Il vescovo di Pemba avverte sul ritorno del terrore jihadista a Cabo Delgado: "Tutte le cappelle sono state distrutte"
In un messaggio inviato alla Fondazione ACN (Aiuto alla Chiesa che Soffre) di Lisbona, il vescovo della diocesi di Pemba, monsignor António Juliasse traccia un quadro drammatico della situazione a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, una regione colpita da gruppi armati che affermano di appartenere a Daesh, l'organizzazione jihadista "Stato Islamico".
Il vescovo parla di una "folla immensa" che fugge disperata per evitare di subire "la stessa sorte di coloro che sono stati decapitati o fucilati" negli attacchi già avvenuti "in decine di villaggi", dove tutte le cappelle cristiane "sono state distrutte".
In un emozionante messaggio di cinque minuti, il vescovo descrive tutta la violenza terroristica che ha colpito ancora una volta Cabo Delgado e che sta causando una nuova tragedia umanitaria nella regione, particolarmente nel distretto di Chiúre, il più popoloso della provincia. "La violenza perpetrata in questo distretto nelle ultime due settimane è stata tale che circa una dozzina di villaggi, alcuni molto popolosi, sono stati presi di mira, con la distruzione di case e istituzioni", spiega il vescovo. "In questi villaggi sono state distrutte tutte le cappelle cristiane. Il punto più alto finora è stato l'attacco a Mazeze, la sede amministrativa del distretto di Chiúre, con la distruzione di molte infrastrutture governative e sociali, oltre che della nostra Missione, che forniva sostegno alla popolazione della regione".
Questi attacchi violenti hanno scatenato il panico, con migliaia di uomini, donne e bambini in fuga per salvare la propria vita dirigendosi in luoghi più sicuri.
Esodo della popolazione
Il vescovo di Pemba parla addirittura di un "dramma della fuga", un "autentico esodo della popolazione". Le immagini video riprese con i telefoni cellulari ed inviate alla Fondazione ACN da alcuni cattolici testimoniano proprio questo dramma. Le immagini mostrano centinaia di persone, molte delle quali hanno già cercato rifugio nella vicina provincia di Nampula che durante la notte camminano frettolosamente lungo i bordi delle strade nella regione di Chiúre. Le persone che stanno fuggendo non solo quelle che sono state prese di mira dagli attacchi jihadisti, ma anche quelle che hanno paura per la presenza dei gruppi armati. "Le popolazioni dei villaggi già ridotti in cenere stanno fuggendo, così come quelle dei villaggi che ora rischiano di essere attaccati. Molti stanno prendendo una strada che sanno dove inizia ma non dove condurrà. Stanno cercando un luogo sicuro. Non so dove lo troveranno... forse [solo] il meno pericoloso", dice il vescovo.
Dall'inizio degli attacchi a Cabo Delgado, nell'ottobre 2017, si stima che più di 5.000 persone siano morte e più di un milione siano state costrette a fuggire dalla violenza di questi gruppi terroristici, che, come detto, si dichiarano di appartenere a Daesh, l'organizzazione jihadista "Stato Islamico".
Gente triste e disperata
Nel messaggio audio inviato a Lisbona, Mons. António Juliasse parla di volti "attoniti e tristi", di persone "disperate". "Portano un fagotto sulla testa o l'unica bicicletta di famiglia. È tutto ciò che gli è rimasto. Sicuramente la fame, la sete e le malattie arriveranno presto". Sono persone spaventate che fuggono, cercando di salvare la propria vita, per non avere "la stessa sorte di coloro che sono stati decapitati o fucilati". L'intero messaggio è pieno dell'emozione di chi sta assistendo a uno dei momenti più bui della violenza terroristica in Mozambico. Mons. António racconta anche la triste storia di Tina una giovane madre, nipote di un impiegato della Curia diocesana. Tina è fuggita anche lei portando con sé in braccio solo il bimbo appena nato. "Nel caldo e nella polvere, ha bevuto l'acqua che ha trovato, ha avuto diarrea e vomito ed è crollata. Il piccolo è rimasto senza madre, senza colpa e senza pace...".
"Non possiamo stare a guardare senza fare nulla...".
