sua assistenza presso malati poveri, sta preparando biancheria e medicine, le ricorda inge­nuamente quanto essa stessa tante volte gli ha ripe­tuto mandandolo a far la carità : «Ai poveri date per amor di Dio».

Oltre che un invito alla generosità, era un richiamo ad un motivo superiore che dava particolare merito ad un'opera suggerita dalla compassione.
A lui la madre guardava, naturalmente, con predi­lezione, perché lo vedeva disposto sin da piccino a una singolare pietà e ad un vivo spirito di carità verso i poveri: virtù, le quali spiccavano in lei in modo spe­ciale. Come gioiva la buona donna quando sentiva lodare dai compaesani il figlioletto per il contegno serio e devoto, ch'egli teneva in chiesa mentre serviva all'altare, per la diligente assiduità ai catechismi ed alle prediche tanto che lo chiamavano il santino! Anch'ella, anzi più ella, era testimone delle virtù del figlio: se lo vedeva docile e ubbidiente in casa; non lo sentiva lamentarsi mai del cibo, che gli porgeva, indifferente alla qualità di esso, come se non avesse gusto; lo contemplava stare lungo tempo inginocchiato a pregare senza fare il minimo movimento; sapeva che consacrava già da allora certi giorni ad atti particolari di mortificazione, specialmente al sabato.

In realtà il fanciullo mostrava in sé tutti quei segni, dai quali si arguisce la vocazione sacerdotale; il gusto per le funzioni in chiesa, l’amore alla ritiratezza e alla preghiera, e soprattutto lo zelo per le anime e la carità verso i poveri.

In questa gli era maestra la mamma, che ve l’addestrava incaricandolo di consegnare l’elemosina ai mendicanti : ma il piccolo Giuseppe sapeva pur aumentare la «parte dei poveri», mettendo da parte qualcosa destinato al suo consumo. «È sorprendente, nota D. Bosco, il modo industrioso da lui trovato per far limosine. Rinunciava ad ogni piacere e divertimento; privavasi non di rado delle cose più lusinghiere ed anche necessarie, metteva in serbo una pagnottella, un frutto, qualche soldo per darlo ai bisognosi, che già formavano la delizia del suo cuore, perché già aveva imparato a ravvisare in essi la persona del Sal­vatore».

Di pari passo con lo spirito di carità materiale si sviluppava in lui lo zelo per le anime. Sentiva (è an­cora D. Bosco che parla) «una propensione quasi irre­sistibile a far del bene al prossimo. Egli stimava giorno per lui il più felice quando poteva dare un buon consiglio, riusciva a promuovere un bene o ad impedire un male; all'età di dieci anni faceva già da piccolo apostolo in patria».

Attentissimo ai catechismi ed alle prediche, si com­piaceva poi di ripetere le istruzioni ai ragazzi ed an­che agli adulti. I suoi genitori tenevano in casa un vaccaro balbuziente, a cui nessuno era riuscito ad insegnare le preghiere. Giuseppino, con gran pazienza parola per parola, vi riuscì.

Bello era osservarlo alla sera quando con dolcezza raccoglieva la gente di casa per la recita comune de Rosario. E molto divertente riusciva sentirlo ripeter le prediche ascoltate in chiesa.

 «Spesso, narra ancora D. Bosco, fu visto uscire di casa, andare i cerca di compagni, di parenti, di amici grandi e piccoli, giovani e vecchi; tutti invitava a venire a casa sua, di poi accennava loro d'inginocchiarsi a fare con lui breve preghiera; poscia montava sopra una sedia che per lui diveniva un pulpito, e da questa faceva predica, cioè andava ripetendo le prediche udite in chiesa, o raccontando esempi edificanti. Egli era piccolo di corporatura ed il suo corpo era quasi tutto nella voce; perciò ognuno, al rimirare quel volto angelico, quella bocca, da cui uscivano parole e discorsi cotanto superiori all'età, andava pieno di meraviglia esclamando con le parole proferite da quelli che rimiravano fanciulletto San Giovanni Battista: Chi mai sarà questo fanciullo? »

LA SPIRITUALITA' DI S. GIUSEPPE CAFASSO

Di mons. Attilio Vaudagnotti

Non c'è che un solo supremo maestro di vita spirituale: Gesù. «Unus est magister vester, Christus» (Mt. XXIII, 10).
Tuttavia la grazia, rispetta la natura, e questa essendo oltre­modo varia negl'individui, per le tante diversità di tempera­menti, d'inclinazioni, di cultu­ra, d'ambiente, ne viene che an­che il loro prodotto composto, la santità, risultante di entram­be, si differenzia quasi all'infi­nito. Giustamente la liturgia fa d'ogni santo l'elogio: «Non est inventus similia illi». Non s'è trovato chi gli somigliasse. La grazia è bensì unica per tutti - dice S. Cirillo Alessandrino - come la stessa acqua irriga ogni prato, ma differenti sono i fiori, i colori, i profumi che derivano dall'irrigazione, secondo le innu­merevoli varietà di sementi.
Per questo vogliamo indagare il tipo caratteristico di spiritua­lità che presiedette alla forma­zione personale di San Giuseppe Cafasso  che lo guidò nel for­mare il giovane clero, che animò la sua azione pastorale.

1. Formazione personale

La storia dell'ascetica enume­ra varie scuole o correnti di spi­ritualità. Tutti sanno che si di­stinguono per particolare indi­rizzo, ad esempio: la scuola be­nedettina, la scuola francescana, la scuola domenicana, ecc.
La prima domanda che si pre­senta è questa: sugl'inizi dell'Ot­tocento (il Cafasso nacque nel 1811), quale spiritualità preva­leva in Piemonte? La sua vici­nanza alla Francia, e il forte in­flusso che ne subiva, doveva ispi­rare la pietà del clero subalpino ai grandi maestri della scuola francese, la scuola del Cardinale de Bérulle, i cui più illustri di­scepoli furono il De Condren e il ven. Olier. Questi due insigni direttori di spirito concentraro­no la loro, attenzione sul Sacerdozio di Cristo.
II Sacrificio di Gesù, durato  tutta la sua vita, dal primo istante dell'Incarnazione fino al­l'eternità, consiste nell'annien­tarsi davanti a Dio, nell'essere in perpetuo stato di vittima. Così noi dobbiamo sacrificare tutto ciò che abbiamo e siamo, per non essere niente che in Dio e per Iddio. Meno saremo noi stes­si, e più saremo Cristo. L'uma­nità di Gesù non fu mai di se stessa, fu sempre del Verbo di Dio, senz'altra persona che quella di Lui. Così il cristiano, e tanto più il Sacerdote, non pensi di appartenere a se stesso, ma solo a Dio e agl'interessi di Dio. Di qui il ven. Olier, il fondatore del seminario di S. Sul­pizio, traeva il suo potente ma­gistero ascetico per i candidati al Santuario.

Mettete a confronto di questa dottrina l'idea-madre che illumi­nò la vocazione e diresse il chie­ricato del Cafasso, come ci ri­sulta dai ricordi personali di S. Giovanni Bosco. Allorché que­sti, fanciullo vivace, voleva con­durre l'abatino, suo compaesano, a visitare i giochi della fiera, si ebbe quella memorabile rispo­sta:    «Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Si­gnore: e di quanto havvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore, se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime». E ancora: «Mio caro amico, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa; quanto più esse sono devotamente celebrate, tan­to più grati ci riescono i nostri spettacoli».

