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La 36a congregazione generale ha eletto padre Arturo Sosa Abascal, della Provincia del Venezuela, superiore generale della Compagnia di Gesù.

P. Arturo Sosa è nato a Caracas (Venezuela) il 12 novembre 1948. E’ stato delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma, ed è consultore del Padre Generale. Si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica Andrés Bello (1972) e ha conseguito un dottorato in scienze politiche presso l’Università Centrale del Venezuela.
Il padre Sosa parla le seguenti lingue: spagnolo, italiano e inglese e comprende il francese.

Nella 35a congregazione generale del 2008, il generale Adolfo Nicolás l’ha scelto come consultore generale. Nel 2014 entra a far parte della Curia della Compagnia di Gesù a Roma come delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma. Si tratta di istituzioni che dipendono direttamente dal Superiore Generale e per le quali viene nominato un delegato. A queste, oltre alla Curia generale, appartengono anche la Pontificia Università Gregoriana, il Pontificio Istituto Biblico, il Pontificio Istituto Orientale, la Specola Vaticana, Civiltà Cattolica così come i collegi internazionali.

Tra il 1996 e il 2004 è stato Superiore Provinciale dei gesuiti in Venezuela. In precedenza è stato coordinatore dell’apostolato sociale in questo paese e direttore del Centro Gumilla, una ricerca e azione sociale dei gesuiti in Venezuela.

Padre Arturo Sosa si è dedicato a lungo all’insegnamento e alla ricerca. Ha svolto diverse posizioni e funzioni in ambito universitario. E’ stato professore e membro del Consiglio della Andrés Bello Università Cattolica Fondazione e Rettore dell’Università Cattolica di Tachira. In particolare, ha perseguito la ricerca e l’insegnamento nel campo delle scienze politiche, in diversi centri e istituzioni, come la Cattedra di Teoria politica contemporanea e il Dipartimento di cambiamento sociale in Venezuela presso la Facoltà di Scienze Sociali. E ‘stato ricercatore presso l’Istituto di Studi Politici, Facoltà di Scienze Politiche presso l’Università Centrale del Venezuela e, presso la stessa università, professore presso la Scuola di Studi Politici presso il Dipartimento di Storia delle idee politiche del Venezuela.

Nel 2004 è stato invitato dal Centro di Studi Latinoamericani presso la Georgetown University negli Stati Uniti ed è stato professore del Dipartimento di pensiero politico venezuelano dell’Università Cattolica di Tachira.

Ha pubblicato diversi lavori, in particolare sulla storia e sulla politica del Venezuela.

Fonte: http://gc36.org/it/

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Padre Sosa, nuovo Superiore dei Gesuiti: inizia una grande sfida

E’ stato eletto il nuovo Superiore generale della Compagnia di Gesù. Si tratta di padre Arturo Sosa Abascal, della Provincia del Venezuela. Padre Sosa, 68 anni, venezuelano, è stato consultore del padre generale, delegato generale per le case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma. Ha conseguito un dottorato in scienze politiche presso l’Universidad Central de Venezuela. Padre Arturo Sosa, nato nel 1948 a Caracas, è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1966 ed è stato ordinato sacerdote nel 1977. Padre Sosa è il 31.mo Superiore generale della Compagnia di Gesù. Ma con quali sentimenti padre Arturo Sosa Abascal ha ricevuto questo incarico? Ascoltiamolo al microfono di padre Bernd Hagenkord

 

"Ho il sentimento di avere bisogno di tanto aiuto: adesso incomincia una grande sfida. Questa è la Compagnia di Gesù e allora Gesù deve darsi da fare anche qua, con noi. Dopo, io mi fido dei compagni che sono così bravi. Spero anche che la Congregazione ci porti avanti con un bel gruppo di lavoro e anche con orientamenti molto precisi per potere andare avanti: questo non è il lavoro di una persona, è il lavoro del corpo della Compagnia. Io farò del mio meglio possibile. Sono molto sorpreso, molto grato al Signore. Prego per tutti".