Le parole di Mons. António riflettono la situazione di gravità che stiamo vivendo e sono anche un campanello d'allarme affinché il mondo si renda conto che Cabo Delgado sta vivendo una vera e propria emergenza umanitaria, essendo al centro di una delle più feroci offensive jihadiste del continente africano, ed è dunque necessario venire in aiuto di queste persone spaventate.
"Il rischio più grande è che questi volti vengano dimenticati a causa di altre guerre nel mondo", afferma il vescovo di Pemba. "Non possiamo assolutamente stare a guardare senza fare nulla", aggiunge. Ma la diocesi può fare poco senza l'aiuto del mondo.
Nel suo messaggio, il vescovo Juliasse chiede ancora una volta di sostenere la Chiesa martire di Cabo Delgado. "Senza la generosità e la condivisione di tutti, non possiamo far fronte alla situazione", e conclude con un ringraziamento speciale a Papa Francesco che domenica (03/03), dopo la preghiera dell'Angelus, ha parlato ancora una volta della violenza terroristica nel nord del Mozambico. "Vorrei cogliere questa occasione per esprimere la mia più profonda gratitudine per la vicinanza di Papa Francesco al popolo del Mozambico e in particolare alla popolazione di Cabo Delgado, durante il suo messaggio dell’Angelus. Il suo discorso è stato per noi come un balsamo, un sollievo immediato, una carezza e un conforto. Accogliamo il suo invito a pregare per la fine delle guerre in tutto il mondo.
* Paulo Aido dell'Agenzia Ecclesia in Portogallo - www.agencia.ecclesia.pt
Dopo l’attacco ad una parrocchia costato la vita ad una decina di persone, il titolare della diocesi colpita e presidente della locale Conferenza Episcopale, racconta la reazione della sua Chiesa: “A chi ci offre proiettili noi porgiamo pace, fede e speranza. L’attentato non è una persecuzione contro i cristiani: si tenta di far passare la falsa idea che ci sia in atto una guerra di religione”. Il grazie al Papa per la sua vicinanza e preghiera
Monsignor Laurent Birfuoré Dabiré conosce un solo modo per reagire a quegli uomini armati che hanno sparato ad alcuni fedeli riuniti in una cappella della sua diocesi mentre erano intenti in preghiera: “L’unica risposta è l’amore, la pace”. Lui è il vescovo di Dori, quella porzione di Chiesa del Burkina Faso che si trova al confine nord del Paese dell’Africa Occidentale e che comprende la parrocchia del villaggio di Essakane nella quale il 25 febbraio scorso hanno fatto irruzione alcuni terroristi che hanno compiuto quella mattanza che ha sconvolto il mondo.
Nella ricostruzione che fa con i media vaticani, il presule - che è anche presidente della Conferenza episcopale locale - mette in evidenza dettagli poco conosciuti di ciò che, forse, potrebbe essere definito un vero e proprio martirio. Quel giorno, di buon mattino, i fedeli si erano recati in parrocchia per la funzione domenicale senza la presenza del sacerdote. Dopo la seconda lettura e la proclamazione del Vangelo, un catechista stava per fare un’esortazione sulla Parola di Dio quando i terroristi sono entrati e hanno iniziato a sparare. “Hanno colpito solo gli uomini risparmiando le donne che sono potute fuggire fuori dalla cappella”, ricorda il vescovo che spiega come “il numero delle vittime sia ancora incerto: testimonianze parlano di 12 morti e 8 feriti ma stiamo aspettando conferme ufficiali”.
Monsignor Laurent Birfuoré Dabiré con dei leader musulmani
Anche se finora non ci sono state rivendicazioni e la strage sembra essere stata ben preparata, monsignor Dabiré è convinto che la motivazione non sia da ricercare nell’odio nei confronti dei cristiani. Il vescovo spiega che questa sua certezza e sostenuta dal fatto che “proprio nello stesso giorno dell’attentato alla parrocchia, in un’altra località del Paese si è consumato un attacco terroristico nel quale è stato ucciso lo stesso numero di persone che ha trovato la morte a Essakane”. La strategia dei terroristi, dunque, sarebbe il tentativo palese di “strumentalizzare le religioni per creare confusione nella nazione, contrapporre le diverse comunità e dare l’impressione che ci sia in corso una guerra di religione. Posso sostenere con certezza che non c’è alcuna persecuzione in atto dei cristiani”.
