Sof 3, 14-18; Is 12; Fil 4, 4-7; Lc 3,10-18
La venuta del Messia deve essere motivo di molta gioia, ma anche di molto impegno. Mentre la prima e la seconda Lettura ci propongono il tema della gioia dell’incontro con il Messia, nel Vangelo di Luca, Giovanni Battista risponde alla domanda che cosa dobbiamo fare affinché l’incontro con il Messia sia un incontro gioioso, porti davvero “la gioia del Vangelo”.
Giovanni risponde proponendo l’esercizio della carità, della giustizia e della rettitudine nell’adempimento del nostro dovere.
Nella prima lettura, il profeta Sofonia, descrive la situazione di un piccolo gruppo di poveri e di fedeli che si sono convertiti, allontanandosi dall’idolatria, dalla superbia, dall’orgoglio e dall’autosufficienza, abbandonandosi all’amore misericordioso di Dio, alle sue disposizioni e volontà. Sofonia si rivolge dunque a questo resto d’Israele, agli anawîm i poveri del Signore, coloro che non si affidano alle proprie forze, ma pongono la loro fiducia in Dio. È a questi poveri del Signore che il profeta rivolge un invito insistente alla gioia: “rallegrati, grida di gioia, esulta e acclama con tutto il cuore …”.
Motivo di gioia è che Dio abita in mezzo al suo popolo, combatte a suo favore. E’ una gioia di salvezza, non una qualsiasi gioia, è la gioia di chi si è allontanato dall’idolatria, dalla superbia, dall’orgoglio e dall’autosufficienza per aprirsi a Dio accogliendo il suo progetto nella propria vita e andando verso gli altri. Possiamo dire che il vero motivo della nostra gioia e felicità è il fatto di sentirsi amati, perdonati e accolti da Dio.
Il profeta sottolinea nel contempo che questa gioia è reciproca: Dio anche gioirà per il suo popolo con il quale mantiene una buona relazione, finalmente un Dio che è felice per noi e con noi. Il profeta sottolinea tutto ciò con tre verbi: esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia come nei giorni di festa. Il Signore stesso è felice perché sarà lui stesso a rinnovarci con il suo amore. Se l’amore è vita, Dio ci rinnova con la sua stessa vita che è Gesù. La venuta di Gesù, in mezzo a noi, rinnoverà la nostra vita e il nostro amore.
Il testo evangelico è la continuazione del brano della seconda domenica che parlava della predicazione di Giovanni Battista. Infatti, Luca afferma all'inizio che “Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”. Giovanni Battista stava preparando il popolo per l'imminente venuta del Messia, con tale predicazione, fa breccia nel cuore dei suoi uditori. Luca riporta per ben tre volte la stessa domanda “cosa dobbiamo fare” posta da tre tipi di persone e realtà diverse. Si deve notare come la domanda che fare? Sia cara a Luca e mostri come la gioia del Vangelo debba diventare vita concreta e si traduca in una fattibile e reale condotta di vita. Infatti, i primi convertiti, dopo la Pentecoste, chiedono a Pietro “che cosa dobbiamo fare, fratelli?” Anche Paolo dopo l’incontro con il Risorto, aveva chiesto: “che devo fare, Signore?”.
Giovanni, nella sua predicazione, invita il popolo a tornare alla santità attraverso la metanoia, il cambiamento di comportamento, una conversione di vita. Questa proposta di conversione innesca nelle coscienze degli ascoltatori l'ardente desiderio di un modo nuovo e concreto di agire e di amare secondo l'azione stessa di Dio. Che cosa dobbiamo fare? La domanda su “che cosa fare” è esistenziale e concreta. Giovanni, rispondendo alla folla, ai pubblicani e ai soldati, elenca azioni molto umane e concrete che devono essere fatte: carità, giustizia e la rettitudine nell’adempimento del dovere.
Le folle per prime pongono la domanda, il Battista esorta a vivere la solidarietà con i più poveri, non nella forma della comunione dei beni, ma come un invito a rinunciare al superfluo e consegnarlo ai più bisognosi. Gesù dice: “chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Per Giovanni, come in tutta la tradizione biblica, i beni della terra sono a disposizione di tutti e sono per il benessere di tutti e dunque si devono con-dividere.
