Carlo Zacquini è un fratello Missionario della Consolata che ha raggiunto l’Amazzonia brasiliana alla fine degli anni sessanta... e non l’ha mai abbandonata. Molto, nella missione del Catrimani, parla di lui.

Come è stato il tuo arrivo nelle missioni della Prelazia di Boa Vista

Quando sono arrivato non parlavo nemmeno portoghese, mi hanno dato una grammatica e un dizionario e ho dovuto cominciare da solo e senza aiuto ma non capivo niente. Dovevano essere certamente una buona grammatica e un buon dizionario ma non erano pensate per uno straniero: ci sarebbe stato bisogno di una guida o di una persona che mi potesse aiutare. Ho chiesto al nostro superiore di andare in una scuola della prelazia per assistere a qualche classe di portoghese assieme ai bambini ma lui mi ha risposto che non era necessario. Quindi sono stato assegnato a dei lavori manuali per i quali non avevo molto bisogno di usare il portoghese, la mia professione era meccanico aggiustatore ed ero andato là per montare una scuola professionale,  e così lavoravo dalla mattina alla sera. 

Gli indigeni li ho scoperti quando alcuni di loro, di passaggio in città, tendevano le loro amache in un portico della Prelazia e si alloggiavano da noi. Loro venivano in città cercando di risolvere alcuni problemi e dovevano ricorrere alle istituzioni statali incaricate degli indigeni, si trattava quasi sempre di funzionari che non risolvevano un bel niente. L’unico appoggio esterno che ricevevano era quello della chiesa e per quello si fermavano con noi.

Loro parlavano un portoghese molto elementare e quindi io riuscivo a capirli magari anche meglio degli altri; anni dopo vennero pubblicati in un libro chiamato “Ritorno alla Maloca” tanti dei loro racconti che il padre Silvano Sabatini aveva registrato. Ricordo la testimonianza di un leader che era venuto in città per recuperare una giovane donna che una famiglia aveva portato a Boa Vista con tantissime promesse, poi alla fine tutte disattese, ma che alla fine lavorava gratuitamente nella casa.

Molto presto mi sono innamorato della causa degli indigeni e della missione in mezzo a loro. La prima volta che ho abbandonato la città è stato per raggiungere un gruppo di indigeni non contattato che era stato avvistato: li abbiamo potuti raggiungere e siamo stati con loro tre giorni. È stata una cosa veramente fantastica: io sono rimasto super impressionato da questa esperienza e da quel momento ho cercato di fare tutto quello che era possibile per poter andare a lavorare con questa popolazione.

La missione del Catrimani

Quella missione, dove ho passato tutta la mia vita missionaria, è stata fondata quando io ero già là ma stavo lavorando alla famosa scuola che era stato il mio primo lavoro. I primi missionari nella missione del Catrimani sono stati p. Giovanni Calleri e p. Bindo Mendolesi che erano partiti alla fine del 1965. Loro con delle barche e un certo numero di uomini, la maggior parte di loro indigeni, avevano disceso il Rio Branco e risalito il Rio Catrimani, superando anche rapide e cascate, fino a un certo punto dove decisero fermarsi e organizzare una prima sede della missione aprendo anche una piccola pista di atterraggio. Gli indigeni erano nei paraggi ma non vicino al fiume grande anche perché quello è il regno di una quantità straordinaria di zanzare che fanno, per dirlo nel migliore modo possibile, la vita quasi impossibile. Questo gli indigeni lo sapevano e invece noi no. Io usavo pantaloni lunghi, mettevo le calze sopra i pantaloni, usavo anche camicie con maniche lunghe e anche così non ero al sicuro del tutto. 

Quando io raggiunsi quella missione, pochi mesi dopo essere stata aperta, c’era già la pista che si poteva usare, anche se poi ho dovuto lavorarci non poco per metterla in buone condizioni. Ero andato là perché Calleri era andato via e il padre Bindo era anche parecchio stanco: non riusciva a imparare la lingua e non riusciva nemmeno a cominciare a battezzare e far catechesi; per lui quella non era una missione.