Gl'insegnamenti dei grandi maestri di spirito francesi erano rinforzati dagli esempi di santi luminari e riformatori del clero, quali S. Vincenzo de' Paoli e S. Francesco di Sales, le cui biografie erano popolari in Piemon­te. Andava pure per le mani di tutti gli ecclesiastici il «Memo­riale vitae sacerdotalis» del Can. Claudio Arvisenet (1797), che ai sacerdoti francesi, dispersi  dalla rivoluzione, e a tutto il clero, con essi, impartiva eccel­lenti istruzioni ed esortazioni di vita sacerdotale irreprensibile.
Però dalla Francia s'erano an­che infiltrate da noi le massime gianseniste e gallicane, o almeno il loro spirito di eccessiva auste­rità, e forse scarso attaccamento alla S. Sede. Del primo fu vittima lo stesso Cafasso nella sua fan­ciullezza, perché all'età di 13 an­ni non era ancora stato ammesso alla prima Comunione.
Il Signore però dispose che il suo Servo, predestinato a salva­re tante anime con l'apostolato della divina misericordia, della fiducia e della frequenza ai Sa­cramenti, venisse a contatto con la scuola ignaziana, prima a Chieri, frequentando i Padri Ge­suiti, nella chiesa di Sant'Anto­nio, che tenevano catechismo ai giovani, nei pomeriggi festivi, poi a Torino, seguendo le lezioni del Teologo Luigi Guala, che aveva pienamente assorbito lo spirito della Compagnia di Gesù.
Questi contatti ci portano già al secondo ordine di considerazioni.

2. Formazione del Clero

La pietà o santità è ciò che più conta nel Sacerdote, tutti ne sono persuasi; ma la scienza è, per dirla con S. Francesco di Sales, l'ottavo sacramento dei Sa­cerdoti, ed è noto che S. Teresa arrivava a preferire un confes­sore di vita mediocre, ma sag­gio e perito, a uno piissimo ed ignorante. Quello farà il suo dan­no, non profittando per la sua anima dei lumi che possiede; l'altro farà il danno di molti, guidandoli per vie errate.
E perciò il nostro Santo non si contentò dei cinque anni di Teologia percorsi, ma vi aggiun­se un perfezionamento triennale. Egli poteva scegliere tra tre isti­tuzioni similari: le conferenze.
Da conquistato, non tardò a farsi conquistatore. Guadagnato alla visione teologica e ascetica del Guala, egli entrò nel dise­gno di Dio, che voleva si appli­casse primariamente alla santi­ficazione del Clero piemontese, educandolo a una rigida disci­plina verso se stesso, a una larga introduzione delle anime nel seno della divina Misericordia.

Le sue belle Meditazioni e Istruzioni per il Clero, negli Esercizi Spirituali, dimostrano a quale finitezza egli portasse il suo ideale della formazione ec­clesiastica, volendo fare d'ogni Sacerdote il vero «homo Dei» splendente di castità, di scienza, di pietà, di prudenza, di carità; assiduo alla preghiera, alle fun­zioni, al confessionale; predica­tore semplice, ma solido, chiaro, popolare, persuasivo; non aven­te in mira che la gloria del Si­gnore, da cui deriva ogni giorno, in modo speciale nel Santo Sa­crificio, la forza d'immolarsi per il bene delle anime.
Anche in questo campo, S. Alfonso de' Liguori è il suo mo­dello principale, sebbene pure da altri, che lavorarono prevalen­temente per la santificazione del Clero, attingesse impulsi e nor­me, come S. Vincenzo de' Paoli e S. Carlo Borromeo, non meno studiati e venerati a Torino, che a Parigi e a Milano.

3. Azione Pastorale

Il Cafasso zelò soprattutto la conversione dei peccatori, e si distinse nella caccia grossa, con lo strappare a Satana anime che erano vissute fuori di ogni pra­tica religiosa, e anche miscre­denti fino all'ostinazione.
Con quale ardore di carità egli stringesse d'assedio questi infelici, è largamente documen­tato dalla relazione che scrisse sulla conversione d'una pecca­trice, da lui votata al S. Cuore di Maria. Aveva l'ambizione di condurre i suoi «santi» impic­cati direttamente in Paradiso, senza l'intermedio del Purgato­rio, tanto contava sull'atto di ca­rità perfetta, e l'accettazione del­la morte dalle mani di Dio, per il cui esercizio aveva ottenuto un'indulgenza plenaria.

Ma egli sapeva anche guidare le anime pie al vertice delle virtù evangeliche, giovandosi del «Direttorio ascetico» e del «Di­rettorio mistico» dello Scara­melli (+ 1752), molto diffusi allora e apprezzati anche adesso, oltre che delle operette spirituali di S. Alfonso, il cui profumo aleggia in varie prediche del suo discepolo piemontese.

Che se non apparvero in lui gli altri doni mistici e i crismi straordinari dei contemplativi, ciò nulla toglie alla santità del cristiano e del Sacerdote. Alcune anime elette, che navigano sulla scia di S. Teresa e di S. Gio­vanni della Croce, sono chiamate a rispecchiare il Verbo incar­nato nella sua dimora in seno al Padre, fulgori di altissima quiete; mentre altre anime devono piuttosto rappresentarlo come Pastore e Salvatore, nelle lotte dell'apostolato, con grazie di azione, non sempre concilia­bili alle grazie supreme d'ora­zione.

San Giuseppe Cafasso appar­tiene a questa seconda classe di anime. Però sotto il manto del­l'apostolato non è difficile intra­vedere l'asceta e il mistico, che arriva a conchiudere la sua vita col motto di San Paolo: «Vivo io, ma non io: Cristo è che vi­ve in me!» (Gal. II, 20).

IL DEVOTO DELLA MADONNA

Del Sac. Domenico Berretto, salesiano

La mirabile vita e attività apostolica di S. Giuseppe Cafasso (1811- 1860) è sintetizzata nella autorevoli testimonianza del suo concittadino San Giovanni Bosco, il quale esprimeva la sua altissima stima e venerazione verso il suo insigne benefattore, maestro e padre spirituale, in questo elogio, apposto ad un ritratto de Cafasso, che egli fece disegnare e diffuse in moltissimi copie litografate: Il Sac. Giuseppe Cafasso, modello maestro del Clero - Padre dei poveri - Consigliere de dubbiosi - Consolatore degli infermi - Conforto degli agonizzanti - Sollievo dei carcerati - Salute dei condannati al patibolo - Nacque in Castelnuovo d'Asti l'11 gennaio 1811 - Morì Prefetto di Conferenze e Rettore del Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi, il 21 giugno 1860 - Sua ultima volontà: «Spero di vedervi tutti nel Paradiso».
Di questo capolavoro di sanità e di zelo operoso, a vantaggio di ogni umana miseria, la Vergine fu la Maestra e l'Ispiratrice.
S. Luigi Grignon de Montfort ha scritto che quando lo Spirito Santo vede Maria in un'anima, subito vi accorre per prepararvi le sue meraviglie.
Nell'anima di S. Giuseppe Cafasso lo Spirito Santo ha trovato una devozione luminosa, fervente, irradianti alla Vergine, perciò vi ha compiuto i prodigi di santità e di carità, che la Chiesa Cattolica ha riconosciuto mediante la divina garanzia dei miracoli.

