Mercoledì 8 marzo un incendio di origine dolosa ha danneggiato la Cappella dell'Ascensione, in cima al Monte degli Ulivi. Secondo quanto riferito dai media della Custodia di Terrasanta, uno pneumatico è stato dato alle fiamme presso la roccia – custodita all'interno della cappella – da dove, secondo una tradizione risalente ai primi secoli cristiani, Gesù è asceso al cielo. E' stato danneggiato dal fuoco anche un armadio contenente cartoline e oggetti religiosi messi in vendita da una famiglia musulmana che custodisce il luogo sacro. Secondo la polizia, proprio una disputa tra due famiglie coinvolte nella custodia del luogo sacro. Una persona è stata arrestata per essere interrogata.
La cappella dell'Ascensione è uno dei quattro Luoghi Santi condivisi, gestiti secondo le regole dello Status Quo, l'insieme di disposizioni di origine ottomana che ne regolano i diritti di proprietà e di accesso. Dei quattro Luoghi Santi condivisi (gli altri tre sono la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, quella della Natività a Betlemme e la Tomba della Vergine, nella valle del Cedron) la cappella dell'Ascensione è l'unica sotto la giurisdizione della Waqf, l'autorità musulmana dei luoghi santi.
La cappella attuale risale al periodo crociato ed è stata costruita al posto di un precedente distrutta nel 614 dai Persiani. Il luogo sacro è frequentato anche dai musulmani (che ammettono l'Ascensione al cielo di Gesù, pur negando la sua morte in croce e la sua resurrezione).
◊ radiovaticana
Un nuovo gesto vandalico in Terra Santa, dove è stata forzata e bruciata nella notte tra martedì e mercoledi la porta d’ingresso della Chiesa dell’Ascensione, sul Monte degli Ulivi. Ma quali sono le ipotesi investigative sulla natura di questo deprecabile atto? Roberta Gisotti lo ha chiesto a mons. Piebattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme:
R. - Chi è stato lo sappiamo. Si tratta di una lite fra due famiglie che probabilmente devono gestire gli ingressi al sito, che durante l’anno è a pagamento e dentro questa lite qualcuno ha appiccato il fuoco. Queste sono le informazioni che abbiamo ma sono ancora parziali e attendiamo che la polizia ci faccia avere notizie più precise al riguardo.
D. – Quindi non sarebbe un atto di tipo religioso?
R. – Indirettamente lo è, ma l’intenzione non era tanto anticristiana quanto sul controllo di quella zona. Siamo più forse nell’ambito del racket… Poi tutto si mischia.
D. - Lei ha inviato di recente una lettera alla sua comunità ecclesiale per l’inizio della Quaresima dove fa un primo bilancio della sua attività nel Patriarcato a circa 6 mesi dal suo arrivo a sanare una situazione delicata. Quali problemi ha incontrato?
R. – Ci sono problemi di carattere amministrativo e finanziario. Devo dire che entrando dentro ho visto con maggiore lucidità e chiarezza l’entità di questi problemi, che non sono piccoli. Allo stesso tempo però devo anche dire che ho incontrato ormai tutti i preti della diocesi uno per uno a casa loro, nelle parrocchie, nelle diverse realtà, e ho visto insieme ai problemi finanziari anche la determinazione da parte di tutti ad affrontare questa situazione e un’assunzione di responsabilità che credo sia importante. Questo fa ben sperare che poco alla volta… naturalmente ci vorranno anni per uscirne…si parla di debiti, tanto per essere chiari. Però spero che, una volta ci sia un intento comune e si dovrà stabilire una strategia, se ne possa uscire nel giro di qualche anno.