Sulla figura di padre Arturo Sosa si sofferma, al microfono di Amedeo Lomonaco, uno dei delegati che hanno partecipato alla votazione, padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica: 

 

– Padre Sosa è un padre di grande esperienza nella Compagnia di Gesù. Ha vissuto quattro Congregazioni generali e nella prima di queste ha anche incontrato l’attuale Papa Francesco. Quindi è una persona che ha grande esperienza di governo. È stato provinciale della provincia del Venezuela, quindi in una terra piena di tensioni che ha vissuto ed affrontato personalmente. Ed è anche una figura profondamente spirituale, di una spiritualità che è capace di incarnarsi in un territorio. Lui ha studiato ed ha insegnato teorie delle politiche ed è stato anche rettore di un’università cattolica in Venezuela. Quindi è una figura complessa, a tutto tondo. Una figura che tocca l’aspetto spirituale, quello intellettuale e quello di governo.

- Ancora una volta la storia della Chiesa, presente e futura, porta l’impronta dell’America Latina. Dopo Papa Francesco, salito al soglio di Pietro, adesso è un venezuelano il nuovo Superiore dei Gesuiti …

– Sì. Indubbiamente l’America Latina si conferma in questo modo una Chiesa "fonte". Lo è per la Chiesa universale con Papa Francesco e lo è anche per la Compagnia di Gesù. Chiaramente, qui vediamo un legame molto forte: le due persone non solo si conoscono - Papa Francesco, diremo il “Papa bianco” come si suol dire e il “Papa nero” - ma si apprezzano. E quindi possiamo immaginare una Compagnia di Gesù ancora più al servizio della Chiesa sotto il Romano Pontefice come è sua natura.

- Anche in questo caso è una periferia, il Venezuela, proprio al centro della Chiesa...

- Ancora una volta una periferia, ma non solo una periferia, un luogo di tensioni! Questo è molto importante. Padre Sosa ha vissuto queste tensioni in una terra molto difficile e tuttora complessa. Quindi è una persona di grande esperienza capace anche di affrontare le tensioni che possono sorgere nel mondo, nelle varie periferie più calde. Quindi una persona di periferia certamente, nel senso in cui la intende Papa Francesco.

- È la prima volta nella storia della Chiesa cattolica che un Superiore generale della Compagnia di Gesù viene eletto durante il Pontificato di un Papa gesuita...

R . - Questa è una responsabilità in più, se vogliamo, perchè il Pontefice vive la spiritualità della Compagnia. D’altra parte, il Papa è il Papa di tutta la Chiesa e la Compagnia è al servizio del Papa chiunque egli sia. Quindi, in questo senso, una piena continuità della Compagnia di Gesù a servizio della Chiesa e del Papa.

- Padre Sosa succede a padre Adolfo Nicolas. Quali sono le sfide nell’immediato?

- Le sfide della Compagnia di Gesù le affronteremo nei prossimi giorni delle Congregazione generale. In fondo noi siamo riuniti - è un grande corpo di Gesuiti provenienti da tutte la parti del mondo - e stiamo proprio affrontando questo, ovvero cosa la Chiesa e il mondo ci chiedono in questo momento.

Come si è arrivati all'elezione
Hanno partecipato alla votazione 212 elettori, ovvero i delegati di quasi 17 mila Gesuiti del mondo. Padre Arturo Sosa succede a padre Adolfo Nicolas, dimessosi ad 80 anni come il suo predecessore Peter Hans Kolvenbach nel 2008. Il Pontefice è la prima persona - come avviene per tradizione - a cui viene comunicato il nome del nuovo Superiore dei Gesuiti. E’ la prima volta nella storia della Chiesa cattolica che un Padre generale della Compagnia di Gesù viene eletto durante il Pontificato di un Papa gesuita.

La 36.ma Congregazione
La prima Congregazione generale si è tenuta nel 1558, due anni dopo la morte fondatore della Compagnia di Gesù, Sant’Ignazio di Loyola. L’ultima, la 36.ma, è iniziata a Roma lo scorso 2 ottobre ed è stata incentrata sul tema “Verso il largo, dove è più profondo”. La maggior parte delle votazioni riguardano proposte su testi che, se adottati, diventano norme per l’orientamento della Compagnia. Per la prima volta, molte votazioni si sono svolte tramite sistemi digitali grazie a tablet forniti agli elettori. Per l’elezione del Padre generale, la procedura adottata, invece, è stata esattamente quella prescritta da Sant’Ignazio nelle Costituzioni della Compagnia attraverso il metodo tradizionale delle schede cartacee.