Devozione luminosa
La spiritualità di S. Giuseppe Cafasso è eminentemente pratico-pastorale. Egli non ha nulla del dotto che definisce classifica, cataloga, al servizio della pura speculazione. Vuole invece essere apertamente un padre spirituale, un direttore di anime, un consigliere in materia di vita spi­rituale ed ecclesiastica. E' un apostolo di verità pensate praticamente, e credute praticamente, che cerca l'idea e la parola capaci di infiammare il cuore, di mettere l'anima in cammino verso la perfezione.
Questo è facile riscontrarlo anche nella sua devozione e apostolato mariano. Egli non ci ha dato dei trattati e dei libri sulla Vergine, ma solo delle prediche, dalle quali tuttavia è facile ricavare una luminosa dottrina mariana; che riesce solido fondamento alla sua devozione praticata e
predicata.
Il Santo proclamava Maria «la nostra cara Madre, la nostra consolazione, la nostra speranza». Anche ai bam­bini voleva che fosse inculcata la convinzione della ma­ternità spirituale di Maria. Perciò suggeriva ai confessori che, accostandosi dei bambini al confessionale, la prima interrogazione da farsi loro fosse di domandare se vole­vano bene alla propria madre, se non ne avevano che una, ad essi istallando l'idea di due madri: la terrena e la celeste, cominciando così ad infondere in quei cuori infan­tili la vera devozione a Maria.
La parola del Santo Maestro assumeva poi una forza tutta speciale di persuasione e di commozione, quando egli parlava di Maria ai Sacerdoti. Non era possibile per lui figurarsi un degno sacerdote, fedele a tutti i suoi doveri, senza che avesse profonda devozione a questa madre, che egli salutava come la più tenera delle madri, l'amica, la compagna, la maestra, la confidente del sacer­dote nelle fatiche dell'apostolato.
In Maria indicava il rimedio a tutti i mali, a tutte le sofferenze, a cui prima di chiudere gli occhi sarebbe an­dato incontro su questa misera terra.
Tutti perciò invitava a confidare nella protezione della Santa Madonna, assicurando che Ella, la Regina del cielo e della terra, la gran Madre di Dio, non mancherebbe di assistere anche in modo visibile quel moribondo che fosse stato suo devoto.
Nel descrivere poi l'ingresso di un'anima in Paradiso ed il suo primo incontro con Maria SS., il suo cuore esultava al pensiero di parlarle, fissarla, e sentirne le dolci e soavi parole.

Devozione fervente
In una sua predica, San Giuseppe Cafasso così descrive la fervida devozione mariana: «Tener sempre presente il pensiero di Maria SS. come il pensiero e la vista più dolce e consolante su questa misera terra; parlarne e sentirne parlare con soddisfazione e con questo amarla teneramente come l'oggetto più caro dopo Dio nel nostro cuore; porre in essa una confidenza e fiducia illimitate in tutte le vicende della nostra vita, e finalmente mostrarle il nostro attaccamento e la nostra devozione colle pratiche con quegli esercizi che sappiamo essere a Lei di gloria e di gradimento».
Egli ha realizzato per primo, perfettamente, i requisiti della vera e fervida devozione a Maria, proposti agli altri.
Il pensiero di Maria era in lui continuamente presente gli riusciva di stimolo costante ad invocarne l'aiuto materno e ad imitarne i mirabili esempi di virtù.
Ogni giorno, in onore della Madonna, egli si esercitava in piccoli sacrifici e mortificazioni, cambiandoli spesso in grandi penitenze. Il sabato era per lui un giorno tutto di Maria e lo passava in rigoroso digiuno. Oltre il Rosario recitava quotidianamente la coroncina dell'Immacolata. Portava addosso l'abitino ceruleo dell'Immacolata e quello del Carmelo, unitamente alla medaglia con l'immagine della Madonna. Nella sua cappella privata spiccava una statua della Madonna col Bambino in braccio e D. Ca­fasso soleva dire che quella Madonna sapeva tante cose.
Nel mese di maggio si recava ogni giorno a far visita a qualche altare dedicato alla Madonna. In ogni festa mariana voleva che l'altare di Maria fosse ben ornato.
Il cuore di D. Cafasso, così tenero di compassione per ogni miseria umana, era naturalmente inclinato a parte­cipare alla viva devozione dei Torinesi verso la Consolata. Nel suo Oratorio privato vi era appunto un bel quadro della Consolata.
Ogni sabato andava a visitarla nel suo Santuario. Nella novena della festa vi si recava ogni giorno a pregare e nella festa interveniva alla processione. Bisognoso di speciali grazie, le impetrava celebrando la S. Messa alla Consolata.

Devozione irradiante
Tutto il ministero sacerdotale di S. Giuseppe Cafasso è irradiazione efficace di quel fervore di devozione ma­riana, di cui era ripieno il suo cuore.
Continuo era il suo parlare di Lei dalla cattedra, dal pulpito, dal confessionale, come pure nei suoi discorsi famigliari.«Ci parlava spesso della Madonna - attesta Monsi­gnor Bertagna - con una tenerezza che ci toccava il cuore, con accenti che rapivano ed infondevano devozione».
Dalla purezza intemerata di Maria s'ispirava per ecci­tare nei peccatori l'orrore al peccato. I penitenti ordinari di Don Cafasso facevano rapidi progressi nella devozione alla Madonna, partecipando al fervore del loro Padre spirituale.
Il pensiero e l'immagine della Madonna eran pure per il Cafasso mezzi efficaci di singolari conversioni, con­fessando peccatori ostinati nelle carceri e anche ai piedi del patibolo.
 Nell'intraprendere un corso di predicazione affidava sempre a Maria SS. sé e gli uditori con tenerissime espres­sioni: «0 Maria, Voi conoscete quanto costino a Dio le nostre anime: Voi che imparaste ai piedi della Croce che voglia dire un'anima, deh! ottenete a noi tanta grazia d'impegnarci tutti a salvarla».

Epilogo Mariano
S. Giuseppe Cafasso, il figlio amorosissimo della celeste Madre, l'imitatore fedele delle Sue virtù, lo zelatore instancabile del Suo culto, ebbe dalla Vergine la più preziosa delle ricompense: quella che egli aveva bramato ardentemente, chiesta ed aspettata con piena fiducia, du­rante tutta la sua vita: morire in un giorno consacrato ­alla Madonna e godere della Sua visibile assistenza nella ultima agonia.

Chiuse infatti la sua preziosa esistenza il sabato 23 giugno 1860. Nel momento supremo egli fu visto solle­varsi dal letto con tutto il corpo, tendendo le braccia con un sorriso celestiale e poi ricadere dolcemente e spirare. È convinzione generale dei testi, che la SS. Vergine gli sia visibilmente comparsa in quegli ultimi istanti per appagare i suoi desideri.
Questa morte preziosa ci conferma nella certezza che il grande devoto di Maria ottenne pure l'esaudimento della singolare grazia che egli con fiducia filiale chiedeva ogni sabato alla celeste Madre, nella visita al Santissimo. Sacramento, che, sul suo esempio, possiamo ardire di far nostra:

«0 Maria ancor questa grazia ottienimi, che io muoia con Te e con Te me ne voli al bel Paradiso. Troppo duro mi sarebbe, o cara Madre, se avessi in Purgatorio a sospi­rare il tuo volto con quello del tuo benedetto Gesù. Mi serva di Purgatorio questa valle di lacrime, che non ha la bella sorte di vagheggiarvi, amori miei dolcissimi; ma, sciolto da questa carne, fa', o Maria, che non abbia da vedermi differita questa mia desiderata sorte, ma insieme con Te e col tuo Gesù cominci quella vita, che dovrà formare la mia occupazione per tutti i secoli dei secoli».

