Introducendo la liturgia con la seguente antifona d'ingresso: “rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l'amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell'abbondanza della vostra consolazione”  (cf. Is 66,10-11), ci troviamo nell’ambiente della gioia che è elemento caratteristico della IV domenica di Quaresima, appunto domenica della gioia. Gioire perché Dio è amore e ricco di misericordia, il suo amore verso di noi è la sorgente della nostra gioia. La chiave di lettura è dunque la significativa affermazione di Gesù: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”

Rallegrarsi perché Dio è ricco d’amore e misericordia

Il brano biblico tratto dal libro delle Cronache ci narra la storia drammatica del popolo di Israele che consiste nella distruzione del tempio e la deportazione del popolo di Israele verso Babilonia, terra di schiavitù. Viene sottolineata l’infedeltà da parte del popolo di Israele per avere dimenticato tutto quanto Dio è stato per loro a lungo la loro storia più antica a quella più recente. L’infedeltà del popolo è la causa della rottura relazionale tra Dio e il suo popolo, il quale moltiplica la sua infedeltà imitando gli abomini di quelli che non conoscono Dio. Il male, dunque, consiste nell’imitare gli altri che si sono creati delle divinità di comodo, fatte su misura d’uomo, quello che funziona a chiamata, fa da tappabuchi e viene invocato e utilizzato in base alle necessità. Questo è anche il male che colpisce la nostra società che si allontana del Dio vero per imitare altre genti che si sono create divinità di comodo.

Dall’altra parte, invece, ci troviamo davanti un Dio che non si arrende mai: la sua essenza è amore e misericordia. Ed è a motivo del suo amore che si ricorda del suo popolo e suscita, in mezzo a esso, degli istrumenti salvifici. Infatti, “il ricordo del Signore, è la gioia per il suo popolo”. Dio che è amore e misericordia, rimane fedele alla sua promessa e si ricorda sempre del suo amore. Manda dei profeti, ma il popolo, infedele, indurisce il cuore ed è resistente a tutti i richiami. Sono stati capaci di beffare i messaggeri di Dio, disprezzare le loro parole e schernirli.  Per tale motivo hanno una vita disperata e triste perché schiavi delle loro divinità di comodo. È impressionante che mentre il Suo popolo si dedica ad imitare altri popoli, causa della loro rovina, Dio è colui che si ricorda della sua essenza e questo ricordare Lo fa agire con amore e misericordia andando incontro al Suo popolo.  Paolo afferma “Dio è ricco di misericordia” e ci ha fatto rivivere con Cristo, da morti che eravamo per le nostre colpe. La bontà e la gratuità di Dio è fonte della nostra gioia e salvezza.

Alzare lo sguardo sulla croce di Gesù per avere la vita e la gioia

Parlando del serpente, Gesù fa riferimento alla narrazione di Nm 21,4-9, il popolo si trovò davanti ai serpenti velenosi, inviati da Dio a causa della loro infedeltà. In questa situazione, il popolo chiese al Signore di allontanare i serpenti. Allora, il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita. Così, il popolo che era accecato e che guardava solo in basso e alle cose materiali che li distraevano da Dio e causato infedeltà, era chiamata ora ad alzare lo sguardo verso alto, verso Dio che è vita e fonte di vita. Il popolo era chiamato ad avere l’atteggiamento del salmista che afferma: “alzo gli occhi verso il Signore (i monti), perché Egli è il nostro aiuto e la nostra salvezza ed è Lui che ha fatto il cielo e la terra.”

Gesù parlando della sua passione, fa riferimento a questo episodio per dire che bisogna che Egli sia innalzato in croce per essere messo in un punto verso cui tutti devono alzare lo sguardo per avere la vita. È guardando Gesù in croce che scopriamo il vero senso della sua vita: dare la vita per gli altri: morire per gli altri. La croce è segno dell’amore di Dio verso l’umanità, occupata a guardare in basso e alle cose materiali, ma che è invitata a guardare la croce per avere la vita e la gioia.  Dev’essere uno sguardo di fede, dobbiamo credere in lui poiché chi crede ha la vita eterna, non viene condannato ma salvato ed ha la vita. Questa è la vera gioia. Contemplare la misericordia e l’amore di Dio.