Il secondo gruppo sono i cosiddetti pubblicani, esattori delle tasse per l'Impero Romano, assai disprezzati dal popolo perché molti i corrotti. A questi Giovanni propone di “non esigere nulla di più di quanto vi è stato fissato” cioè il rispetto, l'esercizio della giustizia, devono chiedere ciò che è giusto senza arricchirsi ingannando gli altri.
Infine, sono i soldati a chiedere “e noi, che cosa dobbiamo fare?”. A loro Giovanni dice di non approfittare della loro situazione per maltrattare gli altri, di evitare ogni abuso e non cadere nella seduzione della cupidigia e della violenza.
Giovanni Battista non impone cose straordinarie, ma l'esercizio della carità, della giustizia e della rettitudine nell'adempimento del proprio dovere: l'impegno per le cose reali e quotidiane. Giovanni non chiede di rinunciare alle proprie professioni o classi sociali, ma di vivere onestamente in modo nuovo, perché con cuore e mente illuminati dalla luce del Vangelo. Questo è ciò che chiede anche a noi: la conversione passa anche attraverso quei piccoli gesti quotidiani, che possono assurgere a valore salvifico.
Il discepolo missionario è consapevole che occorre convertirsi, bisogna cambiare direzione di marcia e intraprendere la strada della giustizia, della solidarietà, della sobrietà e dell’onestà che sono, come ha detto Papa Francesco, i valori imprescindibili di una esistenza pienamente umana e autenticamente cristiana. La conversione è la sintesi del messaggio del Battista.
Realizziamo un piccolo presepe memoria di tutti i natali che si sono succeduti nella storia. È bene tornar bambini qualche volta e non vi è miglior tempo che il Natale, allorché il suo onnipotente fondatore era egli stesso un bambino. (Charles Dickens). Proseguiamo insieme il cammino dell’Avvento.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
La festa dell’Immacolata Concezione ci fa contemplare il grande mistero dell’Incarnazione del Verbo del Padre dalla prospettiva della Vergine Madre, colei che ha saputo e potuto spalancare le porte al desiderio di salvezza di Dio per ogni uomo.
La particolare condizione di Maria, fin dal suo concepimento, non è un dato teologico contenuto esplicitamente nelle Scritture, ma il frutto di una riflessione maturata senza soluzione di continuità lungo i secoli nell’intelligenza credente del popolo di Dio.
La concezione senza peccato di Maria va compresa come una libera iniziativa di Dio Padre in relazione al dono del suo Figlio unigenito per la salvezza del mondo. Nella vergine di Nazaret possiamo contemplare con un largo anticipo, nella carne di una creatura umana, gli effetti della redenzione di Cristo che si sarebbero manifestati pienamente nella sua Pasqua eterna. Per cogliere tutto lo spessore di questa mirabile iniziativa divina, occorre partire da quel momento drammatico che la nostra tradizione ha definito “peccato originale”, cioè quando l’uomo ha cominciato a nutrire paura nei confronti del suo Creatore: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10).
Per salvare l’essere umano precipitato nell’abisso del sospetto, Dio ha dovuto fare i conti con la necessità di dialogare con un cuore semplice, in cui la sua parola avrebbe potuto trovare ascolto e dimora. È molto importante cogliere questa premessa, perché la condizione di Maria non sia compresa all’insegna del privilegio, ma della piena solidarietà con l’Adamo decaduto dall’amicizia con Dio a causa del peccato: «O Padre, che nell’Immacolata concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato [...]» (cf. Colletta).
Dio, quindi, non ha concesso uno speciale favore a Maria creandola senza peccato, ma ha cominciato a fare con lei quanto desidera operare con tutti: elargire gratuitamente il suo sommo bene, per far conoscere al nostro cuore spaventato e smarrito la grandezza del suo amore, che strappa la nostra vita dalla solitudine e dal peccato. D’altra parte, se è vero che solo Maria è stata scelta per essere la Madre del Signore, è altrettanto vero che tutti siamo stati «scelti» da Dio «prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4).
Dal vangelo di Luca possiamo intuire come la tenebra cancellata dal cuore di Maria sia, in fondo, la più velenosa e nascosta delle paure: il timore di non essere in grado di ascoltare e fare la volontà di Dio. Nel percorso dell’Annunciazione, Maria si rivela una creatura segnata dal timore di fronte all’Altro, eppure serenamente aperta e capace di lasciarsi condurre oltre se stessa: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» (Lc 1,34).