Mi avevano mandato per fargli compagnia durante un mese e alla fine di quel mese ci sarebbe stata la visita canonica che avrebbe dovuto prendere delle decisioni con rispetto alla nuova missione. Quando arrivò l’aereo che doveva portare i visitatori da quello scendono il superiore generale Fiorina, il vescovo, il superiore regionale... c’era spazio solo per il padre Bindo che aveva l’intenzione di tornare a Boa Vista. 

Non era per niente facile rimanere là. Anche a me sarebbe piaciuto dire che volevo tornare a Boa Vista ma né ebbi il coraggio di farlo soprattutto perché temevo che se l’avessi fatto forse non mi avrebbero più rimandato indietro e io ci tenevo a continuare quella avventura.

Loro rimasero con noi non più di due o tre ore; in quel tempo il padre Fiorina, Superiore Generale, mi convocò nella baracca di paglia che era la nostra casa e mi chiese se volevo rimanere in quella missione. Quando dissi di sì la mia consacrazione al Catrimani era completa. Certamente avrei magari anche dovuto dire che erano finite le munizioni per la caccia così necessaria per mettere qualcosa sotto i denti; anche la baracca non era stata ben costruita, aveva il tetto troppo alto e quando pioveva forte ci pioveva dentro;  anche la barca aveva problemi... ad ogni modo accettai la decisione e non aggiunsi nient’altro; le cose materiali si sarebbero poco a poco sistemate. 

Oggi se dovessi rifarlo lo rifarei esattamente allo stesso modo, volevo rimanere con quella gente della quale tra l’altro capivo ancora abbastanza poco. Non ero affatto preparato per quell’incontro, per quella cultura, per studiare una lingua sconosciuta (non si sapeva di qualcuno che l’avesse studiata e se magari questi studi ci fossero noi non ne avevamo accesso). Addirittura non sapevo nemmeno come si chiamasse questo popolo: si usavano nomi comuni e generici per indicarlo.

Che si chiamassero Yanomami... l’ho saputo quando un giorno, mentre stavo sistemando delle cose nella mia baracca, ho sentito due uomini adulti che parlavano fra di loro e sembrava stessero indicando loro stessi con questo nome. Li ho interpellati e mi hanno confermato il nome e anche detto che tutti gli altri, me compreso, si chiamavano Nap. Era la prima volta che sentivo quel nome, dopo vari mesi. Chissà quante volte avevano detto quella parola anche in mia presenza, ma io non l’avevo mai percepito. Nap era per indicare persone straniere e anche persone pericolose.

Quando sono tornato a Boa Vista la prima volta ero così malconcio che mi hanno subito portato all’ospedale dove sono rimasto due mesi. Appena mi hanno dimesso sono partito in fretta e furia per comprare alcune cose di cui avremmo avuto bisogno nella missione e sono ritornato.

Il primo anno sono stato alla fine quasi tutto l’anno da solo fino a quando mi ha raggiunto il padre Saffirio. Erano quelli i giorni in cui il padre Calleri, che si era imbarcato in una missione pericolosa, aveva smesso di comunicare via radio e si stava temendo il peggio. La prima notizia della morte di Calleri io la seppi dalla radio “Voice of America” che era l’unica che si poteva sentire. Poche settimane dopo il silenzio radio la sua spedizione venne ritrovata massacrata.

Con il padre Saffirio abbiamo fatto abbastanza tempo assieme e assieme è un modo di dire perché quando io dovevo tornare a Boa Vista per essere curato all’ospedale Saffirio era nel Catrimani. Poi magari ci davamo il cambio, io al Catrimani e lui all’ospedale. Era davvero una missione difficile. Oggi noi là abbiamo una piantagione e prodotti che possiamo coltivare, raccogliere e consumate ma allora si era al principio e non c’era niente di tutto questo. Nemmeno gli Yanomami coltivavano alcunché. Da buoni cacciatori e raccoglitori, ogni giorno andavano in foresta per raccogliere o cacciare quello di cui avevano bisogno per sfamarsi. Al principio io li seguivo con la mia calibro 22 che è risultata essere abbastanza efficiente: tutto quel che cadeva dagli alberi era commestibile; il frutto della cacciagione si divideva fra tutti con un criterio tipico degli Yanomami.