Il discepolo missionario è colui che è capace di alzare lo sguardo sulla croce di Gesù per imparare e vivere ciò che essa significa, come ha ben detto Papa Francesco: “Bisogna sempre «guardare la croce di Gesù, ma non quelle croci artistiche, ben dipinte»: guardare invece «la realtà, cosa era la croce in quel tempo». E «guardare il suo percorso», ricordando che «annientò se stesso, si abbassò per salvarci». Anche questa è la strada del cristiano. Infatti, se un cristiano vuole andare avanti sulla strada della vita cristiana deve abbassarsi, come si è abbassato Gesù: è la strada dell’umiltà che prevede di portare su di sé le umiliazioni, come le ha portate Gesù. 

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Es 20,1-17
Sal 18
1Cor 1,22-25
Gv 2,13-25

Nella liturgia della III Domenica di Quaresima (B) viene sottolineato il vero culto che l’uomo può fare: non agli idoli ma a Dio. Ecco perché Gesù caccia quelli che avevano trasformato la casa del padre in luogo di commercio, luogo degli idoli.

Non ti prostrerai davanti agli idoli

Dio, il creatore, cerca sempre di costruire una relazione d’amore con i suoi figli. Egli rivendica, infatti, una relazione tra un “Io” e un “tu”: “Io sono il Signore, tuo Dio”. Una relazione di paternità che ha come conseguenza la liberazione dalla condizione servile dal peccato. Ecco perché Dio detterà le norme e le regole per vivere in modo completo tale relazione, darà all’uomo i dieci comandamenti, che conosciamo a memoria fin dalla più giovane età.

È essenziale sapere che Dio vuole essere il punto di riferimento fondamentale nella vita del suo popolo, essere il centro intorno al quale tutta l’esistenza umana gira. Nessuno può occupare il posto di Dio nel cuore e nella storia del suo popolo: “Io sono il Signore, tuo Dio, non avrai altri dèi di fronte a me”. Ecco perché Dio proibisce all’uomo di costruire idoli, immagini, di prostrarsi e tanto meno di servirli. Infatti, all’inizio del cammino quaresimale, tempo cosiddetto di lotta e di resistenze alle tentazioni, siamo stati invitati ad entrare con Gesù nel deserto ma soprattutto a vincere, con Lui, le diverse tentazioni. In Matteo, satana, nella terza tentazione, era disposto a dare tutto quello che si può avere, ricchezza, gloria, potere, in cambio dell’adorazione da parte di Gesù. Era una forma d’idolatria.  Gesù dirà “Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”.

Portate via di qui queste cose: non prostratevi davanti ad esse

Alcune traduzioni bibliche, della pagina del Vangelo, chiamano comunemente questa narrazione di “purificazione del tempio” e segue immediatamente “le nozze di Cana di Galilea”, sono strettamente unite tra loro, ambedue sottolineano la ragione per la quale Gesù è venuto, pongono in rilievo la sua missione: rinnovare e trasformare il culto da rendere a Dio. In questo processo di trasformazione del culto Egli è il fondamento. Mentre nelle nozze di Cana Gesù si presenta come “vino nuovo” e dà senso nuovo al culto, nella purificazione, Egli è il tempio nuovo, il centro del nuovo culto.

Gesù si sposta dalla Galilea a Gerusalemme e si reca nel Tempio. Lo fa subito dopo il miracolo delle nozze, in occasione della festa della Pasqua ebraica. Secondo il Vangelo di Giovanni, è la prima volta che Gesù si reca a Gerusalemme ed entra nel Tempio. Giovanni situa quest’ingresso all'inizio dell’attività pubblica di Gesù per sottolineare l’importanza della sua missione rinnovatrice e rigeneratrice. Il tutto posto all’inizio del suo ministero pubblico.