La proposta di Dio è immensa, audace. Eppure, il cuore della Vergine scopre di poter restare in piedi di fronte all’angoscia della morte, sentendosi al sicuro nel disegno di amore dell’Altissimo, al riparo della «sua ombra» (1,35). Per questo non può che concludere il suo dialogo con la volontà del Padre abbracciando con gioia ed entusiasmo quanto le è stato appena proposto:«Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
Il cuore immacolato di Maria non si rivela solo nella capacità di aderire all’inaudito progetto di Dio, ma anche nella libertà di non esigere da Dio altro se non il rispetto della propria partecipazione all’universale disegno della salvezza: «E l’angelo partì da lei» (1,38). Dopo l’Annunciazione, la «piena di grazia» diventa vuota di privilegi, umile custode del grande destino di ogni essere umano: «il Signore è con te» (1,28).
Per sua intercessione, ogni discepolo di Cristo può tornare a desiderare la liberazione «da ogni colpa» (preghiera sulle offerte). Soprattutto la guarigione del cuore che si ostina a temere e a tremare, anziché consegnarsi alla realtà della vita nuova in Cristo, nella speranza che «nessuna parola da parte di Dio sarà impossibile» (cf. Lc 1,37).
* Roberto Pasolini è Frate minore cappuccino. Originalmente pubblicato in: www.nellaparola.it
Ger 33, 14-16, Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21, 25-38.34-36
La teologia dell'Avvento ruota attorno a due prospettive principali: è tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, e, contemporaneamente, è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene accompagnato nell'attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.
Il tempo dell’Avvento è strettamente legato a quello dell’attesa per eccellenza: quella di Maria, ma anche quella di ogni madre, l’attesa di un figlio confortata e rafforzata dalle parole del Salmo “prima di formarti nel grembo di tua madre, Io ti conoscevo” e dunque il Natale è la fine dell’attesa è il giorno pieno di speranza e di promesse racchiuse in un vagito.
Tempo di attesa del ritorno di Cristo, conversione e speranza nella salvezza da parte di un Dio che non si limita a rimanere “nell’alto dei Cieli”, ma è sceso tra di noi, siamo invitati ad orientare la nostra mente e il nostro cuore verso di Lui che viene per risvegliare in noi la sua volontà di amore e di pace.
In questa prima domenica le Letture sono centrate sull’annuncio della venuta del Signore. Mentre la prima richiama la nostra attenzione sulla prima venuta del Signore, “Signore-nostra-giustizia”, come realizzazione delle promesse del bene che il Dio dell’Alleanza ha fatto al suo popolo; la lettera di Paolo ai Tessalonicesi e il Vangelo di Luca, parlando della seconda venuta del Signore, ci invitano a prepararci: i nostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, in sprechi di energie, ubriachezze, in stordimenti e negli affanni della vita quotidiana.
Le parole profetiche che impregnano il testo di Geremia non sono solo un annuncio del futuro “verranno giorni” ma la realizzazione di una promessa che diventa il presente della storia della salvezza perché trovano la loro realizzazione nella nascita di Cristo.
Il nostro autore usa il verbo germogliare che è un verbo che fa pensare alla nascita del Messia poiché il verbo “germogliare” contiene in sé un forte riferimento messianico. Infatti, dirà “farò germogliare per Davide un germoglio giusto”. Si annuncia dunque la realizzazione della promessa di un germoglio dalla stirpe di Davide che regnerà sul popolo nella pace e nella giustizia, Egli sarà chiamato “Signore-nostra-giustizia” e la sua missione sarà quella di realizzare/concretizzare il mondo di giustizia e di pace, Egli eserciterà la giustizia sulla terra, creerà nuovi rapporti tra gli uomini, quei rapporti di solidarietà, di pace, appunto di giustizia. Una giustizia che non viene da noi uomini ma una giustizia di Dio e sarà la caratteristica fondamentale del regno messianico instaurato dal germoglio: sarà la giustizia della croce, quella che assume su di sé i peccati del mondo. Tutto questo si realizzerà in Gesù: è Lui la nostra giustizia.
Paolo, per prepararci a questo regno di giustizia, ci esorta non solo a crescere nell’amore ma soprattutto ad abbondare “per rendere saldi i nostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”.