IL MAESTRO DI TEOLOGIA MORALE

Del Can. Giuseppe Rossino
Rettore dei Convitto Ecclesiastico di Torino.

Il Maestro è perfetto quando di Lui si può dire: “coepit facere et docere. Qui fecerit et docuerit magnus vocabitur in regno coelorum”. Questo maestro è grande perché sa creare una delle più belle sinfonie, quella che si sprigiona dalla parola e dalla vita intrecciate in mirabile armonia.
Nel Cafasso fu così; la vita era un commento della sua parola. Egli ha portato se stesso alle altezze cui voleva portare i disce­poli e incarnò in certo modo la parola della sua vita. La parola si è fatta carne nella sua persona. E come realizzò in se stesso l'ideale della dottrina e della vita così col suo insegnamento non scindeva in due la teoria e la pratica.
Da buon piemontese diceva: «La teoria senza la pratica è una casa disegnata su carta; a che serve? La pratica senza la teoria è una casa costruita, ma senza le regole della statica e perciò destinata a crollare».
Così egli colpiva nel suo centro due errori di metodo egual­mente perniciosi: l'astrattismo che allontana dalla realtà e il pragmatismo moralaio che cammina senza principi scientifici con criteri empirici incerti.
I moralisti che si gingillano con costruzioni fantastiche e consu­mano inutilmente il fosforo cerebrale in una casistica che si don­dola in aria con ipotesi irrealizzabili non piacevano a Don Cafasso.
Il Cafasso era aggiornatissimo ai problemi del suo tempo e dava alla scuola quella nota di agile snellezza che mantiene vivo l'interesse negli allievi. Tanto meno piacevano al Cafasso i moralai, cioè coloro che disprezzando ogni metodo scientifico fanno della morale un raffazzonamento di casi, un centone di soluzioni scon­nesse, da cui esula ogni costruzione logica ed ogni soffio animatore. Fu questa casuistica idiota che gettò tanto discredito sulla scienza Morale. Il Cafasso non fu un pragmatista orecchiante, ma un pro­fondo teologo che studiò a fondo per poter combattere gli avver­sari con la lealtà di chi ne ha lette le opere. Egli era in posizione felice per l'insegnamento della Morale, perché aveva continui con­tatti con la vita. Il suo vasto ministero esercitato in tutte le dire­zioni aiutava e potenziava il suo magistero. Io penso che nessun moralista dovrebbe essere avulso dal mondo e per non cadere in un acido dottrinalismo ogni moralista dovrebbe avere non solo la cattedra ma anche il confessionale. L'intreccio delle due luci, la luce della scienza e quella della vita, dà l'equilibrio desiderato. Le lezioni del Cafasso erano attraentissime perché dotte e palpi­tanti di materiale raccolto nelle carceri, nel confessionale, al ca­pezzale dei morenti, nelle missioni predicate al clero e al popolo. La vita del ministero non dico che corregga certe costruzioni sco­lastiche, ma ne smussa le angolosità troppo dure, dà un senso di adattamento più intelligente, rende capaci di applicazioni meno drastiche.
Nei disegni provvidenziali di Dio il Cafasso doveva aprire in Piemonte l'alveo della corrente alfonsiana; ma egli farà questo dopo  una meticolosa preparazione per conoscere quanto si insegnava in campo avverso. Quando si scrisse come allievo del nascente Con­vitto Ecclesiastico, notava con cura le lezioni del Teol. Guala. Tali annotazioni formano due grossi volumi del suoi manoscritti. Leg­gendo spassionatamente gli autori rigoristi, istituiva confronti tra loro, mettendoli in evidente contrapposizione. Nei fogli in bianco che inframetteva al trattato e che io ho potuto vedere riassumeva in poche linee con sintesi geniale e lucida ciò che gli autori dilui­vano in intere trattazioni.
Il profondo studio lo rese capace ancora giovanissimo di pub­blicare un lavoro originale «collectio dogmatum credendorum» ove elenca in bell'ordine ciò che è di fede, ciò che si avvicina, ciò che è dottrina ecclesiastica o semplice opinione dei teologi.
A chi guarda la missione del Cafasso dall’esterno con occhio superficiale, il suo influsso sulla vita sociale e religiosa del Pie­monte può sembrare ben piccolo. Egli visse sconosciuto ai molti, non creò opere vistose come il Cottolengo e Don Bosco, non comparì sulla ribalta della storia in un momento epico come il Valfré, non ebbe dei riconoscimenti clamorosi né civili né religiosi. Il suo Arcivescovo benché lo amasse di amore tenerissimo fino a seguirne con venerazione i consigli non gli diede mai un segno di distinzione; egli sarà sempre l'umile Don Cafasso.
Nel campo civile, nonostante le sue benemerenze di alto pregio per l'assistenza ai condannati ed ai detenuti al cui ricupero coo­però di più che non tutte le legislazioni, non ebbe medaglie o titoli. Si parlò un giorno della croce dei SS. Maurizio e Lazzaro, ma una sua risposta evasiva ad un complimento ricevuto non lasciò modo di accertare la verità. I suoi compaesani lo volevano nelle liste di Deputati per il collegio di Asti; ma non ne fu nulla per suo espresso desiderio. Restò sempre nell’ombra o nella penombra della scuola. Eppure proprio per questo, proprio perché restò e lavorò  in una scuola a me pare di poter affermare che lavorò e cooperò di più al benessere sociale. Se si pensa che le sue idee, le sue dottrine passavano dal chiuso della scuola a centinaia e migliaia  di     pulpiti da cui scendevano a lievitare la massa, voi capite facil­mente che io non esagero nell'esaltare l'influenza del Cafasso sulla vita spirituale del Piemonte. I suoi allievi erano così diligenti e così conquisi dalla sua calda parola che finirono per abbandonare il testo e raccogliere le sue lezioni che in breve in forma di dispense si diffusero ovunque e di cui alcune copie superstiti restarono ancora negli scaffali delle biblioteche parrocchiali. Il suo più intelligente discepolo, Mons. G. B. Bertagna, Arcivescovo di Claudiopoli, per circa mezzo secolo brillò quale fiaccola sulla cat­tedra del Cafasso stesso, e si acquistò giustamente la fama di Principe dei Moralisti Piemontesi.   
Ma si può dire che nel discepolo riviveva il Maestro perché era proprio Don Cafasso che aveva scelto il Bertagna come suo ripe­titore ed aveva travasato in lui le sue dottrine. Tale e tanta fu l'influenza esercitata dal Cafasso sul Bertagna che questi lo chia­mava il flagello del giansenismo e citandolo si scopriva il capo in segno di venerazione.
Sono giustamente celebri per l'acuta analisi, l'arditezza dei ragionamenti, la stringata capacità di induzione logica le dispense litografate di Mons. Bertagna che vanno per le mani di molti.
Ma chi sa dire quanto del Cafasso vi è là dentro? Dice un proverbio che «solo in Paradiso si saprà di chi sono i figli». Io penso che la stessa cosa si possa asserire di tanti libri. Il Bertagna onestamente lo riconosce e dice che moltissime cose le ha apprese dal Cafasso, ma non lo cita sempre, per timore di non interpretarne fedelmente il pensiero.
A chi legge attentamente la morale del Bertagna non sfugge la casistica raccolta dalle carceri e soprattutto la mirabile rispondenza con la predicazione del Cafasso stampata dopo la sua morte. Si può ben dire quindi che molta acqua scaturita dalla limpida sor­gente del Cafasso fu inalveata nel suoi più illustri successori e così giunse fino a noi per diversi canali.
Un altro diffusore delle dottrine del Cafasso fu il canonico Boccardo scrittore di opere ascetiche, e che a sua stessa confessione volle nelle sue pregiate opere trasfondere lo spirito di Don Cafasso. Voi potete così avere un'idea per misurare il bene fatto dalla sua cattedra e, diciamolo qui sottovoce, il bene immenso che potrebbe ancora fare riversando lo spirito della sua dottrina nelle arterie di molte diocesi italiane e straniere, se il Santo invece di essere piemontese potesse avere il lancio dei lombardi o dei meridionali o dei francesi. I piemontesi non conoscono l'arte dello sfrutta­mento o della réclame di quella perla del clero italiano che i nostri occhi si abituarono a veder brillare tra le mura delle pareti domestiche. Ecco come non è errato il dire che l'atmosfera del Piemonte fu impregnata dalle sue dottrine e che la trama della vita religiosa piemontese porta anche la sua impronta.