 Il popolo ebraico stava certamente per festeggiare la Pasqua religiosamente, ma con sua sorpresa Gesù non trova persone che pregano e si preparano spiritualmente per la festa, ma scopre invece che il tempio è stato trasformato in un luogo di commercio dove il culto è un grande commercio in cui tutti ci guadagnano: un’occasione per fare dei soldi. Tutti, inclusi i sacerdoti, sono talmente attaccati ai beni materiali da trasformare la ricchezza in un idolo. Tutti preoccupati per i beni materiali. Con sorpresa di tutti, Gesù li scaccia fuori, insieme alle pecore e buoi, getta a terra, sparpaglia il denaro contato e posto ordinatamente e rovescia i banchi, gesti forti che devono rovesciare una mentalità e la ragione fondamentale è che “la casa del Padre” è stata trasformata in un “luogo di commercio”, in luogo di idoli, il Signore aveva detto: “non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai “.

Gesù, nel suo primo viaggio a Gerusalemme e nel suo primo ingresso nel tempio, richiede sicuramente una rapida trasformazione o rinnovamento di mentalità sul vero culto: il tempio non è un luogo di commercio ma di preghiera. All'interno e intorno al tempio c'è Dio che dovrebbe essere al centro dell'interesse di tutti, non possono trovare posto dei venditori e dei cambia denaro; è il luogo dove è situata l'arca, simbolo dell'alleanza tra Dio e gli uomini e non dei beni materiali: buoi, pecore, colombe e denaro. Inoltre, vuole che tutti siano in grado di capire che Gesù è il nuovo tempio, è il nuovo centro di culto di Dio, il nuovo tempio della nuova alleanza; nuovo luogo di incontro tra Dio e gli uomini.

Per dimostrare questo Giovanni usa quattro verbi decisi e violenti, mostrando fino a che punto Gesù vuole operare immediatamente questa trasformazione. Egli, infatti, caccia coloro che stanno profanando il tempio con culti malvagi caratterizzati da una vita che non è conforme alle richieste di Dio. I verbi “scacciò fuori”, “gettò a terra”, “rovesciò i banchi” e “portate via” sono verbi seguiti da locuzioni avverbiali che caratterizzano il fare di Gesù forte e deciso ogni qualvolta noi trasformiamo il tempio in luogo di commercio; tutte le volte in cui mettiamo al centro dei nostri interessi “i beni materiali” visti come idoli. Inoltre, Gesù si mostra come il nuovo tempio, dirà, “distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Egli parla del tempio del suo corpo, alludendo alla vera Pasqua, la Pasqua della nuova alleanza.

Per sottolineare che Gesù è il nuovo Tempio, Giovanni usa un gioco di parole greche: nel dire che Gesù entra nel Tempio, usa la parola “τό ἱερόν” che indica l’intero tempio, l’intero luogo consacrato, “il tempio come edificio, il recinto che occupava la spianata del tempio, uno spazio molto vasto e aperto, luogo sacro perché segno della presenza di Dio”, invece, quando riferisce Gesù come Tempio adopera la parola “ναός” che indica “la parte più interna del tempio, la cella in cui dimora la divinità, il santuario, il Sancta Sanctorum”. Gesù è il nuovo tempio, luogo della presenza divina in mezzo agli uomini. Anche se verrà distrutto, sarà ricostruito in tre giorni, cioè, risorgerà.

Il discepolo missionario “spalanca le sue porte a Cristo” affinché vi entri e faccia la polizia nel suo cuore. Infatti, come afferma Papa Francesco, “Gesù farà pulizia con tenerezza, con misericordia, con amore. La misericordia è il suo modo di fare pulizia. Lasciamo - ognuno di noi - lasciamo che il Signore entri con la sua misericordia - non con la frusta, no, con la sua misericordia - a fare pulizia nei nostri cuori. La frusta di Gesù con noi è la sua misericordia. Apriamogli la porta perché faccia un po’ di pulizia”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Gen 22, 1-2.9.10-13.15-18
Sal 115
Rm 8, 31-34
Mc 9, 2-10

