È stata presentata nella Sala Stampa della Santa Sede questo lunedì, 09 dicembre, la campagna di solidarietà dal titolo "La vita è appesa a un filo" in favore dei difensori dei diritti umani e dei leader sociali che si occupano della custodia della Casa Comune in America Latina. La Chiesa cattolica non vuole lasciarli soli.

L’iniziativa, che ha come motto “Tessere il futuro, proteggere la vita” è promossa dal Consiglio Episcopale latinoamericano (Celam) insieme alla Piattaforma per la pace, la democrazia e i diritti umani e la Comunità di protezione latinoamericana.

La campagna durerà fino al 10 dicembre 2025, con attività lungo tutto l’anno del Giubileo della speranza con la finalità che la cultura della vita prevalga sulle spirali della violenza.

L’assassinato di Juan Antonio López

La notte del 14 settembre 2024, Juan Antonio López, noto difensore del fiume Guapinol e del parco nazionale Botaderos "Carlos Escaleras Mejías", è stato assassinato in Honduras. Juan è stato attaccato da sconosciuti che gli hanno sparato, dopo che aveva lasciato la parrocchia di San Isidro Labrador, situata nel comune di Tocoa, dove era consigliere comunale. Era membro della Rete ecclesiale mesoamericana (Remam) ed era attivo nella diocesi di Trujillo. Il suo lavoro di ambientalista è stato riconosciuto da diverse organizzazioni internazionali e mostrando l’importanza del lavoro che svolgono tanti uomini e donne che mettono a rischio la propria vita per proteggere quella degli altri.

La morte di López ha anche messo in evidenza la condizione di vulnerabilità in cui vivono i difensori dei diritti umani e ambientali in tutta l’America Latina. Molti di loro s’ispirano agli insegnamenti di Papa Francesco espresso nella Laudato si’, nella Laudate Deum e nella Fratelli tutti.

"La vita è appesa a un filo"

Il lancio ufficiale della campagna avverrà il 10 dicembre, in un evento virtuale che riunirà i rappresentanti di diversi settori sociali e religiosi dell'America Latina, in concomitanza con gli eventi che si svolgeranno nel comune di Tocoa (Honduras), in memoria di Juan Antonio López.

Secondo i promotori, "situazioni come l'omicidio di Juan Antonio López non sono eventi isolati, ma fanno parte di un modello sistematico in America Latina, una delle regioni più letali per i difensori dell'ambiente e dei diritti umani". Secondo Global Witness, l'85% degli omicidi di difensori dell'ambiente nel 2023 è avvenuto in questa regione del mondo. L'Honduras, ad esempio, che ha uno dei più alti tassi di omicidio pro capite, ha registrato 18 uccisioni di ambientalisti nel 2023, tra cui tre attivisti della comunità Guapinol.

Conferenza Stampa

Sono stati invitati alla Sala Stampa vaticana a parlare della campagna il card. Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio allo Sviluppo Umano Integrale (Dssui), il neo-cardinale Jaime Spengler, presidente del Consiglio Episcopale latinoamericano (Celam) e arcivescovo di Porto Alegre (Brasile), il card. Carlos Castillo, arcivescovo di Lima (Perù) e il card. Fernando Chomalí, arcivescovo di Santiago (Cile), ed Emilce Cuda, segretaria della Pontificia Commissione per l'America Latina.

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La conferenza di presentazione della campagna solidale in America Latina e Caraibi. Foto: Vatican Media

Il valore del dialogo

Nel suo intervento, il cardinale Michael Czerny, ha sottolineato il valore “del dialogo, la fratellanza e l’amicizia sociale per risolvere i conflitti”. E ha aggiunto che “spetta a tutti noi farci carico dei nostri fratelli, soprattutto dei più vulnerabili, e della cura della casa comune”. Il prefetto del Dicastero ha riassunto le ragioni alla base della campagna: “la vita è un dono sacro di Dio. Non possiamo essere indifferenti dinanzi alla vita minacciata di quanti difendono i diritti umani e ambientali. Non possiamo lasciarli soli!”