Noi poco a poco abbiamo introdotto anche “rinnovamenti” nei costumi degli Yanomami: utensili, strumenti di lavoro per l’agricoltura. Ci eravamo anche inventati una specie di “moneta interna”: dei piccoli cartellini colorati che erano consegnati a cambio di lavoro o servizi prestati. Le buste erano tutte assieme ma nessuno ha mai pensato sottrarre ad altri i cartellini... per la loro mentalità tutto era per la comune utilità. 

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Immagine di una comunità Yanomami. Foto Sabatini. Archivio IMC

Come vedi il futuro del popolo indigeno a Yanomami?

Non è un futuro affatto facile... in tutti questi anni si è fatto proprio di tutto per eliminarli in qualche modo: l’abbandono, l’invasione delle terre, la contaminazione dei fiumi, lo sfruttamento minerario, la mancanza di servizi... tutto congiura contro i popoli indigeni amazzonici come gli Yanomami.

Certamente tanto è stato fatto come per esempio quella campagna internazionale per mezzo della quale si è giunti al riconoscimento e alla protezione del loro territorio ancestrale che è il più grande del Brasile. Quindi ci sono tutti gli strumenti legali... ma non sempre sono rispettati. In modo drammatico, soprattutto durante il governo Bolsonaro che era un nemico giurato degli indigeni, si stava cercando di annullare tante conquiste.

La strada che il governo militare aveva costruito nelle prossimità di questo territorio, era costata milioni di dollari e l’abbiamo sfruttata anche noi (e in parte anche mantenuta) per non dipendere troppo dai taxi aerei che erano costosi, incerti e a volte anche pericolosi. Ma alla fine abbiamo rinunciato perché era diventata la via di ingresso di ogni genere di cose e persone che venivano a fruttare le ricchezze dell’Amazzonia e a distruggere l’unico ambiente nel quale gli Yanomami possono vivere degnamente. La situazione a volte degenerava a tal punto che c’erano anche stati degli scontri armati ai quali gli Yanomami non prendevano opporsi né per numero né per capacità militare ed erano costretti a fuggire.

È difficile dare una dimensione a questo sterminio e a queste morte: non esiste un censimento sicuro del numero di indigeni e nemmeno un registro delle causa di morte.

Dopo il periodo terribile di Bolsonaro è arrivato il governo di Lula che, pur non essendo specialmente sensibile alla situazione indigena anche perché le sue estrazioni sono molto diverse, si è dichiarato a favore delle minoranze etniche ed è disposto a riparare molti dei danni che sono stati fatti. 

Non sarà facile, sarà un lavoro duro e anche molto lungo: ci sono poche persone preparate per poter risolvere certi problemi in mezzo a una popolazione come quella; ci sono molti medici che si offrono come volontari per andare, ma non sanno cosa fare; la mancanza di interpreti e di una minima conoscenza di questa popolazione tante volte è perfino controproducente. Io spero solo che possano persistere in questa lotta perché la situazione è terribile e i bambini continuano a morire.

Poi bisogna anche sottolineare che, malgrado le buone intenzioni del governo, in varie occasioni la polizia non è riuscita a mandare via i garimpeiros. Loro sono ben organizzati, ben armati e sufficientemente protetti. Le minacce sono all’ordine del giorno e fanno desistere o posticipare azioni che sarebbero necessarie ed urgenti. La legge è bella ma come sempre quando il danneggiato è un povero che non ha peso politico, militare ed economico... allora non sempre si applica come si dovrebbe. 

Le popolazioni indigene e i migranti venezuelani, vittime di pregiudizi nella società di Roraima, sono stati i protagonisti dell'accoglienza al nuovo Vescovo diocesano di Roraima davanti alla Cattedrale del Cristo Redentor a Boa Vista. Essere accolti da coloro che non contano è un segno di Dio, che sceglie coloro che la società scarta. 

Così ha preso possesso della sua nuova diocesi di Roraima Mons. Evaristo Spengler che è stato accompagnato, in una emozionante liturgia, dai Vescovi della Regione Nord della Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB), da altri prelati provenienti da diversi angoli del Brasile e del Venezuela, da un folto numero di sacerdoti, religiosi e rappresentanti di parrocchie e comunità e dai suoi due predecessori, mons. Mario Antonio da Silva e mons. Roque Paloschi.