Al centro della pericope, comunemente chiamata “sacrificio di Isacco”, si trova la parola “eccomi” pronunciata due volte da Abramo: una volta rivolta a Dio e l’altra rivolta all’angelo. La risposta di Abramo “hinnenî” cioè “eccomi”, o meglio ancora “ecco me” è una espressione biblica indicante una vera sottomissione, una prontezza a far accadere qualcosa nella vita di una persona. Infatti, Abramo, appena ha sentito il progetto per il quale Dio l’ha chiamato, non fa nient’altro che eseguire: si alza di buon mattino, sella l'asino, prende con sé due servi e il figlio Isacco, spacca la legna per l'olocausto e si mette in viaggio verso il luogo che Dio gli ha indicato.

Abramo ascolta Dio che parla nel suo cuore e si mette subito al servizio di Dio: il suo “hinnenî” è davvero non solo sottomissione, ma anche prontezza a realizzare. Questo suo “hinnenî” è anche la sua fede, la sua obbedienza. Infatti, come dirà l’autore della Lettera agli Ebrei “Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome” (Eb 11,17-18)”.

Abramo risponde con “hinnenî” quando è chiamato e poi esegue anche quando gli si è stato chiesto qualcosa di umanamente assurdo: “prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami” Come mai Dio può chiedere a un padre di offrire un figlio in sacrificio? Non si tratta soltanto di un figlio ma “tuo figlio”, il tuo unigenito” soprattutto quello che “tu ami”.

Ad Abramo viene chiesto di sacrificare il proprio futuro, il futuro che egli ama e che rischia di rimanere senza discendenza e sparire dal mondo senza lasciare traccia alcuna. Ma anche in quella situazione Abramo è conseguente con il suo “eccomi”, esegue con obbedienza e fede. Obbedisce anche all’angelo che lo chiama e risponde “eccomi” e davanti al progetto di Dio, egli esegue, ma è impressionante la conclusione: “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito” ma l’autore aveva già avvertito al v. 1 che si trattava di una prova: “in quei giorni, Dio mise alla prova Abramo”. Dio voleva sapere se Abramo provava timore di Lui, ne mette alla prova la fedeltà e la fiducia.

Anche al centro della nostra vita dovrebbe esserci la parola “hinnenî”, dovrebbe esserci l’obbedienza, parola che deriva dal latino ob-audire = ascoltare. L’ascolto della voce di Dio e del suo messaggio è alla base dell’obbedienza di Abramo e dovrebbe esserlo anche della nostra. Abramo non discute con Dio, accetta senza condizioni, non capisce, non sa, ma si fida. È una fede quella che richiede la fiducia e l’abbandono. Ma, come abbiamo detto, richiede anche “ascolto”. Ed ecco che nel racconto della Trasfigurazione, la voce dice: “Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!”

“Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo”

E’ l’esperienza della trasfigurazione. Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, li porta su un alto monte dove è trasfigurato: “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Ad un certo momento una voce si fa sentire: “Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!” Ricordiamo però che sono due soltanto i momenti in cui Dio parla nei Vangeli: nel momento del battesimo e in quello della trasfigurazione: “Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Mc 1,11) e “Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mc 9,7).  In Mc 9,7 si aggiunge una parola definitiva che non c’è nel battesimo: “ascoltate lui”.

È Dio stesso ad avvolgere Pietro, Giacomo e Giovanni con la sua nube e ad indicare loro che cosa devono fare: “ascoltatelo!” Tutto questo ci fa pensare anche all’imperativo dell’ascolto che contraddistingue l’Antico Testamento: “Ascolta, Israele”. L’ imperativo «Ascolta!», in ebraico Shemà, la Bibbia esalta questo verbo, in essa il verbo «ascoltare» non significa soltanto “udire”, ma equivale spesso a “obbedire”. Si tratta, quindi, di un’adesione intima e non di un mero sentire esterno, è necessario un orecchio libero dalle “ortiche” delle chiacchiere, è il non essere «ascoltatore smemorato ma colui che mette in pratica», come scrive san Giacomo.