D. – Lei nella lettera scrive: abbiamo molto da fare, è il momento di iniziare il lavoro di riforma, ricostruzione e rinnovamento in vari settori non solo quello dell’amministrazione…
R. – Certo, quando si tocca l’amministrazione si tocca un po’ un aspetto centrale della vita perché nell’amministrazione c’è anche il nostro senso di trasparenza, c’è un modo di intendere le attività pastorali. Tutto questo funzionerà se ci sarà una comunione di intenti all’interno di tutta la diocesi.
D. – Questi problemi che si sono creati hanno causato sfiducia da parte dei fedeli rispetto a chi doveva amministrare bene?
R. - Questo è difficile da dire, soprattutto in queste realtà, specie poi quando si parla di soldi ci sono tante voci, tante opinioni. La lettera serviva anche per chiudere il periodo di gossip, le mormorazioni, il chiacchiericcio, per fare un po’ di chiarezza e cominciare a parlarne. Credo che la lettera sia stata apprezzata dalla gente perché almeno hanno avuto una parola chiara. Credo di avere percepito un clima di fiducia, di solidarietà.
D. – Quindi ha trovato verso la sua persona un clima positivo su cui rilanciare le attività pastorali…
R. – Certo. Poi l’unanimità non ci sarà mai, ma i problemi sono chiari, sono seri, quindi ci vorrà molto impegno. Però non sono da solo, c’è gran parte della diocesi che si metterà di buona lena ad affrontare questa situazione.
“La Santa Sede e la lotta contro il traffico di esseri umani”. E’ stato questo il tema sviluppato da mons. Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, in occasione della conferenza inaugurale a New York, nei giorni scorsi, della nuova cattedra della Cassamarca Foundation su globalizzazione e migrazione presso la Fordham University.
Il fenomeno del traffico di esseri umani è impressionante. Le vittime della tratta - ha detto il presule ricordando alcune recenti stime - sono circa 40 milioni. E a questo popolo di persone ridotte in schiavitù - ha affermato mons. Auza - si aggiungono ogni anno più di tre milioni di persone. Quasi l’80 per cento delle vittime sono donne e bambini. La tratta - ha precisato - è un’industria che genera ogni anno profitti per oltre 32 miliardi di dollari all’anno.
Gli enormi progressi scientifici possono far pensare che la schiavitù sia una pagina del passato. Ma quando esaminiamo la realtà – ha affermato il presule – restiamo scioccati di come questa piaga - declinata in tutte le sue moderne forme - sia ancora presente, anche se con modalità più sommerse rispetto al passato. Si tratta in realtà di un fenomeno in crescita ed alimentato da conflitti e da povertà estrema. Ed è un flagello che non conosce confini. Nessun Paese – ha osservato il presule – è immune.
La tratta è legata anche alle conseguenze negative della globalizzazione e ai flussi di migranti e di rifugiati. Soffermandosi in particolare su questo fenomeno, mons. Auza ha ricordato che, secondo stime riferite al 2015 delle Nazioni Unite, i migranti internazionali nel mondo sono oltre 250 milioni. Rispetto al 2000 – ha fatto notare il nunzio - si è registrato un incremento del 40%. Sempre nel 2015, più di 65 milioni di persone sono state sfollate a causa persecuzioni, conflitti e violenze. In questi dati si riflettono, spesso, le moderne forme di schiavitù e le sofferenze di milioni di persone indifese e vulnerabili.
Mons. Auza, ricordando che tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030 c’è anche quello di adottare misure efficaci per sradicare il lavoro forzato, porre fine alla schiavitù moderna e alla tratta degli esseri umani. La comunità internazionale - ha aggiunto - deve assicurare il proprio impegno per eliminare questa “ignominia”.