IL SANTO NIPOTE DEL CAFASSO IL CANONICO GIUSEPPE ALLAMANO

Sulla scia luminosa del Cafasso si muo­ve un altro grande Apostolo: Giuseppe Allamano, nipote del Santo. Per oltre 40 anni fu Rettore del Santuario della Con­solata e del Convitto Ecclesiastico e in queste mansioni si prodigò in una ma­niera insuperabile. Si accinse all'opera colossale dell'ampliamento del Santuario e poi ancora all'abbellimento dell'inter­no. Lanciò delle iniziative che ancora oggi restano a dirci la sua molteplice attività di organizzatore fecondo. Per mezzo suo la devozione alla Consolata ritrovò il risveglio più ambito della sua millenaria storia. E così lo splendore del­l'arte e del culto si unirono in un unico canto di lode alla Vergine Consolatrice.
Con apostolico coraggio il can. Alla­mano si accinse poi a dare nuova ener­gia alla vita del Convitto con felicis­simi risultati, cosicché l'opera grande del Cafasso continuava a dare i suoi buoni frutti per la saggezza del nipote.
E ancora: mentre si dedicava con tan­to fervore alla vita del Santuario e del Convitto, bruciato dallo zelo del vero Apostolo, l'Allamano fondava l'Istituto Missioni della Consolata, che resta l'ope­ra monumentale ed imperitura del suo grande cuore. E così uno stuolo crescente di Missionari e di Suore, che hanno rac­colto l'eredità di tanto padre, nel nome della Consolata portano al mondo pagano il gioioso annunzio della Reden­zione.
La Chiesa studia le virtù eroiche di questo Santo Sacerdote e noi ci augu­riamo che sorga presto il giorno in cui potremo venerare nella gloria dei Santi, accanto allo zio Cafasso, il santo nipote, Giuseppe Allamano.

AL PALCO DELLA FORCA CON I "SUOI IMPICCATI"