Il Padre dice: “ascoltatelo!” cioè, ubbidite a lui e seguitelo, dategli ascolto, fidatevi di lui: io stesso, Vostro Dio, ve lo confermo poiché sono io che lo sto guidando in questo cammino che lo porterà presto a dare la vita a Gerusalemme. È lì che dovrete seguirlo senza scoraggiarvi di fronte all’apparente fallimento che vi sembrerà di vivere. Il principio è dunque ascoltare Gesù, la trasfigurazione comincia quando inizio ad ascoltare lui invece di me stesso. Quando la mia vita è veramente centrata sull’ascolto, credo alla sua parola, quando è giocata su di lui ed è proprio l’ascolto progressivo che mi trasforma.

Siamo dunque invitati a seguire Gesù verso Gerusalemme, verso la sua passione e ad essere obbedienti anche quando ci viene richiesta qualcosa che umanamente ci sembra assurda. In questo senso la prova di Abramo è la nostra povera e travagliata vita umana che ci può condurre in situazioni di prova – è quella in cui ogni uomo può imbattersi: prima o poi il credente sperimenta che occorre rinunciare a ciò che ha di più caro e su cui ha fondato la propria vita, per offrirlo puntualmente a Dio. In caso contrario, egli entra in una logica idolatrica, in base alla quale ripone la speranza non in Dio, ma nel suo dono, che finisce per diventare un inciampo… Sì, il credente impara, con fatica, a rinunciare liberamente a ogni persona, a ogni relazione, a ogni cosa, perché nulla gli appartiene: Dio dona tutto, ma tutto a lui appartiene. Dirà Paolo: «Ogni cosa appartiene a voi, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23). (Enzo Bianchi).

Con l’ “Ascoltatelo”, per Papa Francesco, i discepoli missionari “sono chiamati a seguire il Maestro con fiducia, con speranza, nonostante la sua morte; la divinità di Gesù deve manifestarsi proprio sulla croce, proprio nel suo morire “in quel modo”, tanto che l’evangelista Marco pone sulla bocca del centurione la professione di fede: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»” e come Dio ha richiamato dai morti Gesù Cristo, «il primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rm 8,29), così richiamerà ciascuno di noi dalla morte alla vita eterna nel suo Regno.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

L’evangelista ha scritto che Gesù insegna in tutta la Galilea ed ecco gli echi del suo insegnamento, la risposta alla buona notizia; e chi sono? Sono gli emarginati dalla religione. Sono quelli che la religione ha catalogato come impuri e per essi non c’è speranza. L’unico che li può salvare sarebbe Dio, ma loro in quanto sono impuri, non possono rivolgersi a Dio; quindi, vivono una situazione disperata.

Leggiamo quello che ci scrive Marco in questo bellissimo brano, è il capitolo primo, dal versetto 40. “Venne da lui un lebbroso”, questa è una sorpresa. Il lebbroso non è considerato soltanto un ammalato, ma un peccatore castigato da Dio. La lebbra era una piaga tremenda per la quale non c’era salvezza. In tutta la Bibbia si legge che soltanto due lebbrosi sono stati guariti; devono stare lontani, fuori dalle città, non devono né avvicinare né possono essere avvicinati e, se vedono qualcuno, devono guidare “Immondo! Immondo!”.

Ebbene, questo lebbroso che ha sentito l’insegnamento di Gesù, comprende che ci può essere una speranza pure per lui e trasgredisce la legge, si avvicina a Gesù. Però non sa la reazione di Gesù, per questo si mette in ginocchio e non è certo, chiede “Se vuoi” e stranamente non chiede di essere guarito dalla febbre, chiede di essere purificato. Questa espressione apparirà tre volte per indicare che è quello che sta a cuore all’evangelista; cioè, questo è un uomo che ha perso tutto con la lebbra, ha perso la famiglia, il lavoro, la dignità, gli amici, ma ha perso anche Dio. Allora lui chiede a Gesù che ristabilisca questo contatto con Dio, che lo purifichi.