L’elezione del Padre generale
L’elezione si è tenuta dopo quattro giorni di “murmuratio”, ovvero un tempo di preghiera e di discernimento. Oggi dopo la celebrazione della Messa - nella quale gli elettori invocano nuovamente lo Spirito Santo perché li ispiri al momento del del voto - si sono incontrati nell’aula per la votazione. Ogni elettore ha ricevuto una scheda cartacea. Su un lato è apposta la seguente frase: il sottoscritto “giura che sta votando per chi pensa, nel Signore, che sia maggiormente in grado di esercitare questo incarico”. L’elettore, dopo aver firmato il giuramento, sul lato opposto del foglio ha poi scritto il nome della persona per cui ha votato.

Il profilo del Generale nelle Costituzioni
Il profilo delineato nelle Costituzioni è innegabilmente molto ambizioso: il Superiore generale - si legge - “dev’essere uno dei più eminenti in ogni virtù e dei più meritevoli dentro la Compagnia, dove da molto tempo dev’essere conosciuto come tale”. La guida che Sant’Ignazio auspica per la Compagnia di Gesù – si sottolinea inoltre sul sito istituzionale dei Gesuiti italiani – “è qualcuno che possa guidare prima di tutto con il suo esempio”, soprattutto “una persona di profonda spiritualità”. “Un amico di Dio nel pregare, nell’agire e nelle relazioni umane”, con “una libertà di cuore che gli permetta di guidare la Compagnia con amore umile, giusto e coraggioso”.

Fonte: Radio Vaticana

 

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Il presidente colombiano Juan Manuel Santos è il premio Nobel per la Pace 2016. Lo ha annunciato la Commissione norvegese, che ha deciso di premiare il politico per “i suoi risoluti sforzi nel far cessare la guerra civile nel suo Paese, durata più di 50 anni, una guerra costata la vita di almeno 220mila colombiani e causato sei milioni di sfollati”. Il premio, inoltre, “è un tributo anche alla popolazione colombiana, che non ha rinunciato ad una pace giusta, e a tutte le parti che hanno contribuito alla processo di pace”.

Juan Manuel Santos, 65 anni, è presidente della Colombia dal 2010, dopo aver ricoperto le cariche di ministro del Commercio, delle Finanze e della Difesa.

La guerra tra Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e Bogotà è iniziata nel 1964, dopo la repressione militare di una rivolta contadina. Manuel Marulanda Vélez (morto nel 2008) si mette alla guida di un gruppo di contadini formati al marxismo e decide di passare alla lotta armata per fondare uno Stato indipendente. Dopo più di 40 anni di guerriglia, nel 2010 Juan Manuel Santos inizia una trattativa segreta con le Farc.

Il 22 giugno scorso, il governo colombiano e i guerriglieri delle Farc hanno annunciato un accordo storico per un cessate il fuoco definitivo e hanno firmato un trattato di pace all’Avana. Il 3 ottobre scorso, però, un referendum popolare – voluto da Santos – ha bocciato l’intesa. Il 51,3% dei colombiani ha votato per il “no”, convinto che l’accordo facesse troppe concessione alle Farc. L’intesa infatti prevedeva un progetto di amnistia per i guerriglieri che non hanno compiuto crimini contro l’umanità e pene ridotte per coloro che confessano le proprie colpe.

Questo risultato, scrive il comunicato stampa di Oslo, “ha creato grande incertezza per il futuro della Colombia. C’è pericolo reale che il processo di pace si interrompa e che la guerra civile riesploda”. Il referendum, prosegue il messaggio, “non è stato un voto contro la pace […] e la Commissione norvegese per il Nobel enfatizza il fatto che il presidente Santos sta invitando tutti i partiti a partecipare ad un dialogo dalle larghe intese”.

Fonte: AsiaNews/Agenzie

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Premio Nobel per la Pace al presidente colombiano Santos