La cerimonia si è svolta nella cattedrale di Cristo Redentor  con una liturgia ricca di simboli amazzonici e nel giorno della solennità dell'Annunciazione del Signore, quando questa comunità diocesana si appresta a cominciare la preparazione ai 300 anni di evangelizzazione che si compiranno nel 2025. I popoli indigeni e i migranti venezonali, presenti numerosi nella cattedrale, hanno avuto un ruolo importante: la lingua spagnola e Macuxi è stata utilizzata nella proclamazione delle letture, nel canto e in altri momenti della celebrazione.

Riflettendo a proposito del Mistero dell'Annunciazione, il vescovo Evaristo ha messo in evidenza come Dio abbia inviato il suo angelo in una regione disprezzata, per incarnare un Messia che ha voluto far parte della povera gente e che ha rivelato che "il Regno di Dio è presente soprattutto nelle persone più umili". Questo è molto evidente nella figura di Maria che ha superato tutte le paure per far suo il progetto di Dio e "portare nel cuore la certezza che Dio cammina con lei e con i poveri. Alcune paure fanno molto male –ha ricordato Mons. Evaristo– e ci impediscono di camminare e di costruire un futuro coerente e più autentico con il Vangelo".

Da qui il nuovo Vescovo della Diocesi di Roraima ha visto l'urgenza di "costruire una Chiesa di speranza e fiducia in Dio" e, chiamando tutti ad assumere la propria vocazione battesimale, ha insistito che dobbiamo continuare ad essere “popolo di Dio in cammino, sempre insieme, senza paura, disposti a costruire comunità di servizio per mezzo delle nostre Comunità Ecclesiali di Base”.

Sull'esempio di Maria "questa Chiesa particolare ascolta la chiamata di Dio attraverso il grido del suo popolo", lo stesso che hanno fatto i primi missionari che sono arrivati 300 anni fa e, "con molto sacrificio per le difficoltà che hanno sperimentato in spostamenti, comunicazioni e risorse qui si sono lasciati consumare nella testimonianza del Vangelo vivo. Loro hanno costruito questa Chiesa che non si è mai lasciata guidare dagli applausi o dalle critiche, ma dalla fedeltà al Vangelo di Gesù Cristo", fino a dare la vita, come è accaduto a padre Calleri IMC.

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Commentando il momento attuale il nuovo vescovo ha detto che “la nostra Chiesa non può tacere di fronte alla tragedia del popolo Yanomami, di fronte alle loro terre invase dalle miniere illegali che li hanno privati del territorio, della salute, della pace, dei mezzi di produzione alimentare e, in poche parole, della vita stessa. Quindi la Chiesa di Roraima ribadisce ancora una volta il suo impegno a favore dei popoli indigeni in difesa della vita e del territorio”. Questo impegno, ha aggiunto il Vescovo, si estende anche ai migranti che "desidera accogliere e inserire in questa terra, molti di loro partecipano già alla vita delle comunità cristiane della diocesi”.

Mons. Evaristo Spengler ha anche ricordato, riflettendo sul ministero del vescovo, che "più importante del Vescovo è la Chiesa" e ha concluso con una professione di fede nella Chiesa in cui crede: una Chiesa fedele al Vangelo e sempre attenta alla Parola; una Chiesa al servizio dell’umanità e a difesa della vita soprattutto dove è più minacciata; una Chiesa alleata dei poveri, degli indigeni, dei migranti, delle donne, dei giovani e degli affamati; una Chiesa che fa l'esperienza della condivisione e della solidarietà; una Chiesa responsabile della Casa Comune, che ama, cura e difende la nostra sorella Madre Terra; una Chiesa profetica e ministeriale, fatta di Comunità e testimone di sinodalità.

“In questa Chiesa del Roraima tre volte centenaria –ha concluso mons. Evaristo– mi sento tranquillo e abbastanza sicuro, non per le mie forze, ma per la testimonianza, la fedeltà e profetismo della Chiesa stessa".