Il neo-cardinale Jaime Spengler, presidente del Celam, ha ricordato che “la vita è sacra” e che “il sangue di centinaia di leader assassinati in America Latina e nei Caraibi chiede giustizia e noi non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla vita minacciata di coloro che difendano i diritti umani ed ambientali, abbiamo il dovere quindi di assisterli nei loro sforzi e di denunciare la cultura della morte”. Nel suo intervento, il card. Spengler ha ricordato come “la fede che ci unisce ci chiami a ricostruire il tessuto sociale con azioni per sensibilizzare e dare visibilità alle lotte dei difensori dei diritti umani e ambientali”.

Nel Peru “c’è una situazione generalizzata di violenza. Sono entrate le mafie nelle miniere illegali ma anche nella città in modo che si uccidono otto persone al giorno”, denuncia il card. Carlos Castillo, arcivescovo di Lima. “Abbiamo bisogno di rafforzare la democrazia con una partecipazione più amplia. Credo che dobbiamo tornare a quello che il Papa ha sottolineato: i movimenti popolari. La Chiesa non può smettere di animare, ispirare, accompagnare le iniziative di base nel mondo”, ha affermato il cardinale.

Emilce Cuda, segretaria della Pcal, nel suo intervento, ha sottolineato che “tutto ciò che fa la Chiesa non lo fa né per motivi politici né per motivi economici, lo fa per il Vangelo”. Ha poi aggiunto che l’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco “offre un prezioso strumento per difendere queste vite che sono appese a un filo”, che è il dialogo sociale, “che consiste nel far sì che le parti si siedano e mettano sul tavolo il conflitto per renderlo visibile, per negoziare condizioni migliori e portarle avanti”.

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Sala Stampa della Santa Sede a Roma. Foto: Vatican Media

I cinque assi tematici della campagna

La Campagna “La vita è appesa a un filo” è sostenuta dal Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale del Vaticano e dalla Pontificia Commissione per l'America Latina. L'obiettivo è evidenziare casi emblematici di difensori dei diritti umani e dell'ambiente in base a cinque assi tematici: il modello estrattivista (che comprende tra le altre attività come la deforestazione, l'estrazione di minerali, gli idrocarburi, l'agricoltura su larga scala, ); il narcotraffico e la criminalità transnazionale; le limitazioni alla libertà di espressione e di partecipazione dei cittadini; i conflitti armati interni; la limitazione delle donne nella loro attività di difesa dei diritti umani e nel loro ruolo in politica.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, Ufficio per la Comunicazione. Con informazioni del Dicastero per la Comunicazione.

“Continuare a lavorare, tenere aperto l'ospedale di Port au Prince e proseguire con tutte le attività che abbiamo in Haiti diventa sempre più difficile e i Missionari rischiano letteralmente la loro vita ogni giorno” scrive padre Antonio Menegon, missionario Camilliano.

Le notizie che arrivano da Haiti sono allarmanti e documentano la tragedia quotidiana in cui la popolazione è costretta a vivere.

Poche righe, inviate a tarda notte da padre Erwan, MI, da Port au Prince, sono il grido di una terra ferita e di un popolo abbandonato. “Le bande armate hanno bloccato tutto. Il partito di Aristide ha preso il potere mandando a casa il primo ministro Ariel Henry. È una cosa molto grave. Adesso nessuno sa come va finire questa cosa. Speriamo in bene” scrive il missionario.

Il 10 novembre 2024, il governo haitiano ha annunciato i piani per sostituire il primo ministro in carica Conille con l'imprenditore ed ex candidato al senato Alix Didier Fils-Aimé. Mentre Fils-Aimé prestava giuramento la mattina dell'11 novembre, bande armate hanno preso di mira l'aeroporto internazionale di Haiti a Port-Au-Prince che è stato chiuso dopo che un aereo di linea statunitense è stato colpito da alcuni spari mentre stava atterrando. Il volo è stato dirottato nella Repubblica Dominicana.

Si prevede che la recente transizione di potere destabilizzerà ulteriormente il clima politico e sociale di Haiti. A causa della crescente instabilità politica, le organizzazioni umanitarie temono che i gruppi armati sfruttino lo stato di vulnerabilità di Haiti.

* Originalmente pubblicato in: www.fides.org

 

Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito (...), sono turbato e senza parole”. “Questa preghiera del Salmo 76 è il mio sentimento oggi per quello che sta accadendo in Mozambico dopo le elezioni del 9 ottobre”, ha dichiarato mons. Inácio Saure, IMC, arcivescovo di Nampula, durante la messa celebrata presso la Casa Generalizia IMC a Roma, questo mercoledì 30 ottobre.