Curioso pranzo quello del giardino di Rivalba, che ebbe a commen­sali Don Cafasso e Piero Mottino, detto il « bersagliere di Candia », bandito di professione, incendiario, grassatore e omicida. Aveva appena ventitrè anni il capobanda della ma­snada succeduta a quella dei fratelli Artusio, che spargeva il terrore nelle campagne.
Un'aureola quasi leggendaria di ca­valleria brigantesca accompagnava la crescente paurosa fama del giovanis­simo bandito, riuscito a fuggire il 4 novembre 1849, quando con la sua ban­da aveva dato l'assalto alla cascina Gardina in quel di Bianzè. In quella tragica giornata il capo banda aveva perduto due compagni e Piero Mot­tino, divenuto uccello di bosco, accet­tando un appuntamento con Don Ca­fasso, si era recato a Rivalba, appunto per incontrare il santo Sacer­dote.
Che cosa si dissero i due uomini così diversi, seduti allo stesso desco? Il Di Robilant, che ci narra la vita del Cafasso, non ci dona al riguardo molti dettagli, ma certo la discussione sulla vita e sui suoi scopi, la redenzione e l'espiazione, debbono esser stati i temi di quel colloquio che il bandito accettò ad un solo patto: intorno ad una buona tavola preparata nel giardino, per esser ben sicuro di potersela svignare al primo lontano segnale di qualche forza sospetta, nelle vicinanze.
Pochi anni più tardi, i due uomini si dovevano veder ancora ad un altro pranzo ben diverso. Il giovane bandito catturato nel 1854, dopo il processo che lo condanna a morte, è consegnato come d'uso all'Arciconfraternita della Misericordia, che ha il pietoso compito di condurre i giustiziandi nella cella detta il «Confortatorio». Qui, Piero Mottino, come gli altri prima e gli altri ancora poi, è seduto su un lettic­cioulo con le catene ai piedi, in attesa della tragica ora dell'espiazione. Per l'ultima volta sono tolte al condannato le catene delle mani e gli è servita l’ultima cena. Ebbene, fu proprio a quel pranzo di macabra vigilia che il «bersagliere di Candia» si vide di fronte, solo invitato, il «Prete della forca», come si chiamava popolarmente Giuseppe Cafasso.
Forse, invisibile agli occhi umani, ma già aureolato dalla luce dell'espia­zione, l'Angelo della buona morte era nella cella del «Confortatorio», tra il prete e il criminale.
E ancora una volta, certo come in quel pranzo servito nel giardino di Rivalba qualche anno prima, gli stes­si temi devono essere affiorati mentre le ore agonizzavano ineluttabilmente. Che cosa disse il buon prete al terri­bile bandito. Quali parole trovò nel suo animo sfolgorante di fede e di pietà per consolare il morituro che in " piena e sana giovinezza doveva dare un così tragico addio alla vita.
Giuseppe Cafasso, che assistette una settantina di condannati a morte, ac­compagnandoli dal «Confortatorio» al palco dove il boia attendeva la vit­tima, doveva conoscere i più profondi abissi della coscienza umana, se am­mansiva i criminali più violenti come quel Francesco Delpero, detto la «Ti­gre» per i suoi cupi delitti, che morì giustiziato a Bra, rassegnato e sereno, e quel tal Michele Boglietti assassino, sanguinario, che diventò, dopo i collo­qui con il «Prete della forca», timido come un fanciullo tanto da accettare una commissione che il buon Prete gli diede nientemeno che per il paradiso. «Tu andrai diritto al cielo, senza sfiorare neppure il purgatorio. Tu sconti già oggi il tuo peccato curvando il capo davanti all'uomo di Dio, prima ancora che all'uomo della legge che ti cingerà il collo con la corda. Ma benediremo la corda nel nome del Pa­dre, del Figlio e dello Spirito Santo. E il laccio al collo scioglierà la tua anima, o fratello. E tu sarai con Dio in Paradiso come il buon ladrone, che dalla croce del Golgota ascoltò la se­conda parola di Gesù...».
E certo, Piero Mottino, come gli altri prima, come tanti altri poi, dopo aver udito le parole del «Prete della for­ca» andò incontro alla buona «sora nostra morte corporale». Non differen­temente aveva ascoltato dal Golgota il buon ladrone, Disma, la parola con­solante di Gesù. E i cieli si sono aperti.
Giuseppe Cafasso compiva così due azioni pietose di grande bellezza cri­stiana per i giustiziandi. La prima nel «Confortatorio», dove avvicinava non una volta, ma parecchie, secondo i casi e le circostanze e i bisogni delle anime, coloro che si preparavano al grande giorno.
La seconda azione consisteva nel rimanere vicino al condannato nella fatale mattina dell'esecuzione, che veniva per solito al «Rondò della forca». Al tocco lugubre di una campana si formava l'ultimo corteo. I Fratelli della Misericordia assistevano il condannato in queste tremende ore. E mi piace ricordare qui che la nobile associazione esiste ancor oggi, pur avendo mutato di fini, poiché si occupa redimere gli scarcerati. Questa è prova che la pietà della nostra Torino sopravvive al volger dei tempi e al mutar degli avvenimenti.
Vicino al condannato, sul carro apposito, prendevano posto il carnefice e un prete. La folla che vedeva passare il macabro corteo riconosceva sempre la caratteristica e bonaria fisionomia di Don Cafasso, poiché era lui che quasi tutti i condannati volevano come ultimo compagno. Era lui che benediva la corda mettendola al collo come simbolo e segno di possesso della morte già in agguato. Molte volte, dei condannati si convertirono durante questo ultimo viaggio. Certo, in questi momenti di immediata vigilia, il corpo stremato di forze, incapace di reagire diventa quasi un freddo meccanismo automatico, dentro il quale l'anima si dibatte prigioniera come la crisalide, invocando il cielo. Si cita ad esempio il caso di Carlo Demichelis, assassino di sua suocera, che davanti ad un’immagine della Madonna della Consolata, raffigurata alla casa numero otto di via del Carmine, chiese spontaneamente la confessione e l'assoluzione.
Il Cafasso aveva un modo tutto suo di accompagnare questi infelici all’ultimo passo. Vigile e sereno, pieno di umanità e di dignità, sapeva adattare parole e gesti alle diverse circostanze e ai temperamenti più svariati. Il Cardinale Cagliero, ad esempio, riporta una sua impressione giovanile dell'inverno 1853: il Sindaco della Misericordia ha bendato gli occhi al colpevole; ed ecco avanzarsi Don Cafasso che, con il Crocifisso in pugno, rimane vicino al morituro, sorreggendolo con le preghiere e l'affetto paterno. Dopo data l’assoluzione e salendo sul palco stesso per la scaletta da sinistra, mentre il giustiziando accedeva da quella di destra, Don Cafasso sembrava allora trasfigurarsi in quell'Angelo della buona morte, che già andava a celebrare la Messa in suffragio dell’anima appena svincolata dalla terra, alla Chiesa della Misericordia...
E certo, doveva amarli questi infelici che scontavano duramente le loro colpe generate dagli istinti, scaturite dalle passioni, germogliate dalla cattiva edu­cazione e delle pessime compagnie, ali­mentate dai vizi diversi, se li chiamava «i miei santi impiccati».
Sul palco, prima d'impartire al giu­stiziando l'ultima assoluzione, affidava a lui le sue commissioni per la Ma­donna. «Sentite - diceva, - io non presto la mia assistenza per niente: se vi do­mandassi un piacere, me lo neghere­ste?» era la domanda solita. «Che piacere posso mai farle io al punto in cui mi trovo?». E il Santo: «Il piacere è questo: ap­pena morto, voi andrete subito in Pa­radiso. Allora...». «Subito in Paradiso?! Nemmeno in Purgatorio?». «No, non vi andrete, ma di volo in Paradiso. Pertanto, quando vi sarete giunto, vi recherete tosto a ringraziare la Madonna».
«Come la Madonna prima del Si­gnore?». «Sì, prima del Signore». «Ma, il Signore non s'offenderà?», «No, non si offenderà». «E se si offendesse, gli dirai che  fu Don Cafasso a consigliarmelo».  «Sì, sì, e quando sarete innanzi Lei, vi inginocchierete a' suoi piedi, la ringrazierete, e le direte di preparar il posto anche a me».
La ferma fede del Santo si trasfondeva nei suoi protetti.
«Parto adesso a fare la sua commissione alla Madonna», gli diceva tutto lieto un condannato, salendo i gradini del palco.
E il Faggiani, brigante di strade quando sentì che il boia si preparava a dargli la spinta, disse, sorridendo, al Santo: «A momenti la sua commissione sarà fatta».
Uno solo nel salire, essendosi rotto un pinolo sotto i piedi, fu sul punto di pronunziare una mezza bestemmia ma trattenutone dal Santo la troncò a metà e ne domandò perdono a Dio ricevendone l'assoluzione prima che il carnefice gli compririmesse col laccio il collo.
Così meravigliosi risultati, facevano, pertanto esclamare agli esecutori che alla presenza di Don Cafasso la morte non era più morte, ma una gioia, un conforto, un piacere.
E avveniva, che i giustiziandi, trovandosi sulla via del patibolo, spesso mostravano di andare non già alla morte, ma quasi ad un trionfo. Della loro contentezza poi, davano chiara attestazione dinanzi alla folla curiosa.
«Lo crederebbe?, diceva uno gettando uno sguardo intorno al palco, che fra tanta gente il più tranquillo sono io?».
E un altro: «Chi crederebbe che quanti qui siamo il più contento sono io?». E rivolto agli astanti: «Pregate per me, ch'io spero fra poco di pregare per voi». E tutto ciò sempre senza mai lasciar trasparire negli atti o nel viso il minimo turbamento.
Altri edificavano la folla con la professione del loro pentimento. «Fratelli, che mi vedete - esclamava uno di essi - sappiate ch'io sono sull'orlo della eternità ed a momenti vi entrerò. Fortunato, se non l'avessi mai dimenticata!».
«Finora, l'ho sbagliate tutte, diceva un altro, ma spero d'indovinare l’ultima, e questa mi compenserà delle altre».

IN CENERE ANCORA OGGI

Di Padre Ruggero Maria Cipolla o. f. m.
Cappellano delle Carceri Giudiziarie di Torino