Al termine della celebrazione, c'è stato un momento di ringraziamento per il nuovo vescovo che  ha coinvolto sacerdoti, religiosi e laici. Il nuovo vescovo è stato anche accolto dal sindaco della città, che gli ha dato il benvenuto nella città di Boa Vista, sede della diocesi di Roraima.

* Padre Luis Miguel Modino, consigliere per la comunicazione della CNBB Nord.

"Esprimiamo solidarietà e rinnoviamo il nostro impegno per la vita dei Popoli Indigeni dell'Amazzonia, in particolare degli Yanomami che si trovano ad affrontare gravi minacce alla loro sopravvivenza". Questo è un estratto del messaggio diffuso dai Missioni Consolata giovedì 16 febbraio, festa del Fondatore, a conclusione dell'Assemblea del Continente Americano in preparazione del prossimo Capitolo Generale. 

L'incontro online ha riunito per tre giorni 35 missionari che lavorano in diversi Paesi del continente e la Direzione Generale da Roma. "Siamo indignati per questa tragedia inflitta a un popolo che conosciamo da tempo, pieno di vitalità, bellezza e ricchezza spirituale, senso della festa e della condivisione. Questa barbarie è il risultato di un progetto di sfruttamento che la società non indigena ha imposto agli Yanomami", sottolinea la nota della Congregazione che da 75 anni accompagna i popoli indigeni in Amazzonia.

A continuazione il messaggio completo diffuso il 16 febbraio. Festa del Beato Giuseppe Allamano:

NOTA DI SOLIDARIETÀ CON IL POPOLO YANOMAMI

"Dobbiamo ascoltare di più i popoli indigeni e imparare dal loro modo di vivere per capire bene che non possiamo continuare a divorare avidamente le loro risorse naturali" (Papa Francesco, 6° Incontro Mondiale del Forum dei Popoli Indigeni, Roma, 10/02/2023).

Noi, Missionari della Consolata riuniti online per l'Assemblea Continentale dal 14 al 16 febbraio 2023 in preparazione al XIV Capitolo Generale, esprimiamo solidarietà e rinnoviamo il nostro impegno per la vita dei popoli indigeni dell'Amazzonia, in particolare degli Yanomami che si trovano ad affrontare gravi minacce alla loro sopravvivenza.

Le immagini e le informazioni diffuse sugli Yanomami, all'interno del loro territorio legalmente riconosciuto nello stato del Roraima, hanno avuto grande risonanza in Brasile e in tutto mondo, generando diverse manifestazioni di indignazione, solidarietà e richieste di indagini sui vari crimini che sono stati commessi. Siamo indignati per questa tragedia che è stata inflitta a un popolo che conosciamo da molto tempo, pieno di vitalità, bellezza e ricchezza spirituale, senso di festa e condivisione. Questa barbarie è il risultato di un progetto di sfruttamento che la società non indigena ha imposto agli Yanomami.

Ciò che è emerso dai mezzi di comunicazione non è nuovo. Negli ultimi cinque anni, le organizzazioni indigene e i loro alleati hanno fatto innumerevoli denuncie: dall'invasione delle terre degli Yanomami fino all'abbandono della assistenza sanitaria pubblica

Senza ottenere una risposta adeguata, che avrebbe potuto evitare questa situazione di sterminio,  l'omissione delle autorità pubbliche è stata notoria.

Le prove indicano che negli ultimi anni la combinazione di incentivi sistematici per l'estrazione mineraria, la negligenza con rispetto all’assistenza sanitaria hanno finito per minacciare la vita fisica e culturale del popolo Yanomami. Questi fattori hanno generato, tra gli altri mali, una crescente violenza contro le comunità, la distruzione dell'ambiente, la contaminazione dei fiumi, l'aumento della malaria, della malnutrizione, della verminosi e delle malattie respiratorie.

Come fratelli e sorelle degli Yanomami, ribadiamo gli appelli della Chiesa in Amazzonia, del Consiglio Missionario Indigeno (Cimi), delle organizzazioni indigene e dei loro alleati, affinché le autorità governative competenti affrontino il problema alla radice con misure volte allo smantellamento dell’attività mineraria illegale, all'immediata espulsione dei garimpeiros dal territorio indigeno, alla protezione permanente del territorio, nonché all'indagine e alla punizione rigorosa dei responsabili dei crimini commessi contro il popolo Yanomami.