Secondo mons. Inácio, presidente della Conferenza Episcopale Mozambicana (CEM), “tutti dicono che il candidato del partito di opposizione Podemos, Venâncio Mondlane, ha vinto le elezioni”. Tuttavia, la Commissione Elettorale nazionale (CNE), presieduta dal vescovo anglicano Carlos Matsinhe, ha annunciato la vittoria di Daniel Chapo, sostenuto dalla Frelimo, il partito al potere dall'indipendenza nel 1975, che, secondo l'organismo, ha ottenuto il 70% dei voti. Al secondo posto è il candidato di Podemos con il 20%, un risultato contestato dal partito che rivendica la vittoria di Venâncio Mondlane con il 53% dei voti. Anche il Movimento Democratico del Mozambico (MDM) e la Resistenza Nazionale Mozambicana (Renamo), ora terzo partito, hanno ritenuto che questi risultati fossero falsificati e li hanno contestati.

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I quattro principali candidati alle elezioni mozambicane del 9 ottobre. Foto: CNE

La situazione di stallo ha scatenato un'ondata di manifestazione nelle principali città, con una violenta repressione che ha portato alla morte di almeno 11 persone negli ultimi giorni. Più di 450 persone sono state arrestate, la maggior parte a Maputo, tra cui, secondo il Centro per la democrazia e i diritti umani, minori e persone vulnerabili, alcune senza alcun legame con le manifestazioni.

A Roma, il vescovo Inácio Saure ha partecipato alla Seconda Assemblea del Sinodo sulla sinodalità e alla canonizzazione di San Giuseppe Allamano. In Mozambico “la situazione è grave - ha detto il vescovo - tra il 1° e il 7 novembre Vanâncio Mondlane ha proclamato uno sciopero generale nel paese e temiamo che questo porti ad altre violenze e morti. I politici dicono di voler fare del bene, ma quale bene?”, domandò il vescovo.

“Il nostro Santo Fondatore dice che ‘il bene deve essere fatto bene’. Quindi, chi vuole fare il bene deve farlo bene. Sembra che il partito al potere abbia perso il controllo della situazione. Per questo chiedo di pregare per la pace in Mozambico”. Per mons. Inácio, “l'esperienza del Sinodo è stata una grande grazia, non solo come momento di ascolto, ma anche di formazione alla pratica della sinodalità. Che il messaggio del Sinodo ci aiuti a camminare come Chiesa sinodale”, augura il vescovo prima di rientrare nel suo Paese.

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Messa nella Casa Generalizia presieduta da mons. Inácio Saure

Comunicato dei Vescovi: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32)

Preoccupata per la situazione di violenza, il 22 ottobre la Conferenza episcopale del Mozambico (CEM) ha rilasciato una dichiarazione, firmata da mons. Inácio Saure, in cui afferma: “Condanniamo il barbaro assassinio di due personalità politiche, che ricorda chiaramente altri omicidi di personalità politiche o della società civile, anche legate ai partiti di opposizione, avvenuti all'indomani di precedenti elezioni, con analoghe modalità”. Elvino Dias, avvocato di Venâncio Mondlane, e Paulo Guambe, due oppositori politici, sono stati uccisi la notte del 18 ottobre in un agguato nel centro della capitale, Maputo.

Nel contesto delle elezioni generali, i vescovi affermano che “la Chiesa cattolica, come istituzione, non sostiene candidati e non ha partiti. Ma questo non significa che rinunci al suo impegno politico e sociale, un percorso concreto verso la costruzione di una società più democratica, inclusiva, giusta e fraterna, in cui tutti possano vivere in pace, con dignità e un futuro. Per questo, come voce della Chiesa cattolica, noi Vescovi non possiamo non denunciare questa grave situazione che il paese sta vivendo e la violenza che genera, gettando tutti nel caos”.

Leggi qui il testo integrale del Comunicato dei vescovi mozambicani

Un altro punto evidenziato nel comunicato è l'affluenza alle urne, dove “più della metà dei Mozambicani registrati non si è presentata per esercitare il proprio diritto di voto”. Ciò indica “che la loro volontà, espressa alle urne, non viene rispettata, rendendo inutile l'esercizio di questo importante diritto civico”.

