Letture:
Gn. 15,1-6.21,1-3;
Sal. 104;
Eb. 11,8.11-12.17-19;
Lc. 2,22-40; “ Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace”.
Ingresso:
I pastori si avviarono in fretta
e trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino deposto nella mangiatoia.
1. La Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II (La Chiesa nel mondo contemporaneo) afferma ripetutamente che la famiglia è un’istituzione basata sulla natura umana. Infatti nei dieci Comandamenti di Dio ne abbiamo tre che parlano della famiglia: 4° Onora il padre e la madre; 6° non commettere atti impuri – non commettere adulterio; 9° non desiderare la donna d’altri.
Dobbiamo convincerci anche noi bravi cattolici, contro la propaganda televisiva e dei mass media, che la famiglia è voluta da Dio ed è indispensabile alla natura umana. Gli ultimi tre Papi: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, lo hanno ribadito e lo ribadiscono con forza.
2. Supporti della famiglia sono la scuola e la Chiesa; però la prima educazione umana e religiosa comincia in famiglia, dai genitori. Se manca questa base, la scuola rischia di costruire senza fondamenta e la Chiesa viene ignorata presto.
Paolo VI nel suo discorso a Nazaret definisce la famiglia “Chiesa domestica”. Quindi in famiglia si fa ciò che avviene in Chiesa: i Sacramenti e la preghiera (Quanto è rassicurante il Sacramento degli infermi amministrato in famiglia!) La preghiera nasce e si sviluppa in Famiglia: La famiglia che prega unita è sempre unita anche nelle difficoltà e incomprensioni.
3. La famiglia buona dovrà incontrare delle difficoltà: Dio vuole così per la nostra crescita spirituale, che deve essere una conquista, faticosa, continua. Il Vangelo di oggi presenta la seria difficoltà della Santa Famiglia nella fuga in Egitto: difficoltà esterna, causata da Erode, ma quanto mai seria e difficile per Giuseppe e Maria.
S. Luca narra l’episodio di Gesù dodicenne che rimane nel tempio di Gerusalemme all’insaputa dei genitori: difficoltà interna, causata dal Figlio, e molto dolorosa per i genitori. “Angosciati ti abbiamo cercato”.
Queste difficoltà sono per la crescita spirituale della famiglia: genitori e figli insieme.
Questo è il mistero della Santa Famiglia. Paolo VI nel suo discorso a Nazaret riesce a “contemplare” questo mistero in una luce tutta divina, che supera le nostre parole e la nostra immaginazione.
Contempliamo anche noi questa Santa Famiglia nel silenzio, nel raccoglimento e nella preghiera.
I jihadisti hanno infuriato nel Sinai per diversi anni. Ma gli attacchi sporadici sono scoppiati in una vera rivolta dopo che il generale al-Sissi ,con il golpe del luglio 2013, ha sostituito i gruppi dell'esercito vicini al presidente islamista Mohamed Morsi.
L'allora gruppo jihadista nel Sinai, Ansar Beit al-Maqdess, aveva iniziato un’azione di annunciando la sua fedeltà alla rete di Al-Qaeda. Dopo la proclamazione da parte di Isis, nel 2014 , di un "califfato" in Siria e in Iraq, Ansar Beit al-Maqdess ha poi promesso fedeltà a IS.
Non ci sono dati affidabili sul numero di combattenti che si sono uniti ai suoi ranghi. L'esercito egiziano afferma di averne uccisi centinaia.
A differenza della Siria e dell'Iraq, l'Isis non è stato in grado di conquistare centri urbani nel Sinai. Nel luglio 2015, i jihadisti avevano cercato di prendere la città di Sheikh Zouweid ma dovettero arrendersi, dopo che l'esercito schierò gli F-16.
Il gruppo lancia regolarmente attacchi contro le forze di sicurezza usando gli stessi metodi: bombe sul ciglio della strada, fuoco con cecchini e attacchi ai checkpoint. I suoi combattenti si nascondono nel deserto montuoso nel cuore del Sinai e godono di una certa libertà di movimento, tra i posti di sicurezza dell'esercito, lontano dalle autostrade. Le cellule addormentate effettuano anche attacchi nella capitale del Nord Sinai, Al-Arish e altrove in Egitto. Secondo le autorità, i jihadisti sono ben armati. Hanno missili anticarro, mitragliatrici e esplosivi di contrabbando dalla vicina Libia.
Negli ultimi anni, l'IS si è anche rivolto contro obiettivi civili, attaccando non solo cristiani e sufi ma anche residenti beduini del Sinai accusati di collaborare con l'esercito.
Ma l'entità dell'attacco di venerdì a un luogo di culto musulmano ha scioccato persino i sostenitori dell'IS che hanno affermato sui social media che i jihadisti non avrebbero potuto commetterlo.
Poche informazioni sono disponibili sui leader di gruppo e i servizi di sicurezza evitano di rivelare la loro identità se non per annunciare la loro morte.
La maggior parte dei leader e dei combattenti sono beduini ed egiziani. Diversi palestinesi nella Striscia di Gaza sono stati uccisi anche quando combattevano nelle file di Ansar Beit al-Maqdess, secondo il gruppo.