Appoggiamo tutte le misure di emergenza adottate dal governo federale per salvare vite umane, ma allo stesso tempo chiediamo la ripresa dell'assistenza sanitaria all'interno del territorio in conformità con la Costituzione.  

In spirito di comunione, esprimiamo anche il nostro sostegno e la nostra solidarietà alla Diocesi di Roraima e a quei Missionari della Consolata che da 75 anni accompagnano le popolazioni indigene del Roraima. La missione svolta con rispetto, dialogo e testimonianza profetica contribuisce alla difesa delle comunità, dei loro territori e delle loro culture, e alla cura integrale della Casa Comune. L'opzione storica per i popoli indigeni e l'Amazzonia ci aiuti a essere più fedeli alla missione ad gentes e al carisma ereditato dal Fondatore.

I partecipanti all'Assemblea Precapitolare IMC del Continente Americano.

Con quasi 10 milioni di ettari, la riserva indigena dello stato del Roraima, con una popolazione di poco superiore ai 25 mila abitanti, sta vivendo una crisi senza precedenti, come ci raccontano quelle persone che da anni vivono e lavorano per la difesa dei diritti dei Popoli e della foresta pluviale che è la loro casa. In tutto questo dramma è molto evidente la colpevole negligenza dell'ultimo governo federale presieduto dal ex presidente Jair Bolsonaro (2019 al 2022).

L'estrazione dell'oro dal suolo o dai sedimenti dei corsi d'acqua, effettuata con tecniche manuali o con macchinari pesanti, è favorita da vere e proprie organizzazioni criminali ed è stata la causa principale della crisi umanitaria che ha svigorito le comunità Yanomami.

Uno studio condotto dalla University of South Alabama degli Stati Uniti rivela che la quasi totalità delle miniere illegali ( ben il 95%) si concentra in tre territori indigeni: Kayapó, Munduruku e Yanomami, che sono le zone più colpite da questa attività. 

Non è complicato capire che, se queste riserve sono abbandonate a se stesse, com’è successo in questi ultimi anni, si impone chi ha più risorse, appoggi e forze. 

L’abbondanza dei giacimenti di tutta la conca amazzonica ha quindi investito le popolazioni più deboli: favorita dai poteri economici, dalle élite locali e dall'aumento del prezzo dell'oro sul mercato internazionale l’estrazione illegale (garimpo) ha avuto la meglio. Grazie all’appoggio del precedente governo è stato perfino presentato in Parlamento un progetto di legge, poi dichiarato incostituzionale, per regolamentare e promuovere l'estrazione mineraria nei territori indigeni.

La strada di 10 km che conduce al territorio Yanomami appare oggi come una ferita aperta nel cuore della foresta. La deforestazione, l'inquinamento senza precedenti e gli enormi crateri aperti che squarciano la terra hanno conseguenze drastiche sulla vita, la cultura, la spiritualità e la salute fisica delle popolazioni autoctone. 

In un'intervista, padre Corrado Dalmonego IMC, che sta conducendo una ricerca di dottorato sull'impatto dell'attività estrattiva nel territorio indigena, ha dichiarato: "I centri sanitari hanno esaurito i medicinali di base come il diprone, il paracetamolo e i farmaci per il trattamento della malaria. Di conseguenza, più di 500 bambini sono morti per malattie curabili. A questo si aggiunge che il garimpo illegale non solo ha danneggiato la salute degli indigeni ma ha anche sconvolto la vita familiare, spingendo molte donne alla prostituzione o i giovani alla migrazione verso le periferie povere della città dove sono spesso vittime della tossicodipendenza e della miseria”.

Non c’è dubbio. Coloro che si addentrano nella foresta hanno atteggiamenti predatori nei confronti delle ricchezze naturali; i facili guadagni sono sempre realizzati a spese della vita della foresta e delle persone che la abitano e sanno vivere in armonia con essa. 