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Mons. Inacio Saure durante conferenza stampa il 09 ottobre 2024, giorno delle elezioni in Mozambico, nella Sala Stampa della Santa Sede a Roma

La nota della CEM denuncia “frodi grossolane” come “il riempimento delle urne, la falsificazione di avvisi e tanti altri modi per coprire la verità”, che portano i funzionari eletti a perdere la loro legittimità. “Queste irregolarità praticate impunemente - denunciano i vescovi - hanno rafforzato la mancanza di fiducia negli organi elettorali, nei leader che abdicano la loro dignità e disprezzano la verità e il senso di servizio che dovrebbe guidare coloro ai quali il popolo affida il proprio voto”. “Certificare una menzogna è una frode”.

Il comunicato chiede “il rispetto del diritto a manifestare pacificamente, ma avvertiamo anche i giovani, (la più grande ricchezza nazionale), di non lasciarsi strumentalizzare e trascinare in azioni di vandalismo e destabilizzazione”, situazione che i vescovi avevano già rilevato nella nota pastorale del 16 aprile 2021.

Il messaggio è un forte appello a fermare “la violenza, i crimini politici e la mancanza di rispetto per la democrazia. Abbiano il coraggio di dialogare e di ristabilire la verità dei fatti”.

In conclusione, i vescovi chiedono a coloro che sono coinvolti in questo processo elettorale e nel conflitto che ha generato di “fare del riconoscimento delle colpe, del perdono e del coraggio della verità il cammino che permetterà il ritorno alla situazione normale”.

“Il Mozambico non deve tornare alla violenza! Il nostro Paese merita verità, pace, tranquillità e tolleranza!”

* Padre Jaime C. Patias, IMC, Comunicazione Generale a Roma.

“Assumere la causa indigena come causa della Chiesa”.

Il Consiglio Indigenista Missionario (Cimi) ha presentato, lunedì 22 luglio, presso la sede della Conferenza Episcopale del Brasile (CNBB) a Brasilia (DF), il Rapporto sulla violenza contro i popoli indigeni in Brasile - 2023. Ricordiamo che in Brasile vivono 305 popoli indigeni, di 116 registrati come popoli in isolamento volontario, che, per questo, sono sempre più vulnerabili di fronte alla logica che antepone il profitto alla vita.

Mancanza di diritti e di demarcazione

L’incontro è iniziato con un rituale indigeno e con la denuncia della violazione dei diritti e della inerzia delle autorità nello Stato di Mato Grosso do Sul, aggravata dalla mancanza di demarcazione delle terre indigeni. Erano presenti l'arcivescovo di Manaus e presidente del Cimi, il cardinale Leonardo Steiner, il segretario esecutivo del Cimi, Luis Ventura; gli organizzatori del rapporto, la sociologa Lucia Helena Rangel e Roberto Antônio Liebgott, la regista e antropologa Ana Carolina Mira Porto e due rappresentanti dei popoli indigeni: il capo della Terra Indigena (TI) Caramuru, Catarina Paraguassu, nel sud-ovest di Bahia, Nailton Muniz, Pataxó Hã-Hã-Hãe, e la leader Avá-Guarani del tekoha Y'Hovy, nella TI Tekoha Guasu Guavirá, nel Paraná occidentale, Vilma Vera.

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Presentazione del Rapporto sulla violenza contro i popoli indigeni in Brasile - 2023. Foto: Willian Bonfim

Il Rapporto, si sviluppa in tre capitoli e 19 categorie di analisi, presenta una panoramica delle varie forme di violenza e di violazioni commesse contro le popolazioni indigene in tutto il Paese nel 2023, primo anno del terzo mandato dell'amministrazione del Presidente Lula, che, al momento, ha fatto poco sulla questione indigena. Secondo il rapporto, infatti, la violenza contro le popolazioni indigene in Brasile non è diminuita.

Secondo Lucia Helena Rangel, il Congresso nazionale, i deputati e i senatori intendono legiferare per porre fine ai diritti degli indigeni e incitare alla violenza. La sociologa ha sottolineato che il Rapporto include 150 casi di conflitti per i diritti territoriali, 276 casi di invasioni, sfruttamento illegale delle risorse e danni alla proprietà, 850 casi di omissione e ritardo nella regolarizzazione delle terre, 411 casi di violenza, tra cui 208 omicidi, nonché 1.040 bambini fino a 4 anni uccisi a causa dell'omissione di soccorso del governo e 180 suicidi.