La Chiesa cattolica – ha ricordato inoltre mons. Auza - è fortemente impegnata per eliminare la piaga della tratta e, attraverso le proprie strutture, offre un prezioso contributo. I Pontefici hanno ripetutamente denunciato e condannato questo turpe traffico. Con le sue parole e azioni – ha detto il presule – Papa Francesco ha messo in chiaro che questa è una delle priorità del suo Pontificato. L’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu ha ricordato infine il discorso del Papa, il 25 settembre del 2015, rivolto ai membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. “Si deve aver cura – affermava il Santo Padre in quella occasione - che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli”. “Si devono prendere – aggiungeva – misure concrete e immediate”. (A cura di Amedeo Lomonaco)
“La Chiesa del Laos è una Chiesa povera. Papa Francesco ci vuole bene. E ci ha detto: Anch’io sono un vescovo povero e vado dove ci sono i poveri. Questo ci ha confortato”. È commosso ed entusiasta mons. John Kamse Vithavong, vicario apostolico di Vientiane, qualche giorno dopo la visita ad limina dei vescovi del Laos e l’incontro con papa Francesco.
“L’incontro con il papa – racconta - è avvenuto lo scorso 26 gennaio ed è stato molto semplice. Non ci ha fatto un discorso, ma si è interessato a noi e ci ha chiesto come stavamo vivendo la nostra situazione. Abbiamo ascoltato molto”
“Con noi c’erano anche i vescovi della Cambogia: un francese, uno spagnolo, un indiano. Loro hanno una Chiesa piuttosto stabile. Con tutto quello che hanno vissuto sotto i Khmer Rossi, ora riescono ad avere comunità molto attive e intraprendenti. I cambogiani, molto provati in passato, oggi vivono una situazione abbastanza tranquilla e hanno molti missionari stranieri che vi lavorano e possono fare molto. Noi invece abbiamo una Chiesa che è agli inizi, molto povera e senza personale straniero”.
Mons. Kamse, 74 anni, ricorda gli ultimi mesi del 1975, quella che viene chiamata “la liberazione”, in cui i gruppi comunisti del Pathet Lao hanno preso il potere nel Paese. Egli era divenuto sacerdote da pochi mesi, dopo aver passato sette anni in Francia e quattro nelle Filippine.
“Noi stessi abbiamo chiesto ai sacerdoti stranieri di lasciare il Paese. Anzitutto perché in ogni caso i nuovi governanti lo avrebbero ordinato. E poi perché in questo modo si evitava una escalation della tensione e possibili scontri e violenze. Tutti i sacerdoti stranieri hanno lasciato il Paese, con molte lacrime, ma anche con molta saggezza. Vi erano italiani, francesi, canadesi, americani”.
Da allora, la carenza di preti e di personale specializzato è divenuta una caratteristica costante della piccola Chiesa del Laos. “La nostra – continua mons. Kamse - è una Chiesa giovane: avrà 150 anni di vita. Facendo gli ottimisti, in tutti e quattro i vicariati apostolici (Luang Prabang, Vientiane, Savannaketh, Pakhsé) ci sono circa 50mila cattolici dispersi in un grande territorio e con diversi gruppi etnici, con lingue e culture differenti. Noi stessi siamo poco capaci di amministrare e di aiutarli: non abbiamo abbastanza preti e catechisti. I nostri cattolici, soprattutto i più giovani, sono stati battezzati da piccoli, e non hanno potuto ricevere una formazione completa, corretta e forte”.
Per incontrare i fedeli c’è bisogno di un permesso da parte del governo e questo rallenta l’impegno missionario. Mons. Kamse parla di mons. Tito Banchong Thopanhong, il vescovo di Luang Prabang, che ha dovuto aspettare alcuni anni prima di potere trasferirsi nel suo vicariato.
Mons. Tito ha passato anche diversi anni in prigione, dove ha perso un occhio.
“Ha sofferto tantissimo” commenta mons. Kamse. “Io stesso non posso viaggiare per molto tempo. Allora in una giornata andiamo magari a trovare i nostri cattolici dispersi nella regione. Li vediamo per alcune ore, ci scambiamo notizie, poi preghiamo e celebriamo l’eucaristia, preceduta dalle confessioni. E anch’io faccio queste visite pastorali: è un modo di servire le nostre comunità”.