Queste letture invitano a prepararci ad accogliere Qualcuno che ci insegna ad amare e che, soprattutto, ci indica ciò che può strappare (o peggio cancellare!) il senso dell’amore dentro di noi. Con la sua venuta, Cristo ci ricorda l’importanza di amare, di fare spazio nel nostro cuore a Dio, alla sua parola, all’accoglienza senza se e senza ma del nostro fratello, delle persone in difficoltà, di coloro che sono immersi nelle tenebre e nell’angoscia della propria vita.
Il brano del Vangelo di Luca fa parte del così detto “discorso escatologico” dove Gesù parla della fine dei tempi. In un futuro non precisato, prossimo o remoto, immediato o distante, appariranno una serie di segni cosmici che annunceranno il trionfo imminente e definitivo del Regno di Dio. Per Gesù, l’apparire di tali fenomeni cosmici “segni nel sole, nella luna e nelle stelle”; “Il fragore del mare e dei flutti”; “le potenze dei cieli saranno sconvolte”, non è per generare paura, ma sono segni della sua seconda venuta. L'obiettivo principale di questo linguaggio è quello di animare la fede e la speranza dei discepoli, questa è infatti la domenica della speranza.
Luca descrive il Figlio dell'uomo che verrà su una nube con grande potenza e gloria. La nuvola è, nella letteratura biblica, segno della presenza di Dio. Di fronte a questa venuta, non dobbiamo avere paura, dobbiamo accoglierla con speranza, dobbiamo alzare la testa, non nasconderci, perché la nostra liberazione è vicina.
Davanti alla venuta del Signore non bisogna essere atterriti, spaventati, cedere oppure scomparire ma bisogna essere risollevati. “Risollevatevi e alzate il capo”, dice Gesù, il quale invita a stare in piedi, questo è l'atteggiamento e la posizione di un uomo libero e senza paura, di uno che sente di stare davanti a suo Padre e non davanti a un giudice spietato che cerca solo la sua condanna. Dio Padre cercherà sempre di essere a favore dell’uomo e cercherà in ogni modo di entrare in comunione con lui. Gesù invita a levare il capo per non rimanere sempre chiusi nelle nostre idee, nelle nostre ristrette visioni, questo modo di essere non ci impedisca di vedere oltre il proprio orticello, ma ci spinga a guardare in faccia la realtà che ci sta davanti ed assumerci la nostra responsabilità. Gesù invita ad avere un orizzonte più ampio che inquadra tutta la realtà, dobbiamo alzare la testa per vedere l’altro chi ci è accanto e chi ci è lontano, chi ci è davanti e chi ci viene incontro.
La seconda esortazione di Gesù è quella di non avere il cuore ottenebrato, perché appesantito da: dissipazioni, ubriachezze ed affanni della vita. Questi elementi sono tipici di chi è centrato su se stesso e si crogiola in ubriachezze e affanni. Non ubriacarsi del mondo. Gesù ci esorta a non farci distrarre dalle cose che non sono necessarie, ma piuttosto a concentrarci su ciò che ci fa crescere.
Infine, Gesù invita a pregare in ogni momento e a privilegiare tempi e luoghi sacri per una lettura orante della Parola di Dio, perché “cielo e terra passeranno, ma le sue parole non passeranno”.
“Uno dei temi più suggestivi del tempo di Avvento” è «la visita del Signore all’umanità», aveva spiegato papa Francesco nel suo primo Angelus d’Avvento in piazza San Pietro invitando alla «sobrietà, a non essere dominati dalle cose di questo mondo, dalle realtà materiali» Tema quanto mai attuale in un tempo come il nostro segnato da difficoltà sociali: nella famiglia, il rapporto con i figli, il ruolo della donna, la politica sentita distante e incapace di risolvere i problemi, l’ economia: mancanza di lavoro e la sua precarietà.
Il discepolo missionario attende Gesù essendo vigilante, come ha esortato Papa Francesco “pregare, attendere Gesù, aprirsi agli altri, essere svegli, non chiusi in noi stessi.” Ma se noi pensiamo al Natale in un clima di consumismo, di cercare cosa acquistare, di fare questo e quest’altro, di trasformare il tutto in una triste, inutile, amara festa mondana, ancora una volta Gesù passerà e non lo troveremo. Noi attendiamo Gesù e lo vogliamo attendere con speranza e gioia nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza. Buon Avvento.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Solennità di Cristo Re dell’Universo e 39° Giornata Mondiale della Gioventù
Dn 7, 13-14; Sal 92; Ap 1, 5-8; Gv 18, 33-37
Le letture dell’ultima domenica dell’anno liturgico, Solennità di Cristo Re dell’universo, sono centrate sulla regalità di Cristo. Nella pagina evangelica è ben chiaro che Gesù è Re ma che il suo regno, non essendo di questo mondo, ha un obiettivo preciso: rendere testimonianza alla verità.