Pace, fede e speranza, sono i tre sostantivi che il pastore della diocesi di Dori sta usando da giorni per chiedere ai suoi fedeli di continuare a vivere la carità cristiana senza cadere nella tentazione di rispondere con violenza alla violenza. “Noi cristiani - dice - non abbiamo un altro modo di vivere: dobbiamo fondare la nostra vita sul Vangelo. Il nostro relazionarci agli altri deve essere basato sulla fratellanza, sull'amicizia, sull'aiuto vicendevole. Dobbiamo evitare che si dica che noi apparteniamo ad una religione che medita la vendetta. Questo non è vero".
La Chiesa del Burkina Faso – Paese dove la maggioranza è musulmana ed i cristiani si attestano intorno al 30% seguiti dagli appartenenti alle religioni tradizionali africane animiste - sono quasi dieci anni che sta facendo i conti con il terrorismo che blocca le attività di molte diocesi. Monsignor Dabiré informa che “più di 30 parrocchie sono chiuse mentre alcune diocesi come quella di Dori, di Fada N'Gourma, di Nouna e di Dédougou sono paralizzate”. Ma la gente non ha perso la propria fede né la speranza. “La nostra - aggiunge - è una Chiesa rurale, di gente semplice. Le vocazioni non mancano, sono sempre più in crescita. Abbiamo anche una vasta schiera di catechisti che sono capi di piccole comunità di campagna. E poi mettiamo in pratica una fruttuosa pastorale del dialogo con i musulmani ed i responsabili delle religioni tradizionali africane”.
Monsignor Laurent Birfuoré Dabiré insieme al Grande Imam di Dori
Monsignor Laurent Birfuoré Dabiré, infine, ringrazia Papa Francesco che nel post udienza generale di oggi, mercoledì 28 febbraio, è tornato a pregare per le vittime dei recenti attacchi contro luoghi di culto nel suo Paese. “La vicinanza del Santo Padre ci ridona coraggio, forza e ci invita alla perseveranza. Quando i nostri fedeli sentono che il Papa è informato delle loro sofferenze sono davvero rincuorati. È un grande stimolo per andare avanti".
Fonte: Vatican News
Appello all’Angelus per i due Paesi africani. Francesco si unisce alla preghiera di pace dei vescovi congolesi auspicando “un dialogo sincero e costruttivo”, mentre chiede un impegno in Nigeria per arginare “il più possibile” l’aumento dei sequestri di persona. Dal Pontefice vicinanza alla Mongolia colpita da un’ondata di freddo estremo, “segno della crisi climatica”: “Intraprendere scelte sagge e coraggiose per contribuire alla cura del creato”
È uno sguardo intriso di angoscia quello che Papa Francesco rivolge all’Africa, dove aumentano le violenze nella Repubblica Democratica del Congo e dove cresce il numero di persone rapite in Nigeria. Al termine dell’Angelus, il Papa menziona i due Paesi lanciando appelli di dialogo e pace.
Seguo con preoccupazione l’aumento delle violenze nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Mi unisco all’invito dei Vescovi a pregare per la pace, auspicando la cessazione degli scontri e la ricerca di un dialogo sincero e costruttivo
Proprio ieri mattina, 24 febbraio, nella cattedrale di Notre Dame du Congo a Kinshasa, il cardinale arcivescovo Fridolin Ambongo ha celebrato una Messa per invocare la pace nel Paese, al termine della quale ha recitato la “preghiera per la pace”. È l’orazione che i vescovi della Conferenza episcopale nazionale (Cenco) hanno suggerito di pronunciare alla fine di ogni celebrazione eucaristica a partire da domenica 18 febbraio 2024.
Il Paese vede consumarsi intensi combattimenti tra l'esercito congolese e il gruppo armato M23. La città di Sake è uno degli epicentri, colpita nelle scorse settimane da bombe che hanno provocato morti e feriti e che hanno costretto la popolazione a spostarsi per trovare rifugio altrove, in particolare a Goma, nella parte orientale del Paese. Ma pure nel Nord Kiwu proseguono le violenze che hanno costretto oltre 133 mila persone a fuggire, secondo un rapporto Oxfam che denuncia condizioni inimmaginabili per i rifugiati senza un solo bagno a disposizione né acqua potabile, col rischio di ammalarsi di colera e di malnutrizione per i bambini.