 

Le altre vittime

Per padre Bob Mulega, 34 anni, missionario della Consolata di origine ugandese e nel Catrimani dal 2019, anche le manovalanze minerarie sono a loro volta vittime di un sistema di sfruttamento: "noi sappiamo che nelle miniere le condizioni di vita sono terribili e coloro che vi lavorano sono i più poveri, senza terra e senza altre opportunità”. Gli fa eco Gilmara Fernandes, leader cattolica e membro del Consiglio indigeno missionario di Roraima (Cimi) che dice: "i veri responsabili della tragedia mineraria non sono coloro che stanno nelle miniere ma quelli che forniscono logistica, manutenzione, cibo e finanziamenti senza i quali il garimpo diventa una impresa impossibile. I lavoratori delle miniere sono solo la punta di un iceberg che va molto più in profondità; sono i poteri occulti, spesso vere e proprie imprese criminali sostenute da politici conniventi, quelle che devono essere ritenute responsabili e assicurate alla giustizia”.

Quando nel 1993, quasi trent’anni fa, è stata espulsa dalle terre indigene una prima ondata di garimpeiros questi hanno potuto diventare agricoltori, ottenendo l'accesso alla terra e partecipando a progetti di riforma agraria. Oggi è tutto più difficile continua Gilmara: “con l'arrivo della soia, il valore della terra è aumentato considerevolmente e la maggior parte della terra in Roraima è concentrata nelle mani di politici, uomini d'affari, grandi produttori di soia, e diventa impossibile comprarla. Come potranno questi lavoratori illegali mantenere le loro famiglie? Se il governo non pensa a soluzioni per loro... saranno probabilmente riciclati in altre attività illecite o in nuove frontiere del garimpo”.

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Suor Mery Agnes, MC, visita una comunità Yanomami.

Dietro le quinte

I missionari della Consolata che vivono con gli Yanomami nella regione del Catrimani da più di 50 anni conoscono quello che le telecamere non possono vedere e ciò che si muove dietro le quinte. Per padre Mulega, gli Yanomami sono una società strutturata e fortemente ancorata alle loro credenze e alla loro forma di concepire la vita e la creazione. Tutto è ben costruito: l'ora di mangiare, le regole per vivere bene in società, la cura della natura, il posto delle donne e dei bambini, il ruolo degli uomini... questo mondo merita il massimo rispetto.

Il padre Mulega si appella alla società affinché non veda gli indigeni come dei poveri disgraziati ma come un popolo originario che condivide con tutti diritti, doveri, dignità e bisogni. "Non dimentichiamoci che loro sono persone degne, e non una popolazione che vive rinchiusa in una riserva ed è oggetto di studi. A loro bisogna offrire politiche di salute pubblica ed educazione basate sulla loro lingua. Difendere la selva è difenderne la vita, la casa e luogo sacro per tutti loro".

In questo contesto, appare fondamentale una conversione dello sguardo e del cuore che permette un incontro autentico con la popolazione indigena. Un rapporto di colonizzazione, da qualsiasi parte provenga –dal governo, dai proprietari terrieri o perfino da organizzazioni che sono al servizio delle comunità indigene–, non farà altro che aumentare i danni. Il genocidio e l'etnocidio, che oggi è alla luce del sole, continueranno.

* Rosinha Martins è Missionaria scalabriniana e giornalista. FONTE

Il Cardinale Leonardo Steiner, vescovo di Manaus, è arrivato a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, per esprimere, a nome di Papa Francesco e della Presidenza della Conferenza Episcopale Nazionale del Brasile (CNBB), la solidarietà con il popolo Yanomami gravemente aggredito.

Dialogo, ascolto e visione di come essere presenti come chiesa

Il cardinale di Manaus, che era accompagnato da padre Lucio Nicoletto, amministratore diocesano di Roraima e da padre Corrado Dalmonego IMC, uno dei grandi esperti del mondo Yanomami, ha detto di essere venuto a Boa Vista "per incontrare i leader indigeni con l’intenzione di dialogare, ascoltare, essere ancora più presenti come Chiesa".