“La nostra povertà – aggiunge - è anche economica, dovuta alla mancanza di strutture e alla mancanza di fondi per costruirne di nuove. Nel 1975 le nostre chiese sono state prese dal governo, compresa la cattedrale di Vientiane. È la più grande delle chiese del Paese ed è dedicata al Sacro Cuore. Grazie a Dio, dal 1979 il governo ce l’ha lasciata a disposizione e possiamo almeno utilizzarla”.
“Per formare catechisti o diaconi permanenti occorre molto tempo per organizzare corsi, residenze, ecc… e non è facile data la nostra povertà di personale e di mezzi. Nella nostra povertà, abbiamo costruito già tre edifici che usiamo come chiese. Ci occorre costruirne ancora due.
Costruire delle cappelle, dei luoghi di incontro, è una necessità forte. Non abbiamo bisogno di cose molto grandi, vistose, imponenti… Anche il Signore è nato in una stalla. E noi ci accontentiamo di locali senza molte pretese. Pregate per noi perché il Signore attende di essere amato in Laos. Ci sono sempre persone che ci aiutano. Con il poco che ci donano, possiamo organizzare dei corsi, comprare dei quaderni per prendere appunti …”.
Attraversata da così tanti limiti, la Chiesa laotiana sembra andare molto piano, anzi pare quasi ferma. “In realtà – dice mons. Kamse – la Chiesa cammina. E anche l’evangelizzazione cammina. Le do un esempio. Io sono stato fatto vescovo di Vientiane nel 1983. Nello stesso anno, un gruppo etnico, i Khmu, ha chiesto di poter diventare cristiano. Sono andato a trovarli, ho promesso loro di aiutarli, e abbiamo cercato di organizzare lezioni di catechismo con la gente che riuscivo a trovare. Almeno 1000 persone si sono fatte battezzare. Ancora adesso vi sono un gran numero di loro che desidera diventare cristiano: saranno almeno qualche centinaio e sono molto coraggiosi. Si tratta di un gruppo animista, non buddista. Il governo da parte sua chiude un occhio perché vede che non siamo un pericolo”.
La visita ad limina, appena conclusa “è stata magnifica, grazie a questo papa. Si vede che lui è attento ai poveri, a noi poveri. E ci ha detto: Anch’io sono un vescovo povero e vado dove ci sono i poveri. Questo ci ha confortato. Per noi venire qui è un’occasione di respirare l’aria universale della Chiesa, di visitare tutti i dicasteri vaticani, ma è stato fondamentale incontrare questo papa. Possiamo dire che la Chiesa con papa Francesco ha un grande leader, così vicino alla nostra povertà. Io ho avuto visite ad limina con Giovanni Paolo II, con Benedetto XVI e ora con questo papa. Quello che Francesco ha detto sulla Chiesa dei poveri è tagliato con precisione su quanto succede in Laos, dove chi si converte sono fra i più poveri della società”.
Chiedo a mons. Kamse quale è stata la cosa più bella dell’anno passato e quale la cosa più triste.
“La cosa più bella nel 2016 – risponde - è stata la beatificazione dei martiri laotiani, lo scorso 11 dicembre. Questi martiri erano francesi, italiani, ma anche laotiani. È stata una cerimonia molto semplice, alla presenza di un cardinale delle Filippine, il card. Orlando Quevedo, uno dei Vietnam, e poi diversi sacerdoti e vescovi da Vietnam, Thailandia, ecc..
L’altra cosa bella è l’evangelizzazione dei Khmu, che continua. Ma a breve occorrerà aprire un altro campo, fra i Hmong, un altro gruppo etnico. La cosa la più triste? Beh, a causa delle nostre difficoltà c’è una tristezza un po’ diffusa. Ma rimaniamo pieni di gioia. Pregate per noi, per questi impegni”.