Con linguaggio profetico, Daniele contempla “uno simile al figlio d’ uomo” che riceve potere da Dio. L’Apocalisse, invece, sottolinea che questo potere regale di Cristo ci viene comunicato per amore: Cristo Re “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”.
La “visione” descritta da Daniele fin da Dn 7,1 trova il suo apice con l'apparizione di uno simile a figlio d’uomo figura in cui si compendiano i tratti del Messia che verrà a stabilire il regno di Dio sulla terra. È Gesù che nei Vangeli usa questo termine di “figlio d’uomo” e lo applica a se stesso. Da questa profezia si possono sottolineare quattro aspetti della regalità del figlio d’uomo: il potere del “figlio d’uomo” non solo viene da Dio ma anche gli appartiene; ha un carattere universale poiché destinato a “tutti i popoli, nazioni e lingue”; non tramonta mai è eterno ed infine non sarà mai distrutto.
Queste quattro caratteristiche sono la vera sintesi di ciò che Gesù voleva sottolineare dicendo “il mio regno non è di questo mondo”. È un regno di amore perché viene da Dio e a Dio appartiene: è un regno di amore perché Dio è amore e vuole stabilire il suo regno di amore.
Questo regno e potere che vengono da Dio vengono comunicati all’umanità attraverso Gesù, re dell’universo. Attraverso la sua morte, Egli ha fatto di noi “un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”. Gesù ci ha introdotto in una nuova dinamica di vita, ci ha avvicinate a Dio e ci ha invitati a diventare parte della famiglia di Dio, del nuovo regno che è un regno di verità.
Il Vangelo ci presenta una scena del processo-interrogatorio di Gesù davanti a Ponzio Pilato, il governatore romano della Giudea. L'incontro faccia a faccia di Gesù con i capi giudei aveva già avuto luogo, in particolare con Anna. Questo interrogatorio inizia con una domanda diretta posta da Ponzio Pilato “Sei tu il re dei Giudei?”. Tale inizio rivela quale fosse l'accusa portata dalle autorità ebraiche contro Gesù: aveva pretese messianiche; intendeva restaurare il regno ideale di Davide e liberare Israele dagli oppressori.
Gesù, spogliato ed umiliato, risponde senz’ambiguità, si proclama e si riconosce quale re: “tu lo dici: io sono re” ma prima di proclamarsi re, aveva chiarito che il suo regno non era di questo mondo. Affermando che il suo regno non è di questo mondo Gesù vuole sottolineare anche, come diceva il biblista De La Potterie, “la regalità di Cristo non si fonda sui poteri di questo mondo e non è minimamente ispirata a questi. È una sovranità nel mondo, ma che si realizza in maniera diversa dal potere terreno e attinge la sua ispirazione da un’altra fonte”.
Bisogna avere il coraggio di Gesù nel dire che il suo regno non è di questo mondo e si contrappone a Pilato e a coloro che l’hanno accusato e condannato. Non è un regno circondato da soldati, dunque non è un regno di guerra il cui potere si nutre di violenza e produce morte; il suo regno non ha come obiettivo il vincere ma il servire e l’ amare. Infatti, Egli non si impone con la forza ma è venuto incontrare agli uomini per servirli; non cerca i propri interessi ma obbedisce in tutto alla volontà di Dio suo Padre; si preoccupa in amare, infatti, si proclama re in un processo interrogatorio che lo porterà alla morte in croce: il suo trono. L’abbiamo sottolineato all’inizio, con la prima e la seconda lettura, che la regalità di Cristo è di un altro ordine, l'ordine di Dio. È una regalità che tocca i cuori e che, invece di produrre oppressione e morte, produce vita e libertà.
Il suo regno è un regno di verità e la sua missione è rendere testimonianza alla verità, cioè, condurre gli uomini alla Verità suprema, liberandoli da ogni tenebra di errore e di peccato: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Gesù un giorno aveva detto "Io sono la Verità, la Via, la Vita"; Io sono la Verità che Conduce alla Vita... E perciò "chiunque é dalla Verità ascolta la mia voce".