Dopo aver visitato i pazienti del Centro di Salute Indigeno Yanomami di Boa Vista, l'arcivescovo di Manaus ha ricordato che la Chiesa cattolica è sempre stata molto presente con i popoli indigeni, e “in questo momento di difficoltà vogliamo marcare questa presenza. Ho potuto costatare che davvero la situazione di malnutrizione è grande e preoccupante”. 

Secondo il cardinale Steiner, "tutti conosciamo le ragioni della malnutrizione, ma nel dialogo con alcuni leader abbiamo visto che ci sono diversi elementi in cui possiamo dare il nostro contributo, il nostro aiuto. Come chiesa cattolica vogliamo mostrare la nostra solidarietà alla comunità Yanomami che è stata trascurata dal governo; loro sono figli e figlie di Dio, sono persone che vivono in regioni lontane, e sappiamo anche che questa situazione drammatica che stiamo vedendo non è nuova. Vogliamo vedere con i governi cosa possiamo fare perché questi popoli possano continuare a vivere, ma soprattutto possano vivere bene”.

Mons. Leonardo Steiner ha sottolineato il lavoro di denuncia svolto dalla Chiesa negli ultimi anni, soprattutto attraverso il Consiglio Missionario Indigeno (Cimi), che "da molto tempo denuncia, parla e pubblica rapporti” e ha informato del sostegno della Presidenza della Conferenza episcopale nazionale del Brasile e di Papa Francesco, al quale invierà un resoconto della sua visita.

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Il cardinale Leonardo con padre Lucio, amministratore diocesano di Roraima.

L'attività mineraria è bagnata di sangue

La visita del cardinale Steiner a Boa Vista è proseguita con un incontro con i leader indigeni presso la sede del Consiglio indigeno di Roraima dove gli è stato ufficialmente consegnato il rapporto "Yanomami sotto attacco", documento ricevuto dalle autorità Brasiliane nel mese di Aprile de 2022, nel quale sono raccolte testimonianze e dati che mostrano gli effetti devastanti dell'estrazione mineraria illegale nella terra indigena Yanomami.

Le autorità indigene hanno riassunto la attuale situazione come conseguenza di tre emergenze ancora attuali: l’estrazione mineraria illegale; la malnutrizione e l’inefficienza del sistema sanitario nel territorio indigena dove imperversa una epidemia di malaria. 

Secondo le organizzazioni indigene, gran parte del popolo Yanomami è spiritualmente morto a causa della distruzione della foresta che è la loro casa comune. L’estrazione mineraria illegale, ha portato 120 comunità Yanomami a una situazione di grave calamità con aggressioni di ogni genere: stupri, furti di bambini, omicidi e suicidi. Questa attività economica illegale è bagnata dal sangue di innocenti tanto nel territorio indigeno come nella città; e tutto questo sta accadendo sotto gli occhi di tutti.

La richiesta è quella di ritirare urgentemente i minatori illegali, la protezione del territorio e la tutela delle autorità indigene. Si tratta di una sfida a lungo termine che può causare molto dolore e che deve iniziare con l'identificazione e la punizione dei veri colpevoli, compresi i membri dei vari poteri e delle reti criminali che sostengono e finanziano l'attività estrattiva.

Chi parla viene minacciato e sono sempre di più i giovani Yanomami che sono coinvolti in queste attività illecite e criminali. È evidente il tentativo dei media nazionali di nascondere la realtà ma loro continueranno a difendere la vita del loro popolo.

I leader indigeni hanno ringraziato il cardinale Steiner per la sua presenza nella regione in un momento molto difficile per tutte le popolazioni indigene dello stato del Roraima; riconoscono il sostegno storico della Chiesa di Roraima e chiedono alla chiesa di continuare a camminare al fianco dei popoli indigeni della regione.

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Visita al DSEI Yanomami, del Segretariato speciale per la salute indigena.

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14-11-2023 Domenica Missionaria

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario (Anno A). Accogliere il dono di Dio

Pr 31,10-13.19-20.30-31;Sal 127;1Ts 5,1-6;Mt 25,14-30. La “Parabola dei Talenti” (Mt 25,14-30) fa parte del quinto discorso di Gesù nel vangelo di...

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