Quando varcai per la prima volta la soglia del carcere, mi sentivo disorientato. Infuriava la guerra in tutta la sua assurda ingiu­stizia; avanzava la morte, inesorabile e crudele. Vagavo nei corridoi senza sole, incerto sul da farsi; attraverso gli spioncini delle pesanti porte mi affacciavo alle celle scru­tando chi vi abitava: visi spettrali, con i segni profondi della sofferenza, della fame, della paura.
Poi, dopo pochi giorni dal mio primo ingresso nel carcere, mi si disse che avrei dovuto, l'indomani, assistere un condannato a morte. Il «mio» primo condannato a morte!
Sentii nell'anima uno schianto, crebbe la mia incertezza. E mi aggrap­pai disperatamente al confortatore per eccellenza dei condannati a morte: S. Giuseppe Cafasso, il prete della forca.
La porta cigolò sinistra ed il guardiano si scostò per farmi entrare nella cella semibuia. Udii il tonfo della porta che si richiudeva alle mie spalle: ero solo con il «mio» condannato.
Il mattino lo accompagnai al Martinetto: un'ultima assoluzione, un ultimo bacio al piccolo Crocifisso che gli avevo posto tra le mani.
Poi lo scatto nervoso ed assordante dei fucili, uno zampillo vivo di sangue dalla giovine fronte sulla minuscola croce; e l'uomo si afflosciò appena, reclinò il capo in un abbandono più forte del sonno.
Nel pomeriggio dello stesso giorno venne la mamma del giustiziato. Non sapeva del figlio. Aveva consegnato all'agente addetto un po' di biancheria e qualcos'altro perché il suo figliolo non dovesse soffrire troppo la fame. Ma il soccorso le era stato respinto. Alla povera madre, cui già sorgeva nel cuore il dubbio dell'irreparabile e che mille domande rivolgeva tra i singhiozzi agli agenti di servizio, fu detto di attendere: sarebbe stato chiamato il Cappellano.
“Suo figlio non ha più bisogno di vesti, non più di pane. È morto come muoiono i santi, come muoiono gli eroi, stringendo Gesù fra le mani...”La madre, straziata da un dolore troppo grande per essere descritto, riprese la via del ritorno, portando con sé, insieme al soccorso ormai inutile, una piccola semplice immagine del Beato Cafasso.
D'allora vidi sovente, troppo sovente, giovani corpi afflosciarsi nei lacci delle corde, visi imberbi irrigidirsi nell'immobilità della morte, piccole croci bagnarsi di sangue vivo.
E tante madri vidi, con i visi rigati da lagrime brucianti, baciare con labbra trepide le semplici immagini del Beato Cafasso.
Il 22 giugno 1947 Pio XII eleva il Beato Cafasso alla gloria degli altari.
Nel novembre dello stesso anno veniva indetto a Roma il primo Con­vegno Nazionale dei Cappellani delle Carceri d'Italia, sotto la presidenza di Sua Eminenza Rev.ma il Cardinale Maurilio Fossati, Arcivescovo di Torino. Ed il Santo Padre così esortava: «S. Giuseppe Cafasso sia il vostro modello e il vostro intercessore presso Dio».
Il primo Convegno Nazionale terminava con il voto unanime dei Cappellani al Sommo Pontefice perché si degnasse di nominare S. Giuseppe Cafasso Patrono delle Carceri d'Italia. Il voto era accolto e la supplicata proclamazione avveniva il 9 aprile 1948.
Nel settembre poi dell'anno successivo, veniva indetto il secondo Convegno Nazionale. I Cappellani delle Carceri d'Italia si incontravano questa volta a Torino, presso la tomba del Santo, per rendere devoto omaggio al Maestro del Clero ed insieme all'Apostolo dei sofferenti.
Il riconoscimento ufficiale del Cafasso a Maestro del Clero e Patrono delle Carceri d'Italia non è che la naturale affermazione degli intimi desideri dei sacerdoti e dei detenuti; perché se gli uni sentono viva la necessità dell'insegnamento del Santo per l'esercizio del loro ministero, gli altri, se pur non sempre coscientemente, nutrono per il loro Patrono devozione sincera e profonda.
La prova palese è data dall'accoglienza, tutt'altro che indifferente, che i detenuti riservano alla Reliqua insigne del Cafasso, nell'iniziata «Peregrinatio» attraverso le carceri del Piemonte. Manifestazione eloquente e toccante, che non ha bisogno di commenti.
S. Giuseppe Cafasso torna alle Carceri e, come un secolo fa, sa far vibrare di commozione e di pentimento i cuori colmi d'afflizione di tanti poverelli; i quali, posando le labbra riconoscenti sul Crocifisso da Lui usato nell'assistere i condannati a morte, sanno sussurrare oggi, come allora, una semplice ma tanto significativa invocazione: «Padre, mi stia vicino! ».

"GENERALE, FACCIA LA PREDICA"

1849: Novara. La disfatta senza remissione: Carlo Alberto esule; l'armistizio. Non bastano i morti della perduta battaglia, l'orgoglio ferito vuole una soddisfazione: bisogna trovare "una persona da ren­dere responsabile in solido della grave disfatta. Gerolamo Ramorino rispose in solido di Novara, Traditore?. Pare da escludersi. Sbagliò in maniera più evidente degli altri generali piemontesi che, chi più chi meno, in quella campagna veramente fatale, furono travolti da­gli eventi.
Questa fu la ragione principale che valse al comandante delle truppe piemontesi battute dagli austriaci alla Cava,  il rinvio dinanzi al Consiglio di guerra. E la sentenza, venne gravissima, infamante: fucilazione, alla schiena, previa degradazione.
Indomita figura di rivoluzionario, seguace di  Mazzini, Gerolamo Ramorino, nelle carceri della Cittadella accolse cortesemente l'appa­rire di Don Cafasso; ma allorquando questi accennò alla Confessione, il generale rispose contrariato: «Il mio stato presente non ha bisogno di queste umiliazioni». Era un  congedo, che poteva scoraggiare chiunque altro, meno Don Ca­fasso, il quale tornò imperterrito a visitare il generale.
Dopo tre o quattro colloqui Ramorino e Don Cafasso erano amici. Umiliandosi alla Confessione il fiero rivoluzionario d'un tempo dichiarò di arren­dersi ad un uomo degnissimo di essere sacerdote. Confessarsi da Don Cafasso voleva dire uscirne rigenerati in Cristo nel senso più profondo della parola. Fu così anche per Ramorino.
Il ricorso al Re non fu inutile: la pena infamante venne mutata nella morte onorevole: fucilazione nel petto senza degradazione. Que­sta morte non faceva più paura al barricadiero che l'aveva affrontata cento volte. Poi, la sua anima, il suo cuore riboccavano ormai dei tesori che Don Cafasso vi aveva profusi.
22 maggio 1849: di buon mattino, in piazza d'Armi, verrà fucilato il generale Gerolamo Ramorino.
La sera antecedente, Don Cafasso si reca alla Cittadella ed il ge­nerale ripete la sua Confessione, poi chiede al confessore che gli fac­cia compagnia per quell'ultima notte. Don Cafasso scappa un momento a casa a prendere il breviario e torna. La notte la passa quasi tutta in  preghiere e in  conversazioni  edificanti. È l'alba quando Don Cafasso si accinge a preparare l'altare per la S. Messa. Di fuori or sì or no, giunge l’eco sorda dei reggimenti che vanno a schierarsi in piazza d'Armi ed il mormorio della grande folla che si va addensando per le strade. Il generale vuole aiutare Don Cafasso, ma  questi non permette, ed allora Ramorino si ritira in un angolo a pre­pararsi fervidamente per il Santo Viatico. Ascolta la Messa e si comunica in maniera esemplare.
Quando è l'ora di muoversi verso il luogo del supplizio, Don Ca­fasso ne viene avvertito con discrezione. Il generale comprende, ha un grande gesto di rassegnazione, si ricompone la grande uniforme che luccica di decorazioni. Beve un po' d'acqua zuccherata, risciacqua, tranquillissimo, il bicchiere che depone capovolto, poi s'incammina. Fuori attende una vettura. Ramorino vorrebbe far la strada a piedi per dimostrare alla folla come i vecchi soldati sanno andare incontro alla morte. Don Cafasso lo prega di accettare la vettura per lui, che non si sente di andare a piedi, ed il generale acconsente riservandosi di fare a piedi il tratto di piazza d'Armi, che porta al luogo desti­nato per la fucilazione.
La folla che si assiepa lungo il passaggio è enorme: è pur bello quel generale che va a morire: sereno e tranquillo in grande uniforme, come se andasse a una festa!
Ad un dato punto, indicando a Ramorino la folla, Don Cafasso gli fa osservare di quanta edificazione riuscirebbe una sua parola a tutta quella gente. “Non so parlare in pubblico”, risponde il generale.
“Non è necessario parlare, basta baciare il Crocifisso” risponde Don Cafasso.   
Ramorino prende il Crocifisso e lo porta alle labbra tra i mormorii d'ammirazione della folla.
In piazza d'Armi il generale discende con Don  Cafasso. I tamburi rullano mentre le truppe presentano le armi. È la parata della morte. Il generate s'incammina a passo marziale, ma Don Cafasso lo prega di rallentare, non si sente di seguirlo a quell'andatura. E Ramorino rinunzia anche a questa soddisfazione.
Ad un dato punto un plotone di vecchi soldati fa un'evoluzione. Don Cafasso senza accorgersene si trova staccato e al riparo dai colpi, mentre il generale offre il suo petto ai fucili spianati. Un comando secco, tagliente che ha per tutta risposta un crepitio di fuci­leria. Colpito da cinque palle, Gerolamo Ramorino cade esanime al suolo.
Il corpo a terra e l'anima, trasfigurata dalla grazia, al cielo.