Il vincitore del Premio Nobel per la Pace del 2016 è il presidente colombiano Juan Manuel Santos per l’accordo raggiunto con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Un’intesa, tuttavia, bocciata il 2 ottobre scorso da un referendum popolare. L’annuncio è stato dato ad Oslo dal Comitato norvegese per il Nobel. Nella motivazione si ricordano anche "anche il popolo colombiano" e "tutte le parti che hanno contribuito al processo di pace”. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Il presidente colombiano Santos è stato premiato per i suoi “sforzi tenaci” per mettere fine – si legge nella motivazione - ad una guerra civile lunga più di 50 anni e che è costata la vita ad almeno 220mila persone. Il Comitato che ha assegnato il Premio spiega anche che “il riconoscimento deve essere visto come un omaggio al popolo colombiano che, nonostante grandi difficoltà e abusi, non ha mai perso la speranza di una pace giusta, e a tutte le parti che hanno contribuito al processo di pace”. Un processo suggellato dal recente accordo di pace, siglato il 26 settembre a Cartagena, dal governo colombiano e dalle Farc. Un’intesa storica che, tuttavia, è stata bocciata dal 50,2 per cento degli elettori che hanno partecipato al referendum dello scorso 2 ottobre. Ma “il fatto che la maggioranza abbia votato no al referendum - si legge nella motivazione del Premio - non significa che il processo di pace sia morto: il referendum - si sottolinea - non ha bocciato il desiderio di pace, ma uno specifico accordo”.

Sul significato di questo Premio, Amedeo Lomonaco ha intervistato lo storico Gianni La Bella, docente di Storia Contemporanea all'Università di Modena e Reggio Emilia, che per conto della Comunità di Sant’Egidio, ha seguito il processo di pace tra governo colombiano e Farc: 

– E’ un Premio che conferma uno sforzo intrapreso da un uomo politico che, con coraggio, ha cercato la soluzione di un problema che ha devastato la vita del suo Paese. Ed incoraggia soprattutto lo sforzo verso una pace che tutti consideravano irraggiungibile e impossibile.

– Un incoraggiamento a non demordere e a continuare proprio nel solco dei negoziati con le Farc, anche se il referendum popolare dello scorso 2 ottobre ha bocciato l’accordo di pace tra governo e Farc. Non è stato, però, bocciato il processo di pace…

– Io credo che neanche l’accordo in quanto tale sia stato bocciato: sono stati respinti alcuni aspetti di quell’accordo. Il presidente Santos, dopo l’esito del referendum, ha detto nella sua prima dichiarazione: “Io voglio continuare tutto il resto della mia presidenza a dedicarlo alla pace”. Convinto che questo sia, in un certo senso, l’obiettivo prioritario del suo mandato presidenziale. Non bisogna scoraggiarsi. Bisogna tornare al tavolo del negoziato. Tutti i colombiani devono cercare insieme la soluzione ad un conflitto che non può che essere quella del negoziato, del dialogo, dell’incontro. “Alle armi non si torna!”: lo hanno detto anche le Farc con grande chiarezza. Nessuno vuole la guerra e tutti i colombiani – anche quelli che hanno votato “no” – hanno comunque votato a favore della pace.

– Nella motivazione, il Comitato che ha assegnato il Premio ricorda il popolo colombiano, ma anche tutte le parti che hanno contribuito al processo di pace. Non sono indicate esplicitamente, ma il riferimento è anche alle Farc…

– Io credo che questo Premio, in un certo senso, anche se non nominate ufficialmente, comprenda anche loro: in fondo le stesse Farc hanno accettato di rinunciare alla logica delle armi, alla logica dello scontro e di sedersi al tavolo del negoziato. E soprattutto oggi, nonostante che il referendum abbia messo un pochino in crisi questo accordo, hanno con grande chiarezza fatto una scelta di rifiuto della guerra e di rifiuto del conflitto. Quindi è un Premio che deve anche considerare una parte di questo Paese che sono loro. 

Fonte: Radio Vaticana

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Continua ad aumentare il fenomeno della tratta di esseri umani in Vietnam, i gruppi di difesa sostengono che le vittime si lasciano anche coinvolgere dai social media. Tra il 2011 e il 2014 i casi sono cresciuti dell’11,6% rispetto ai precedenti quattro anni. I dati sono emersi nel corso di una conferenza contro la tratta tenuta ad Hanoi, a luglio, dal Ministero della Pubblica Sicurezza. Secondo le ong le cifre sarebbero più alte, soprattutto perché i trafficanti approfittano del crescente utilizzo dei social tra i giovani vietnamiti. Il Sudest asiatico è tra le regioni peggiori al mondo per il traffico di esseri umani, vede coinvolti un terzo di tutte le donne e bambini vittime di tratta in tutto il mondo. Alcune delle vittime di tratta in Vietnam sono donne vendute per i matrimoni al confine con la Cina, dove ci sono significativamente più uomini che donne. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, il Governo ha istituito e celebrato la prima Giornata Nazionale contro la Tratta di esseri umani. Il Vietnam ha inoltre annunciato una strategia per affrontare il fenomeno dal 2016 al 2020. Tra il 2011 e il 2014, le autorità governative hanno indagato su più di 2.200 casi di tratta, hanno arrestato 3.300 delinquenti, e salvato circa 5.500 vittime.