Per Gesù, la verità si testimonia e Lui dice di essere venuto: “per dare testimonianza”. Tutta la sua vita, il suo operare, il suo vissuto, sintetizzato nel termine “amore” è un atto di testimonianza. Passando in questo mondo e facendo null’ altro che del bene Gesù diventa testimone: «è il testimone fedele» per eccellenza. La sua vita è un dono della verità, in lui la verità si manifesta come dono: «dare» testimonianza.
Il discepolo missionario sa che Dio è amore e vuole stabilire nel mondo il suo regno di amore, di giustizia e di pace. Questo è il regno di cui Gesù è il re e che si estende fino alla fine dei tempi. Sa inoltre che il regno di Dio è verità e che la nostra missione è quella di dare la testimonianza alla verità con la nostra stessa vita.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
VIII Giornata Mondiale dei Poveri. "La preghiera del povero sale fino a Dio" (cfr. Sir 21,5)
Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10, 11-14; Mc 13,27-32
La liturgia della Parola di questa domenica che è la penultima dell'anno liturgico ci invita “a ravvivare la speranza e a renderci operosi nella carità, mentre attendiamo la gloriosa manifestazione del Figlio dell’uomo”. Tale manifestazione marcherà un cambiamento: dalla situazione dall’angoscia, persecuzione e scoraggiamento si passerà al tempo della liberazione e della salvezza.
Quest’è la nostra speranza. E poiché “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, il popolo di Dio è chiamato a rimanere fedele alla Parola di Dio nonostante la persecuzione e la prova. La sola cosa che non passa è la vita nuova trasmessa da Gesù: quella del Vangelo.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Daniele, si parla di un tempo di “angoscia, come non c'era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo” ma questa è una situazione di transitorietà per chi è fedele al Signore. Infatti, il profeta afferma che sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del popolo di Dio e saranno salvati tutti quelli che sono scritti nel grande libro.
I saggi avranno il merito di essere inserito in quel grande libro. Per il Profeta, i saggi sono coloro che si impegnano, nella vita giornaliera, all’osservanza della Parola di Dio. Questa Parola è, per i saggi, il centro di riferimento di capitale importanza nella loro vita quotidiana. Loro osservano la Parola di Dio non per obbligo nemmeno per paura, ma sono convinti che in essa si trova il vero senso profondo della vita. È la Parola di Dio che soddisfa la loro crescita personale nella fede. Essi, dunque, perché illuminati dalla Parola, “risplenderanno come lo splendore del firmamento (…) come le stelle per sempre”. Il loro splendore induce “molti nella giustizia”, ossia nella corretta pratica della Parola di Dio. I giusti, nonostante la persecuzione e la sofferenza, rimangono fedeli a Dio e ai suoi valori, sono destinati alla “vita eterna” ad una vita trasfigurata.
La stessa situazione di transitorietà di cui si è parlato nella prima lettura, caratterizza pure la narrazione del Vangelo. In esso, Gesù, similmente, annuncia catastrofi transitori: “in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”. Ma allora si manifesterà il Figlio dell’uomo che “manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti”. Gesù invita ad avere gli occhi aperti e il cuore vigilante. Ci chiede di apprendere l'arte della lettura di tutti i segnali della sua venuta: “così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte”.
Però, mentre Gesù ci invita a sapere leggere i segni dei tempi, ci lascia allo stesso momento condizione dell’incertezza: non siamo in grado di sapere e di precisare il giorno e l’ora. Questa situazione dell’incertezza deve risvegliare in noi la vigilanza e perciò dobbiamo impegnarsi.
In questa situazione di transitorietà in cui anche i cieli e terra passeranno, Gesù ci invita non solo ad essere vigilante ma anche a sapere aggrapparsi non alle cose che passano ma all’unica certezza: la Parola di Dio. Essa, infatti, non solo resterà valida per sempre ma ci dà coraggio e forza ad affrontare qualunque avversità della vita. Questa Parola non perderà mai la sua forza di salvezza e così continuerà ad alimentare la nostra speranza, perché aspettiamo “cieli nuovi e terra nuova”.
Il discepolo missionario è colui che sa attaccarsi alla Parola di Dio poiché impressa nel suo cuore, come i dieci comandamenti furono scolpiti nelle tavole. Niente deve essere in grado di cancellarle.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.