Ebbene, Gesù dovrebbe inorridirsi di fronte a questo essere immondo, peccatore, che continua a trasgredire legge e si rivolge a lui; dovrebbe allontanarlo. Invece scrive l’evangelista che “Gesù ne ebbe compassione”, termine con il quale si indica la restituzione della vita a chi non ce l’ha.

E l’evangelista crea una suspense, perché dice “Tese la mano”. Questa è un’espressione tecnica che Marco prende dal libro dell’Esodo per indicare l’azione di Mosè quando stende la mano contro i nemici. Allora uno si chiede: ma cosa farà Gesù? Lo castigherà perché ha trasgredito la legge? “Lo toccò”, non era necessario toccarlo, “e gli disse: lo voglio” e all'imperativo “Sii purificato, lo voglio”. La volontà di Dio, perché Gesù è Dio, è l’eliminazione di ogni emarginazione attuata in nome suo cancellando definitivamente la categoria del puro e dell’impuro.

Ed ecco la sorpresa “E subito la lebbra scomparve” letteralmente “partì da lui”, “ed egli fu purificato”. Che meriti aveva questo lebbroso per essere purificato? Nessuno; anzi, ha continuato a trasgredire la legge. Allora Gesù insegna che non è vero, come insegna la religione, che ti devi purificare per avvicinarti a Lui, ma avvicinati a Lui, accoglie il Signore ed è lui che ti purifica. Quindi questa la grande novità di Gesù.

Però stranamente Gesù adesso scrive l’evangelista “ammonendolo”, letteralmente “rimproverandolo”. È strano: se doveva rimproverarlo doveva farlo prima quando si è avvicinato, perché lo rimprovera ora? E dice “Lo cacciò via subito”, ma da dove lo caccia via e perché lo rimprovera? Qual è l’azione di Gesù? Lo rimprovera per aver creduto in un Dio che lo aveva escluso dal suo amore e da dove lo caccia via? Lo caccia via da un’istituzione religiosa che, anziché la volontà di Dio, insegna i pensieri degli uomini che sono lontani da Dio. Quindi dopo averlo liberato lo aiuta a liberarsi da se stesso e dice “Adesso va, va dai sacerdoti, mostrati da loro e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto”, dice “Mosè”, non Dio, “come testimonianza” e non è “per loro”, ma “contro di loro”. Qui l’evangelista cita il libro del Deuteronomio dove Mosè stesso dice “Prendete questo libro della legge e vi rimanga come testimonio contro di te”.

Qual è questa testimonianza contro? La prova è che Dio agisce esattamente al contrario di quello che i sacerdoti insegnano e pretendono, che non è vero che c’è bisogno di portare delle offerte per essere graditi a Dio, per essere purificati, ma è Dio che continuamente si offre per purificare le persone.

“Ma quello”, scrive l’evangelista, “uscì”, non va dai sacerdoti, ha compreso. Si allontana da un’istituzione religiosa che lo aveva emarginato e “si mise a predicare” esattamente come Gesù e a “divulgare il fatto”, letteralmente non l’episodio: il termine è “la parola”, cioè il messaggio che c’è in questo e qual è il messaggio? Che Dio non discrimina le persone, che per lui non ci sono persone pure o impure, che non è vero che bisogna purificarsi per accogliere il Signore, ma è accogliere il Signore quello che purifica; che l’accettazione di Dio non è una conseguenza della purezza dell’uomo, ma è quello che lo precede.

Questo lebbroso, una volta purificato, incomincia a predicare, ma la conseguenza è che Gesù non poteva entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori. Perché? Per Gesù, per l’amore, per aver toccato questo lebbroso adesso diventa lui ritualmente impuro. Per purificare l’uomo lebbroso, l’uomo impuro, Gesù agli occhi della religione è diventato lui un impuro. Ma ormai è fatta e la gente accorre a Gesù, ha capito che in Gesù c’è un'immagine nuova di Dio.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

Gb 7,1-4.6-7
Sal 146
1Cor 9,16-19.22-23
Mc 1,29-39

A Cafarnao, nella sinagoga, Gesù insegna per la prima volta e la gente capisce che la volontà di Dio non viene espressa attraverso la dottrina imposta dai loro scribi, il magistero ufficiale del tempo, ma nell’azione liberatrice di Gesù.