TESTAMENTO DI S. GIUSEPPE CAFASSO

«SONO PRONTO A PARTIRE OGGI STESSO»

«Io affido la mia morte all'amore ed alle cure della mia tenera Madre. Entro il suo cuore io ripongo le ore mie estreme e gli ultimi miei sospiri. Ogni gemito che darò in quel punto; ogni respiro, ogni sguardo intendo sia una voce che la chiami, la solleciti per me dal cielo, sicché presto la veda, la contempli, l'abbracci e possa morire con Lei. Che se per tratto speciale del suo buon cuore volesse chiamarmi in un giorno a Lei consacrato, sarebbe una consolazione ancor più grande per me poterle presentare l’offerta della mia vita in un tempo, in cui in cielo e in terra si festeggi il suo Santo Nome e le tante sue misericordie».

La Madonna ascoltò la Sua preghiera. Il 6 giugno 1860. provò il grande dolore di veder perquisito l'alloggio, per cause politiche. Erano tempi tristi per la Chiesa e per il clero: e quella fu la goccia che fece traboccare il suo cuore. Il giorno 12, malfermo nel passo e palli­dissimo in volto, dovette lasciare il confessionale e porsi a letto. La malattia fu breve e nei pochi giorni d'altro non parlò che del Paradiso, chiedendo  «per carità che non si andasse da lui, se non per cose gravi, perché voleva prepararsi per il Paradiso».
Circondato da sacerdoti, assistito dal Can. Anglesio, superiore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cafasso, con un sorriso celestiale sulle labbra e tendendo in alto le braccia, morì alle ore 10 e un quarto del 23 giugno 1860, in età di anni 49. E se il Can. Anglesio, inginocchiato presso la salma, disse: «È preziosa al cospetto di Dio la morte dei suoi santi», il popolo torinese, che aveva mille occasioni per apprezzare il santo sacerdote, con uno di quei motti popolari, carichi di spontaneità e di buon senso, decisamente sentenziò: «In Paradiso o Don Cafasso o nessuno».
E fu il profetico anticipo di lode e di gloria che a suo tempo l'autorità della Chiesa ha solennemente confermato.

SAN GIUSEPPE CAFASSO PRETE DI DIO

del Can. Giuseppe Ruata

Ti hanno chiamato «Prete della forca» e potevano anche chiamarti il Prete del Confessionale, o dei poverelli, o del Convitto Ecclesiastico, o di tan­te altre cose. Ma non conta. Quello che conta è quel «Prete»! Il tuo grande amico Cottolengo ha lasciato un monumento di ca­rità: il tuo illustre discepolo Don Bosco è caro alla gioventù di tutto il mondo cat­tolico. Tu non hai lasciato niente, eppure nel tuo esile corpo malfatto bruciava lo spirito e dell'uno e dell'altro.
Prete di Dio! Come appari dalla tela, sopra l'altare che ti è stato dedicato, come riposi nell'urna di bronzo che Pio XI t'ha donata, con le braccia in croce, parato per la Messa! Questo è il tuo titolo: Prete di Dio! Semplicemente e sempre «Don Cafasso»!
C'è tanta gente che prega attorno alle tue spoglie. E i preti che vengono a trovare la Madonna, si fermano un momento da te, ti fissano in volto e vogliono ripartire con un po' del TUO cuore!
Che mistero meraviglioso questo «Don Cafasso» senza niente di più! Non si sa di dove prenderti, e si intuisce c un abisso! Prete di Dio: o niente! o tutto!
Tu sei niente, anche nell'espressione fi­sica del tuo corpo mal rinchiuso nella tonaca nera.
«Qui soleva pregare Don Cafasso» è scritto in un angolo del Santuario (là dove potevi essere il più vicino possibile alla Madonna, e sempre in un «angolo»): ep­pure, dai tuoi occhi arguti si protende radiosa l'anima tua consacrata al di là delle barriere dell'umano, in Dio! «Dolce guida, ti direbbe Dante, che sorridendo ardea negli occhi santi!». Prete di Dio, Don Cafasso! Prima che dei poveri e dei peccatori e della forca e d'ogni altra esteriore attività sacerdotale: Prete di Dio anche senza esserlo, poniamo, di nessuno: per esserlo, veramente, di tutti !
Tutti i momenti escono romanzi sul Prete. Sono di laici, per lo più, giacché un prete non tenterà mai di svelare ad altri il suo romanzo!
Sono di laici che avvertono un tema ghiotto e tentano magari di poter valicare certe soglie invalicabili. Si illudono! Noi ti preghiamo, Don Cafasso, per i Preti di tutto il mondo (e per quelli più tuoi, della tua Torino!) con la sublime pre­ghiera delle Giornate Universitarie di Cler­mont Ferrand:
«Moltiplica i Sacerdoti, ma da' soprat­tutto a noi dei Sacerdoti santi! Dei Sacer­doti santi, messaggeri di una verità ecu­menica ed eterna, e che sappiano presentarla agli uomini del loro secolo e del loro paese. Dei Sacerdoti santi per il giorno d'oggi; preti antichi, in uomini nuovi. Essi sono in­caricati dal Signore di un'ambasciata. Si presentino quindi, prima di tutto, come suoi testimoni, col riverbero sopra di sé della divina virtù. Da' loro di attuare nella loro vita il mistero della morte del Signore che essi celebrano in questa solennità piena di meraviglie che è la loro messa di ogni mattina. Attingano in questo mistero l'inquietudine per la salute dei loro fratelli, l'inquietudine per la salute del mondo! Sap­piano, nonostante questa inquietudine, rispettare la libertà delle anime: quella libertà di cui la parola di Cristo ha dato il gusto al mondo. Comprendano e parlino la lingua del loro tempo, pur avendo cura di non compromettere, con opinioni che variano e mutano, la imperitura verità del Vangelo.
Custodiscano, di fronte al lungo inverno delle anime, la speranza ostinata delle pri­mavere a venire, e di fronte agli stessi per­secutori si ricordino della via di Damasco e dei segreti domani della divina Prov­videnza!».
C'è forse un po' del tuo più vero ritratto, Don Cafasso, in questa preghiera che get­tiamo, per i nostri Preti, al tuo immenso cuore di santo!
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56
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