Nel 2016, l'esercito ha annunciato di aver ucciso il comandante del gruppo nel Sinai, Abu Douaa al-Ansari, in attacchi aerei. L'Isis ha poi confermato la sua morte, sostenendo di averlo sostituito con un altro comandante, Abu Hajar al-Hashemi.
Un jihadista catturato ha detto agli investigatori che l'identità del leader del gruppo nel Sinai era sconosciuta e che le istruzioni venivano trasmesse a lui attraverso un subordinato.
Sotto l'alto comandante, le responsabilità sono divise tra coloro che dirigono le sezioni di "sicurezza", "affari militari", fabbricazione di bombe e propaganda.
Quito (Ecuador) - La chiamata a dar vita ad una "Chiesa con un volto amazzonico" è una grande sfida che si apre dopo l'invito di Papa Francesco a "esplorare percorsi, espressioni e processi che aiutino a costruire e a strutturare un modello di Chiesa pienamente cattolica e pienamente amazzonica”: lo afferma Mauricio López, laico ignaziano, Segretario esecutivo della Red Eclesial Panamazónica (REPAM) e di Caritas Ecuador, in una intervista diffusa da “Iglesia viva”, giunta a Fides. Per la costruzione di questa Chiesa dal volto amazzonico, López ritiene necessario che “i membri della società amazzonica possano essere formati secondo la propria realtà, l'identità culturale, le loro pratiche…che possano inserire, ad esempio, all'interno delle liturgie segni coerenti e vicini alla loro realtà".
Il 15 ottobre, all’Angelus, Papa Francesco ha annunciato la convocazione di un’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione Panamazzonica, che avrà luogo a Roma nel mese di ottobre 2019, per “individuare nuove strade per l’evangelizzazione di quella porzione del Popolo di Dio, specialmente degli indigeni, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa della crisi della foresta Amazzonica, polmone di capitale importanza per il nostro pianeta”.
López ricorda che “già il Concilio Vaticano II ci ha chiesto di cercare i semi del Vangelo presenti in tutte queste culture precedenti all'arrivo del cristianesimo. Lì c'è il seme della Parola”. Per esempio nel Chiapas, in Messico, viene rispettato l’insieme degli usi e dei costumi della comunità, e i diaconi permanenti ricevono la formazione in coppia, l'uomo infatti riceve il ministero e la moglie accompagna l'esercizio del ministero del marito. E’ stata inoltre tradotta la Bibbia nella lingua tzeltal e tzotzil (vedi Fides 16/1/2015; 8/10/2015;14/10/2015), non in modo letterale, ma con gli adattamenti alla cultura locale, il testo è stato approvato e consegnato al Santo Padre.
Come ha evidenziato lo stesso Papa Francesco, l’Amazzonia ha una importanza capitale per l’intero pianeta, e López sottolinea che “uno ogni cinque bicchieri d'acqua bevuti da chiunque sul pianeta, si deve all'Amazzonia, il 20% dell'acqua non congelata destinata al consumo umano è prodotto in Amazzonia, il 25% dell'ossigeno viene prodotto in questo polmone verde, uno o due dei cinque respiri che facciamo lo dobbiamo all'Amazzonia”.
Le nostre decisioni sui consumi stanno producendo la devastazione delle foreste - prosegue -, si cancellano i territori ancestrali indigeni per il desiderio dell’estrazione mineraria, si impone la monocultura per soddisfare le esigenze del consumo mondiale. Se non modifichiamo il modello di sviluppo, l'Amazzonia finirà per diventare uno spazio semi-desertico e l'impatto sul pianeta sarà terribile.
“Rispondere a una crisi sociale e ambientale, la questione della cura del creato o dell'Amazzonia, o di qualsiasi spazio vitale, hanno a che fare con le generazioni future" ribadisce Mauricio Lopez, e indipendentemente dall'ideologia politica e dal credo religioso, ognuno ha la responsabilità delle generazioni successive. Infine il Segretario esecutivo della REPAM invita ad approfondire l'Enciclica “Laudato Si”, a cercare di influire sulle politiche pubbliche, a difendere e proteggere gli spazi naturali, le terre indigene e ad essere consapevoli che "ciò che non facciamo ora, avrà un impatto su coloro che vengono dopo di noi".
Ti ringrazio, Signore,
perché le nostre chiese
sono come grandi famiglie.
Fa' che il tuo spirito di riconciliazione,
Signore,
soffi su tutta la terra.
Fa' che i cristiani vivano il tuo amore.
Noi ti lodiamo, Signore,
con le cattedrali d'Europa,
con le offerte dell'America,
e coi nostri canti africani di lode.
Ti ringraziamo, Signore,
perché in tutto il mondo
abbiamo dei fratelli.
Sii con loro che costruiscono la pace.
(Preghiera dall'Africa occidentale)
Forte sei mio Dio
che scaldi col sole
la mia terra,
illumini coi lampi
il cielo grigio
e mi mandi il tuo sorriso
con la luce della luna
nella notte fredda.