Violenze nell'est della Repubblica Democratica del Congo
Una tragedia vera e propria, come quella che si registra in Nigeria, dove, ha detto il Papa dalla finestra del Palazzo Apostolico, “destano apprensione i sempre più frequenti rapimenti”.
Esprimo al popolo nigeriano la mia vicinanza nella preghiera, auspicando che ci si impegni affinché il dilagare di questi episodi sia arginato il più possibile
Il fenomeno dei sequestri nel Paese africano ha visto un drammatico aumento negli ultimi mesi. Dal maggio 2023 e dall’inizio del mandato del presidente Bola Ahmed Tinubu, l’impresa di consulenza sulla gestione del rischio SBM Intelligence ha registrato il rapimento di 3.964 persone. Sono sequestri di massa, come quello nella capitale federale Abuja, dove l’11 gennaio sono state rapite oltre 10 persone, tra cui una 13 enne uccisa per il mancato pagamento del riscatto, oppure sequestri di singole persone o ancora di famiglie, come quella di Mansoor Al-Kadriyar, rapito insieme a sei delle sue figlie e successivamente liberato per potere pagare 50 milioni di naira (35.336 dollari) per il rilascio delle ragazze. Una di queste peraltro uccisa a causa del mancato pagamento della somma richiesta.
Sull’emergenza è intervenuto il Dicastero per l’Evangelizzazione, tramite una lettera a firma del cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto per la Sezione per la prima evangelizzazione, e il segretario nigeriano monsignor Fortunatus Nwachukwu, in una lettera al presidente della Conferenza Episcopale nigeriana. “Nulla può giustificare il crimine del rapimento. Violenze fisiche e torture mentali minano i pilastri dell'armonia civile e sociale”, si leggeva nella missiva, pubblicata dall’Agenzia Fides, nella quale si chiedeva al governo della Nigeria di “agire rapidamente per affrontare questa minaccia e fermare la crisi in atto” e di “adottare misure per proteggere vite umane e proprietà”.
Aumentati i rapimenti in Nigeria
Dall’Africa all’Asia, la vicinanza del Papa va alla Mongolia, Paese centroasiatico che il Pontefice ha visitato nel settembre del 2023 e che ora sta vivendo un inverno particolarmente duro, con le nevicate più intense registrate dal 1975. Il governo di Ulaan Baatar ha riferito di decessi e della perdita di oltre a 660 mila capi di bestiame a causa del freddo intenso e delle tempeste di neve. “Sono vicino pure alla popolazione della Mongolia, colpita da un’ondata di freddo intenso, che sta provocando gravi conseguenze umanitarie”, dice infatti Francesco, sottolineando che “anche questo fenomeno estremo è un segno del cambiamento climatico e dei suoi effetti”. Da qui un altro appello a non dimenticare la nostra Casa comune.
La crisi climatica è un problema sociale globale, che incide in profondità sulla vita di molti fratelli e sorelle, soprattutto sui più vulnerabili: preghiamo per poter intraprendere scelte sagge e coraggiose per contribuire alla cura del creato.
Neve in Mongolia
Fonte: Vatican News
Circa 300 bande controllano l'80% della capitale di Haiti secondo quanto riferito al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite da Maria Isabel Salvador, inviata speciale ONU per il Paese caraibico.
Secondo gli abitanti di Port-au-Prince però le gang controllano di fatto tutta la città. Ma come si è arrivati a questa situazione? Il modello originale per le attuali bande criminali che imperversano ad Haiti sono le milizie dei “Volontaires de la Sécurité Nationale (VSN), tristemente note con il nomignolo di “Tonton Macoutes”, create dall’allora presidente (e di fatto dittatore) François Duvalier nel 1959, come forza paramilitare per sopprimere il dissenso.
Alcuni dei membri più importanti dei “Tonton Macoutes” erano leader vodù. Questo sistema di credenze, praticato da circa la metà della popolazione di Haiti, diede ai “Macoutes” un senso di autorità soprannaturale agli occhi del pubblico, che permise loro di compiere atti orribili senza ritrovare nessun tipo di reazione in seno alla società haitiana, al punto che venivano soprannominati in creolo “bandis legals”. Secondo alcune stime in 28 anni di potere i “Tonton Macoutes” hanno ucciso circa 60.000 persone.