Vedi il video della presentazione del Rapporto a Brasilia (DF) (Portoghese)

Un grido di denuncia per rendere visibile la realtà

Da qui l'importanza di questo “grido di denuncia, che mira a dare visibilità alla situazione e alla realtà dei territori indigeni e, nello stesso tempo, di manifestazione della resistenza dei popoli indigeni”, ha dichiarato Luis Ventura. “È un documento che mira a sollecitare ed esigere che i responsabili prendano misure urgenti per affrontare questa violenza permanente e strutturale contro i popoli indigeni”, ha sottolineato il segretario esecutivo del Cimi.

Il cardinale Leonardo Steiner ha ricordato che “i popoli indigeni sono una testimonianza vivente dell'audacia e della perseveranza della lotta”. Inoltre, ha denunciato come nel corso della storia del Brasile da una parte “i popoli indigeni sono stati cacciati, poi schiavizzati, poi difesi dai sacerdoti gesuiti, dall’altra, però, nel corso della storia brasiliana, i popoli indigeni sono sempre stati massacrati”, causando la distruzione delle culture e la scomparsa delle lingue”. Per questo, ha insistito il cardinale è urgente e necessario “portare avanti la vera missione che abbiamo ricevuto, ovvero quella di far sì che la causa indigena diventi anche la causa della Chiesa”.

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Scarica qui la sintesi del Rapporto in altre lingue: Inglese - Spagnolo - Francese

Mons. Leonardo Steiner ha affermato che stiamo vivendo “un momento estremamente difficile, perché il Congresso Nazionale ha perso l'orizzonte dell'etica, ma peggio, ha perso la morale, perché pensa di poter imporre certe leggi ai popoli indigeni, dimenticando che c'è una giustizia da cui deve scaturire la legge. Vi è la legge, vi è la giustizia, e la giustizia non coincide con le leggi che vengono elaborate e con tutti i tentativi che sono stati fatti nel Congresso Nazionale”, evidenziando che la Chiesa cattolica è al fianco dei popoli indigeni.

Il rapporto verrà consegnato alle autorità brasiliane e a Papa Francesco, “come testimonianza del servizio che la Chiesa sta svolgendo in Brasile a favore dei popoli indigeni”.

Negazione e violazione dei popoli indigeni

I leader indigeni presenti hanno denunciato la negazione e la violazione dei diritti dei popoli indigeni in Brasile. Vilma Vera ha ricordato che “con molte difficoltà e molta lotta il nostro popolo ha conquistato diversi diritti all'interno della Costituzione Federale”, ha affermato. La situazione di odio e pregiudizio in corso ha spinto la leader indigena a chiedere: “fino a quando il Brasile continuerà ad assistere a questo massacro? Fino a quando il sistema giudiziario brasiliano andrà contro la popolazione indigena, creando e approvando leggi totalmente contrario alla legislazione? Fino a quando assistere alla morte dei nostri parenti?” Poi ha lanciato un appello affinché la giustizia svolga il suo ruolo, la società civile brasiliana aiuti i popoli indigeni e si ponga fine a questo massacro silenzioso, compresa l’uccisione dei bambini, che hanno diritto al loro territorio.

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Lucine Barbosa della Terra Indígena Laranjeira Nhanderu, Mato Grosso do Sul

Il leader indigeno dal 1975, Nailton Muniz del popolo Pataxó Hã-Hã-Hãe, ha raccontato le violenze subite da lui e dal suo popolo in tutto quel tempo, con l’aggravarsi della situazione nel gennaio 2024. A nome del suo popolo, ha denunciato per l’ennesima volta, che “è triste vivere in un Paese che non rispetta la nostra Costituzione” e non garantisce i diritti fondamentali ai popoli indigeni. Ciò che maggiormente preoccupa i leader indigeni, è poter costituire un'organizzazione, unire le forze anche a livello spirituale, in modo tale da ottenere la demarcazione delle loro terre. Di fronte alle continue uccisioni di indigeni e alla mancanza di protezione da parte delle autorità, egli afferma con audacia che “il sistema giudiziario è contro di noi”.