Misericordioso sei mio Signore,
lo leggo nei brillanti occhi
che fanno breccia
nella pelle scura
dei miei fratelli neri
e quando vedo le stelle
apparire all'imbrunire.
Grande sei mio Dio
che fai rullare
i tamburi a festa
come rombi di tuono
nella tempesta.
Buono sei Padre mio
che riempi di latte
le noci di cocco,
di candida crema le banane,
di miele i datteri gialli
e fai nascere orchidee
colorate nel verde
della giungla.
Potente sei mio Signore
che alimenti con la pioggia
i fiumi e il mare
e bagni il mio corpo
bruciato dal sole.
Generoso sei mio Dio
che non mi hai
lasciato solo
e hai creato l'elefante,
il leone, la giraffa
e le piante dell'alloro,
mi hai dato come fedele
compagno il cammello
guida sicura
nel mare di sabbia
e grande nocchiero
in mezzo alla bufera,
rendendomi il viaggio
meno incerto.
Padre Buono
assistici nella carestia,
accompagnaci nel cammino
tra il deserto e i monti,
dacci il tuo sostegno
in questa vita grama.
Asciuga le lacrime
dei pargoletti neri
privi di vestiti
e senza scarpe ai piedi.
(Preghiera Africana
di Antonio Mastinu)
Baba yetu uliye (Padre Nostro)
mbinguni yetu, yetu (In cielo, nostro, nostro)
Amina! baba yetu, yetu, uliye (Amen! Padre Nostro)
Jina lako milele litukuzwe (Benedetto è il tuo nome, per sempre)
Utupe leo chakula chetu (Dacci oggi il pane)
Tunachohitaji (Di cui abbiamo bisogno)
Utusamehe makosa yetu, hey! (Perdona i nostri errori)
kama nasi tunavyowasamehe waliotukosea (Così come noi perdoniamo coloro che ci fanno soffrire)
Usitututie katika majaribu lakini (Non ci indurre in tentazione)
Utuokoe na yule milele na yule (Ma liberaci sempre dal male)
Ufalme wako ufike (Venga il tuo regno)
utakalo lifanyike duniani kama mbinguni (In terra come è nel cielo)
Suor Meena Barwa, insieme a altre tre suore e a 16 donne cattoliche sono andate ieri in una prigione del Madya Pradesh per legare un “rakhi” al polso di diversi carcerati, una cerimonia simbolica che fa diventare “fratello e sorella”. Suor Meena ha legato il rakhi a “dieci fratelli”.
Suor Meena è una sopravvissuta a violenze e stupro durante il pogrom anticristiano nel Kandhamal (Orissa) nel 2008. Il rito celebrato è quello del Raksha Bandhan (in hindi: “il legame della protezione”). Esso è legato alla omonima festa indù - che cade oggi - in cui si celebra il rapporto fra i fratelli e le sorelle. Durante la festa, le sorelle legano un rakhi (un “sacro laccio”) al polso del loro fratello. È divenuto comune anche celebrare ogni rapporto di amicizia fra uomo e donna, anche se i due non sono biologicamente legati.
Il gesto praticato ieri dalle suore e dai fedeli nella prigione è un modo per diffondere amicizia e dignità fra i detenuti.
Ad AsiaNews, suor Meena spiega: “Ero molto emozionata, e anche in pace. MI ha avvolto un senso di compassione verso queste persone. Essi sono esseri umani che hanno sbagliato e per questo sono incarcerati, ma anche loro hanno delle sorelle, anche loro hanno una famiglia”.
“Di solito noi disprezziamo questa gente in prigione e pensiamo che essi meritano la loro punizione. È raro che pensiamo di loro qualcosa di positivo”.
“È stata la prima volta per me. Io, altre tre suore e 16 donne siamo andate nella prigione e abbiamo legato il rakhi a 89 detenuti. Avevamo programmato la cosa in modo molto semplice: legare il rakhi, cantare due canzoni, segnare la loro fronte con la tipica polvere rossa e servire alcuni dolci.
Dopo aver ottenuto il permesso, siamo arrivate alla prigione verso le 11 del mattino. Era un giorno limpido e luminoso. I prigionieri che abbiamo visitato avevano un’età fra i 20 e i 50 anni.
Non appena abbiamo iniziato a cantare, gli uomini hanno cominciato a piangere e hanno pianto ancora di più mentre legavamo il rakhi. Mi sono commossa e il mio cuore era pieno di compassione e di amore. Molte di noi piangevano insieme a loro.
In passato ho avuto a che fare con prigionieri - dovevo identificare i miei accusatori - e in quell’occasione avevo timore che mi attaccassero. Questa volta sentivo che essi sono esseri umani come noi e hanno gli stessi nostri sentimenti. Ora comprendo di più che essi sono miei fratelli. Dopo la visita e il rakhi, essi sono presenti nella mia mente e penso alle loro famiglie, al loro futuro, alla possibilità di essere riaccettati nella famiglia e nella società. Molti di loro sono giovani… cosa sarà del loro futuro?”.
“Per me - conclude suore Meena - è stato come essere guariti dal violento trauma che ho sofferto 9 anni fa, in questo stesso mese. Una grande pace mi ha invaso”.