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Una "guerra dell’informazione” fatta di bugie, proclami, presunte rivelazioni e che scorre parallela ai “combattimenti con le armi” per distrarre e pilotare l’opinione pubblica internazionale e la popolazione locale. È quanto afferma ad AsiaNews il Patriarca melchita Gregorio III Laham, commentando la notizia secondo cui almeno 18mila persone sarebbero morte per torture e privazioni nelle carceri del governo siriano dall’inizio del conflitto nel marzo 2011. “Come si può credere a questa cifra, alla correttezza dei dati - si chiede il prelato - se non vi è accesso alle carceri e ci si basa solo su alcune testimonianze parziali”. 

In queste ore Amnesty International ha diffuso un rapporto in base al quale emerge che fra il 2011 e il dicembre 2015 si sono registrate “almeno 18mila” vittime nelle prigioni siriane. La denuncia è frutto dei racconti di 65 “sopravvissuti alle torture”, secondo cui vi sarebbe “un uso sistematico” della tortura, dello stupro e di maltrattamenti da parte delle guardie carcerarie. 

Il governo siriano ha già respinto con forza il rapporto, negando le accuse di torture e la stima dei morti in cella, pari a 300 vittime al mese. 

Il documento di AI parla inoltre di abusi sessuali durante le operazioni di controllo, perpetrati il più delle volte da secondini maschi ai danni di detenute femmine. Inoltre, ai detenuti sono negate cure mediche e non possono lavarsi in modo adeguato per prevenire la diffusione di malattie. 

Per il capo della Chiesa greco-melchita “non è possibile provare” queste cifre e verificare la “veridicità” di queste informazioni. Inoltre la fonte Amnesty International “non è così indipendente” e nel contesto del conflitto siriano “si sono spesso verificate manipolazioni di notizie”. “Dietro queste [presunte] rivelazioni - aggiunge il patriarca - vi è un colore politico, nel contesto di una guerra di informazione, come è avvenuto in passato per la vicenda delle armi chimiche”. 

Gregorio III parla di una “manovra” in atto per screditare “il governo siriano e la Russia” nel momento in cui sta nascendo un nuovo asse - Mosca, Teheran, Pechino - in grado di contrastare le ambizioni statunitensi nell’area. “Questa è un’altra partita - riferisce - nel contesto della ‘guerra’ fra Stati Uniti e Russia”. 

Una valutazione, racconta il prelato, che è condivisa da gran parte della popolazione siriana che si sente vittima “di una guerra sporca” che, in cinque anni, ha causato 250mila morti e 11 milioni di sfollati. “Noi patriarchi - afferma Gregorio III - da tempo diciamo che una vera alleanza internazionale può vincere il terrorismo, ma vi sono interessi contrapposti”. L’unica “voce di verità” è quella di papa Francesco che non si stanca “di lanciareappelli per l’amata Siria”, che denuncia l’ipocrisia di una comunità internazionale “che parla di pace e poi vende armi” alle parti in lotta. 

“In realtà - prosegue il patriarca - la situazione in alcune aree della Siria sotto il controllo governativo, come Damasco e Homs, è di relativa calma e dal mese di febbraio non si registrano gravi episodi di violenza. I problemi maggiori sono al confine con la Turchia e ad Aleppo, metropoli vittima di distruzioni, bombe, devastazioni. Il 50% della popolazione è fuggito e la città di prepara a vivere la madre di tutte le battaglie”. Criticità, aggiunge, si registrano anche a Madaya, dove vi sarebbero almeno 40mila abitanti bisognosi di cure mediche. “L’area è sotto l’assedio di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico] e dei governativi - spiega - e gli aiuti non arrivano anche perché i terroristi si mescolano fra la cittadinanza e usano i civili come scudi umani come successo a Palmira e Homs in passato”. 