Violenza contro i sostenitori

L'odio e la rappresaglia colpiscono anche i sostenitori e i simpatizzanti degli indigeni, secondo la regista e antropologa Ana Carolina Mira Porto che ha denunciato l'invisibilità della questione indigena   nei mezzi di comunicazione e l'impunità degli attacchi contro i popoli indigeni e i loro sostenitori. Ha parlato apertamente di un genocidio in corso, che sta causando morti, feriti e traumi per molte persone. Per questo ha chiesto l'auto demarcazione, la giustizia e il no al “Marco temporale”, proposta di legge che rende questi popoli ancora più vulnerabili.

* Padre Luis Miguel Modino, comunicazione della CNBB Norte1

Scarica qui la sintesi del Rapporto in italiano

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III Marcia delle donne indigene, settembre 2023. Foto: Maiara Dourado/Cimi

Il Paese a trent’anni dal genocidio. Intervista a don Oscar Kagimbura, segretario generale di Caritas Ruanda

Trent’anni fa, il 16 luglio 1994 viene dichiarata ufficialmente la fine della guerra in Ruanda e di uno dei genocidi che hanno caratterizzato il XX secolo. Forse il più cruento in rapporto al tempo e alla popolazione. In tre mesi morirono tra gli 800 mila e 1,2 milioni di persone su una popolazione di circa 7 milioni per la gran parte uccisi a colpi di machete o mazze chiodate.

La stragrande maggioranza delle vittime erano appartenenti all’etnia Tutsi, ma furono colpite anche non poche persone Hutu o di altri gruppi etnici, perché ritenute troppo moderate verso i Tutsi. Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.

La mattanza, preparata da tempo, iniziò il 6 aprile 1994 con l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana di rientro dalla Tanzania dove si era recato per discutere un accordo di pace per la fine della guerra civile tra i ribelli del Fronte patriottico ruandese (Fpr) di etnia Tutsi e il governo del Ruanda a maggioranza Hutu. I responsabili di quell’attentato sono ancora ignoti. Il conflitto violento tra i due gruppi etnici era iniziato in modo cruento dopo l’indipendenza a causa della politica coloniale belga che aveva esacerbato e formalizzato la divisione etnica tra Hutu (la maggioranza), Tutsi e Batwa per i loro interessi di controllo del potere.

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Don Oscar Kagimbura, segretario generale di Caritas Ruanda. Foto: Italia Caritas

Dopo l’indipendenza iniziò un periodo di discriminazione da parte degli Hutu verso i Tutsi e la reazione dei Tutsi con il Fronte Patriottico Ruandese conflitto che non risparmiò violenze efferate da ambo le parti e diversi eccidi di massa. Il genocidio iniziato il 6 aprile era stato ben preparato nei mesi precedenti con la creazione di gruppi paramilitari, l’acquisto su larga scala di machete da distribuire al momento opportuno, la fomentazione dell’odio etnico tramite una potente propaganda comunicativa. Da questo punto di vista ebbe un ruolo fondamentale la “Radio des Milles Collines” chiamata anche Radio machete.

Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.

La notizia dell’assassinio del presidente Hutu attivò la macchina di morte: entrarono in azione i gruppi paramilitari che insieme alla forze armate regolari iniziarono le uccisioni indiscriminate di tutti coloro che nella carta di identità erano registrati di etnia Tutsi (I belgi avevano introdotto l’indicazione dell’etnia nei documenti di identità). La radio inizio una feroce campagna di incitamento all’uccisione dei Tutsi e degli Hutu che si rifiutavano di brandire il machete.

Anche la Chiesa cattolica locale venne travolta dall’odio etnico in un paese per la gran parte cristiano. Molti cattolici Hutu inclusi membri del clero si macchiarono di violenze o di complicità, altri ne furono vittime. La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte. Solo nel 2021 Emmanuel Macron chiederà perdono per le responsabilità francesi. Il 16 luglio la carneficina si fermò in Ruanda con la cacciata del governo Hutu e con lui di centinaia di migliaia di profughi e la presa del potere del FPR di Paul Kagame ancora saldamente al comando della nazione ruandese dopo trent’anni. Purtroppo però le violenze non terminarono nei paesi vicini, nello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo) in particolare dove si rifugiarono la gran parte degli Hutu in fuga innescando di fatto i conflitti che si susseguirono e una instabilità nella regione dei Grandi Laghi che ancora perdura.

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 Il Genocidio in Ruanda è uno degli eventi più tragici della storia del XX secolo, non solo dell'Africa.