Alla caduta della dinastia Duvalier, con la cacciata del figlio di François, Jean-Claude, nel 1986, i “Tonton Macoutes” vennero sciolti. Così come venne poi sciolto l’esercito regolare da parte di Jean-Bertrand Aristide, il primo presidente regolarmente eletto nel 1990 dopo un periodo di transizione. Aristide venne deposto da un golpe militare ma fu poi rimesso al potere grazie a un intervento militare promosso dall’ONU. Quando Aristide venne deposto i vecchi Tonton Macoutes” diedero vita a bande note come “attaché”, al servizio di altri gruppi criminali o di politici senza scrupoli.
Una volta reinstallato alla presidenza nel 1994, Aristide decise di sciogliere l’esercito e riformare la polizia civile. Diversi ex militari aderirono però alle bande criminali che si erano nel frattempo formate. Lo stesso Aristide venne poi accusato di aver creato una sua milizia (le “Chimères”) nei primi anni 2000 per sostenere la propria parte politica. In effetti i diversi attori politici si dotarono di proprie milizie armate. La creazione di gang criminali si intrecciava con i traffici di cocaina provenienti da Colombia e Venezuela e diretti negli USA che facevano tappa nell’isola di Hispaniola (che comprende Haiti e la Repubblica Domenicana).
Il livello di fame continua a peggiorare, con 4,9 milioni di haitiani in condizioni di grave insicurezza alimentare. Foto: FAO/Justine Texier
Successivamente la maggior parte dei traffici passanti per la rotta caraibica si sono diretti via terra lungo il confine tra Messico e Stati Uniti, ma non si sono arrestati del tutto. Le connessioni create con gli Stati Uniti dai traffici illegali e quelle legate alla diaspora haitiana negli USA hanno successivamente contribuito ad avviare importanti flussi di armi da fuoco dal Nord America al Paese caraibico, a beneficio dei numerosi gruppi armati in via di formazione. Aristide venne poi di nuovo deposto nel 2004 quando bande paramilitari formate da gang locali ed da ex militari ed ex poliziotti esiliati a Santo Domingo assalirono Port-au-Prince.
A capo dei paramilitari c’era l’ex leader della Front Révolutionnaire Armé pour le Progrès d'Haiti (FRAPH), il principale gruppo paramilitare che agiva tra il 1990 e il 1994. Aristide venne “scortato” fuori dal Paese da militari statunitensi e canadesi, con una operazione da lui definita “un nuovo colpo di Stato”. Nonostante il dispiegamento di una forza ONU, la situazione della sicurezza non ha fatto che peggiorare. Il terribile terremoto che ha colpito Haiti nel 2010 ha reso ancora più precarie le condizioni di vita della popolazione, allargando il bacino di reclutamento delle gang che non fanno altro che proliferare.
Le gang si disputano il controllo degli assi viari della capitale e dei principali porti dai quali passano merci legali e illegali (in primis le armi), taglieggiando la popolazione vittima di una vera e propria “industria dei sequestri”. Tra le vittime vi sono pure sacerdoti e religiosi, come le sei suore della Congrégation des Sœurs de Sainte-Anne, rapite il 19 gennaio e in seguito liberate.
L’uccisione del Presidente Jovenel Moïse, il 7 luglio 2021 da parte di un commando di mercenari colombiani e statunitensi di origine haitiana ha aggravato ancora di più l’insicurezza, accrescendo il potere delle gang. (L.M.)
Fonte: Agenzia Fides
Post su X di @Pontifex nella Giornata di commemorazione delle vittime dell’Olocausto: "Il ricordo e la condanna dell’orribile sterminio di milioni di persone ebree e di altre fedi, avvenuto nel secolo scorso, aiuti tutti a non dimenticare che la logica dell’odio e della violenza non si può mai giustificare, perché nega la nostra stessa umanità. #WeRemember". Un nuovo appello che si aggiunge agli altri già lanciati dal Pontefice perché il mondo non dimentichi l'orrore: un video per ricordarli.
Fonte: Vatican News