Intanto, approfittando di un miglioramento nella situazione la Chiesa a Damasco ha organizzato campi scout, momenti di incontro e di svago per i giovani. “Il patriarcato greco-melchita in collaborazione con l’Unicef - prosegue Gregorio III - ha lanciato un programma scolastico per i bambini. Si tratta di 45 centri sparsi sul territorio, in grado di accogliere fino a 13mila bambini garantendo loro il diritto allo studio”. Infine, il patriarcato ha organizzato anche giornate di preghiera e di ritiro spirituale, perché “anche l’anima possa trovare conforto contro i traumi della guerra”. 
 

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Rimane alta la tensione in Sud Sudan, dove secondo le Nazioni Unite durante gli scontri del mese scorso a Juba le forze governative hanno ucciso e violentato dei civili. Il presidente Salva Kiir ha destituito cinque ministri vicini all’oppositore Riek Machar, mentre continua l’emergenza umanitaria. In 60 mila sono fuggiti dal Paese, per una guerra che rischia di accentuare la compente etinica. Per un punto sulla situazione Michele Raviart ha raggiunto a Juba padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei comboniani in Sud Sudan: 

– Negli scontri che ci sono stati sicuramente un migliaio di persone sono morte, anche se il governo tende a parlare sempre di 300 morti. Dopo questo, logicamente con la fuga dell’opposizione e quindi di Riek Machar, c’è stato un cessate-il-fuoco, che ancora c’è a Juba. Però gli scontri continuano fuori da Juba, ad un centinaio di chilometri da qui… E’ difficile capire veramente fino in fondo quale sia la verità di questi due gruppi in questo momento.

– Per il Sud Sudan si chiede un impegno maggiore da parte della Comunità internazionale. Quali sono i rapporti con il governo?

– C’è una tensione del governo nei confronti della Comunità internazionale in genere, che sta cercando di dialogare con il governo e che cerca di riportare al tavolo delle trattative anche Riek Machar. Anche se il governo ha nominato un altro vice presidente, Taban Deng, dicendo che era temporaneo fino a quanto sarebbe tornato Riek Machar: invece il presidente ha annunciato che il nuovo vice presidente era Taban Deng. E questo ha complicato ancora di più la situazione, perché questo vuol dire che c’è una grande divisione anche nell’opposizione. E’ chiaro che si sta cercando di non accettare più quello che era l’accordo che era stato firmato da Riek Machar e Salva Kiir per il governo. Loro non hanno mai accettato fino in fondo questo accordo del 2015.

– A livello umanitario l’Onu ha lanciato vari allarmi in questi giorni: da un lato si parla di 5 milioni di persone che rischiano di morire, dall’altro di 11 mila persone che non riescono ad avere gli aiuti dell’Onu, perché non riescono a registrarsi ai campi. Qual è la situazione?

– Sono ormai due anni che siamo sempre in questa situazione di emergenza massima: tra i 3 e 5 milioni sono ancora oggi a rischio fame per la guerra, quella precedente e oggi ancora di più, perché le risorse diventano sempre di meno. Le Ong sono sparite quasi tutte da qui, sono rimaste pochissime. Poi c’è una situazione assurda dell’economia e delle finanze, che è saltata tutta: qui si cambia un dollaro a 60 pound e, se facciamo riferimento a 6-7 mesi fa, si cambiava un dollaro per 3. L’inflazione, in questo momento, è la più alta al mondo: più del 300 per cento di inflazione.

– Quali sono i rischi di escalation per questa guerra, in cui è componente anche una profonda divisione etnica?

– Se il Sud Sudan ritorna ad essere ancora una polveriera, come lo è già, ma diventa sempre più etnica e non soltanto fra due tribù ma anche con altre, è quasi genocidio, come è stato il Rwanda. Se in Rwanda c'erano due etnie e basta, qui ce ne sono 64 di etnie, ma le più importanti sono esattamente Nuer e Dinka, che sono grandi come numeri. E’ difficile il dialogo con questi leader, perché questi non sono leader politici, questi sono dei militari.

– Qual è il ruolo della Chiesa locale in Sud Sudan, che – ricordiamo – proprio in questi giorni ha fatto un appello a non dimenticare il Paese?

– La Chiesa sta cercando di dare soprattutto messaggi di speranza alla gente, ma cerca anche di dare protezione, perché in questo momento le uniche speranze per la gente sono rappresentante dalla chiese: la gente scappa nei cortili delle chiese e sono migliaia e migliaia… E questo vuol dire protezione, ma vuol dire anche assistenza, vuol dire anche cibo, cercando di aiutare al massimo che si può.

 

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