In Eritrea quasi due milioni di persone vivono nell’insicurezza alimentare: oltre la metà sono bambini. L’allarme è lanciato dall’Unicef che riferisce di scarsi raccolti e avverse condizioni meteo dovute al El Nino. Una crisi umanitaria e sociale acuita dalla chiusura del regime eritreo e dalla fuga di migliaia di giovani che cercano di raggiungere l’Europa. Il servizio di Marco Guerra:
La siccità e i conseguenti scarsi raccolti hanno portato due milioni di eritrei all’insicurezza alimentare. Di questi, il 60% sono minori. In pratica, nel Paese del Corno d’Africa su una popolazione di sei milioni e mezzo di persone quasi un cittadino su tre ha difficolta di accesso a una nutrizione adeguata. Non è facile tuttavia avere contezza di questo dramma poiché Asmara nega qualsiasi problema, limitando il movimento delle associazioni umanitarie. Sentiamo Franca Travaglino, fondatrice della Ong ‘HEWO’ (Hansenians’ Ethiopian Welfare Organization), che riferisce di un rapporto inviato dai collaboratori in Eritrea:
R - Abbiamo dei riscontri che ci presentano veramente una situazione disastrosa! Una nostra collaboratrice sul posto ci dice: “Qui manca tutto! C’è fame, c’è miseria, c’è mancanza degli alimenti necessari. Mancano la luce, il petrolio, il carbone. Il costo della vita galoppa in modo impressionante ed inaccettabile! Quello che trovi, è a un prezzo molto alto e molte persone non hanno la possibilità di comprarlo”.
D – Quali sono i problemi che si riscontrano ogni giorno?
R – Sono soprattutto di carattere alimentare e sono proprio quotidiani. Faccio qualche esempio: un tempo i pomodori costavano 10-15 nacfa (la moneta locale), invece ora costano 80 nacfa al kg; e così anche le patate… Per lunghi periodi manca del tutto l’energia elettrica. La situazione economica e sociale è molto critica. E' indescrivibile.
La situazione è aggravata da una crisi migratoria senza precedenti che solo negli ultimi due anni ha visto 60 mila giovani lasciare il Paese alla volta dell’Europa. Uno dei più ingenti gruppi di profughi dopo i siriani. Una fuga da fame e miseria ma anche dal regime di Isaias Afewerki. Ascoltiamo ancora il commento della Travaglino:
"E’ da tenere presente che ci sono delle carestie climatiche cicliche. E poi al momento l’Eritrea è purtroppo una nazione chiusa: non ha rapporti con le altre nazioni. Come si può pensare ad uno sviluppo economico in un Paese dove scappano i giovani, dove le forze lavoro non ci sono più? Non c’è possibilità di sviluppo. Non possono parlare, non possono studiare liberalmente. E’ una prigione a cielo aperto"!
E in Eritrea preoccupa anche la recrudescenza della persecuzione anti-cristiana. Secondo il Rapporto 2017 dell'organizzazione internazionale "Porte Aperte", fondata nel 1955 dal missionario olandese "fratello Andrea", l’Eritrea è tra i 10 Paesi dove i cristiani sono maggiormente oppressi:
"Fino agli anni Settanta-Ottanta non c’era differenza tra cristiani e islamici: era un Paese veramente libero dal punto di vista religioso. Ora, invece, il regime eritreo è sostenuto dagli arabi. Dopo l’indipendenza, l’Eritrea si è trovata per forza a fare una scelta, perché è stata abbandonata. E quelli che l'hanno maggiormente sostenuta e la sostengono sono i Paesi arabi. Questo pericolo di una arabizzazione dell’Eritrea è anche un tentativo da parte degli islamici di penetrare in Etiopia, che rimane ancora spiritualmente cristiana".