La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte

A trent’anni dalla fine del genocidio perpetrato contro la popolazione Tutsi in Ruanda, cosa resta nella memoria della gente di quanto accadde allora e cosa ne pensano i giovani di oggi?

Dopo il genocidio del 1994, che costò al Ruanda più di un milione di persone, il Paese si è trovato in una situazione disperata, con enormi perdite di vite umane e danni economici e materiali enormi, dovendo ricostruire tutto da zero. Il Paese ha investito molti nella ripresa economica, nella ricostruzione delle infrastrutture e, soprattutto, nella riconciliazione nazionale e nel rimpatrio dei rifugiati.

La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono, un processo difficile ma riuscito che ha gradualmente ristabilito la fiducia, la reciprocità e la condivisione della vita quotidiana tra le famiglie delle vittime e quelle degli autori del genocidio. I giovani – vittime e non – pur non avendo vissuto il genocidio ma soffrendone le conseguenze, in particolare il trauma, hanno avuto l’opportunità (sessioni educative tramite il programma Itorero di cui parlerò dopo e conferenze durante la commemorazione del genocidio) di conoscere ciò che è accaduto e hanno preso l’iniziativa per un futuro migliore. Il governo ruandese e altri attori, tra cui la Chiesa cattolica, in tutti i campi stanno incoraggiando i giovani a essere più resilienti e a partecipare attivamente e positivamente alla ripresa della sfortunata situazione che il Paese ha vissuto.

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 Una cruda immagine del Museo del Genocidio, in Ruanda.

La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono

Dopo la fine del genocidio vi è stato un percorso di pacificazione, quali sono stati gli elementi essenziali e quali risultati ha portato, quali ancora le sfide?

Attraverso il programma Itorero, un modello di educazione alla cittadinanza, all’unità e alla riconciliazione che affonda le radici al sistema educativo pre-coloniale, il governo ha aiutato i giovani a superare le loro prove e a diventare adulti responsabili. I tribunali Gacaca (istituzionalizzazione dei tribunali di comunità tradizionali) hanno permesso di accelerare i processi, non solo dando accesso alla giustizia ai presunti innocenti, ma anche punendo i colpevoli, un modo per alleviare le conseguenze del genocidio per le vittime. Sono stati inoltre istituiti programmi e fondi per aiutare i sopravvissuti al genocidio e le famiglie più vulnerabili, con l’obiettivo di ricostruire le famiglie più indigenti e ricomporre il tessuto sociale. La sfida a lungo termine è quella di guarire dal trauma delle atrocità, un processo che dovrà continuare a lungo.

Qual è la situazione del paese oggi da un punto di vista sociale? Quali i progressi compiuti e quali i problemi più importanti?

I ruandesi vivono in armonia come mai prima d’ora. Gli sforzi di pace e riconciliazione proseguono. I matrimoni tra persone di differenti gruppi sono ripresi e la sfiducia tra le vittime, gli autori del genocidio e i loro figli è diminuita in modo significativo (ripresa delle attività di aiuto reciproco tra famiglie, ecc.). Lo sviluppo del Paese e della sua popolazione è una priorità per tutti. Rimane il problema dei casi isolati di coloro che vogliono continuare ad attaccare le vittime, soprattutto durante il periodo di commemorazione del genocidio, ma anche se non sono molti, dobbiamo continuare a mobilitarci ed educare.

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Le cicatrici del genocidio in Ruanda. Fotografia di James Nachtwey, Ruanda, giugno 1994.

Secondo lei qual è l’insegnamento che oggi il mondo dovrebbe trarre dalla storia del Ruanda?

Ci sono molte lezioni da imparare dalla storia del genocidio in Ruanda, non ultima la volontà delle autorità di promuovere l’unità e la riconciliazione. Tutte le grida di sofferenza, da qualsiasi parte provengano, meritano un’attenzione particolare e le azioni necessarie per preservare le vite umane in pericolo finché si è ancora in tempo. Le persone devono essere al centro di qualsiasi azione che riguardi la loro vita, e il caso della partecipazione delle vittime, degli accusati e della popolazione in generale è una buona lezione da imparare altrove. Gli attori internazionali devono impegnarsi a fondo per sostenere gli sforzi dei rispettivi governi nella partecipazione delle persone e nel loro sviluppo.

* Fabrizio Cavalletti, Italia Caritas. Originalmente pubblicato in: www.italiacaritas.it

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