A Damasco sembra di essere tornati “all’età della pietra”, manca l'acqua in una città in cui per molte ore è interrotta la fornitura di energia elettrica e scarseggiano gas e carburante per il riscaldamento. È quanto racconta in un lungo rapporto, inviato per conoscenza ad AsiaNews, Sandra Awad, responsabile della Comunicazione di Caritas Siria, 38 anni sposata e madre di due figli, che vive da anni sulla propria pelle ogni giorno il dramma della guerra.
Negli ultimi giorni, secondo quanto riferisce la responsabile dell’ente cattolico, il problema maggiore è costituito dalla mancanza di acqua potabile, una vera e propria “emergenza idrica” che coinvolge milioni di persone.Oltre cinque milioni di persone a Damasco hanno trascorso il Capodanno senza acqua. Il 22 dicembre scorso si sono interrotte le forniture dalla centrale di Ain al- Fija, il centro di distribuzione più importante della regione. Esso fornisce “il 70% dell’acqua” a Damasco e nelle aree circostanti ed è situato circa 20 km a nord-ovest della capitale, nella valle del fiume Barada.
Gli abitanti della capitale, aggiunge l’attivista Caritas, “sono preoccupati” e accumulare scorte di acqua è diventata una delle priorità di quest’ultimo periodo. Una emergenza, peraltro, confermata di recente in un’intervista ad AsiaNews dal card Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria.
I governativi accusano i ribelli, che occupano Wadi Barada dal 2012, di aver avvelenato le riserve di acqua versando litri di carburante diesel all’interno dei pozzi. In passato i combattenti hanno a più riprese tagliato le forniture della capitale, come arma di ricatto nei confronti dell’esercito governativo che voleva riconquistare l’area.
Ancora oggi, a dispetto della “fragile” tregua nazionale in Siria, sottoscritta dal governo siriano e milizie ribelli in vigore dalla mezzanotte del 30 dicembre grazie alla mediazione di Russia e Turchia, nella zona sono in atto degli scontri fra i due fronti. Una preoccupazione in più per milioni di abitanti di Damasco, che più della durata del conflitto oggi guardano al bisogno immediato di acqua per bere, lavare i piatti o i vestiti, curare l’igiene personale. Mostapha, 55enne padre di quattro figli, racconta di aver atteso “in fila per tre ore” per un po’ di acqua potabile raccolta in un parco pubblico poco lontano da casa. “Quando ho raggiunto il rubinetto - aggiunge - l’acqua è stata tagliata. Ora uso i voucher per acquistare qualche bottiglia di acqua potabile, se al negozio ne sono rimaste ancora. La maggior parte sta finendo le scorte”.
Il governo siriano, spiega la responsabile Caritas, cerca di sopperire alla carenza raccogliendo acqua da alcuni pozzi e riserve sparsi attorno alla capitale, ma sono in molti a restare senza nemmeno una piccola scorta. I privati vendono al triplo del prezzo e si assiste a un progressivo aumento del mercato nero.
Sarah, madre di due figli, racconta di aver acquistato un po’ di acqua “da una persona di passaggio” a un prezzo altissimo e senza conoscerne la provenienza. “Ma - aggiunge - non avevo altra scelta. Da cinque giorni il mio pozzo è prosciugato e dovevo dar da bere ai miei figli”. Da qui il rischio, crescente secondo gli esperti, di malattie legate al consumo di acqua contaminata o non potabile. “Mio figlio - racconta Roula, 39enne madre di tre bambini - ha avuto una reazione cutanea fortissima dopo che gli ho fatto la doccia con acqua comprata da un trafficante. Non ha potuto dormire per tutta la notte. L’ho portato dal dottore, il quale mi ha confermato che si sono presentati molti casi analoghi nell’ultima settimana”.
L’inizio del 2017, afferma Sandra Awad, è stato contraddistinto da “difficoltà e stanchezza” per molti abitanti di Damasco. Si può sopperire alla mancanza di elettricità e carburante, ma non a quella di acqua. “Speriamo - conclude l’attivista Caritas - che questo incubo possa finire presto”.