Ecco perché, è il vangelo di oggi, il capitolo primo di Marco dal versetto 29, appena usciti dalla sinagoga andarono nella casa di Simone e Andrea insieme agli altri due discepoli, i primi chiamati da Gesù, in compagnia di Giacomo e Giovanni e lì c'è la suocera di Simone che era letto con la febbre.

La donna è considerata in quella cultura l’essere umano più lontano da Dio e comunque è irrilevante, la donna non conta nulla nella famiglia; e invece qui subito gli parlano di lei. Hanno compreso una novità dell’insegnamento di Gesù, dove il bene dell’uomo viene messo al primo posto, prima ancora dell’osservanza della legge divina. Perché questo? Perché questo giorno è sabato; in giorno di sabato sono proibiti compiere ben 1521 azioni e tra queste c’è anche la visita e la cura dei malati. Ebbene, i discepoli hanno compreso, hanno compreso che il bene dell’uomo è il valore più importante e per questo parlano di lei.

Gesù avrebbe potuto dire “Aspettiamo, aspettiamo che passi il sabato”; no, il bene dell’uomo è più importante dell’osservanza della legge divina. Ricordiamo che il comandamento del riposo del sabato non era un comandamento tra gli altri, ma era il comandamento più importante di tutti perché si riteneva che Dio stesso l’osservasse. L’osservanza di questo unico comandamento equivaleva all’osservanza di tutta la legge, la trasgressione di questo unico comandamento equivaleva alla trasgressione di tutta la legge e per questo era prevista la pena di morte.

Ma nel gruppo di Gesù hanno capito che c’è un’aria nuova. Allora Gesù si avvicina, “la fece alzare” ed è sorprendente quello che fa Gesù, la prende per la mano. Perché? Non c’era bisogno, ma perché è proibito. Gesù tutte le volte che si è trovato in conflitto tra la legge, la tradizione e il bene dell’uomo, ha scelto sempre il bene dell’uomo e qui il clamoroso è che Gesù, toccando la mano di una donna che è impura, non riceve lui l’impurità della donna, ma gli trasmette la sua forza, la sua energia. Infatti “La febbre la lasciò ed ella li serviva.

L’evangelista per il verbo servire adopera il termine “diaconeo”, che conosciamo anche nella lingua italiana, diacono, che è colui che liberamente serve per amore. È importante questo termine perché è apparso nel vangelo dopo le tentazioni, quando gli angeli, cioè gli esseri più vicini a Dio, servivano Gesù. Ebbene, la donna con Gesù, che era considerata l’essere più lontano da Dio, più inutile, più insignificante, una volta che accoglie il messaggio di Gesù, la comunità cristiana, diventa l’essere più vicino a Dio. Questo in casa di Simone e Andrea.

Ma fuori, scrive l’evangelista “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati”. Perché hanno atteso? Perché hanno osservato la legge, il riposo del sabato. Mentre in casa la necessità, il bene della persona era più importante dell’osservanza del sabato, nella città il sabato era più importante del bene delle persone. L’osservanza della legge ha rallentato l’incontro con la vita che Gesù poteva comunicare.

Tutta la città è riunita davanti alla porta, Gesù guarisce le persone e il brano termina in una maniera sorprendente alla fine; scrive l’evangelista che Gesù andò per tutta la Galilea “predicando nel loro sinagoghe e scacciando i demòni”.

L’evangelista sta denunciando che le sinagoghe, cioè i luoghi di culto, il luogo dell’insegnamento religioso è lì dove si annidano i demòni. Sono le persone sottomesse a un insegnamento che si fa credere proveniente da Dio quando invece non viene da Dio, Gesù denuncerà questi scribi che insegnano dottrine di uomini, ebbene, la gente è sottomessa a questo ordinamento ed è proprio nella sinagoga. E allora saranno le sinagoghe i luoghi più ostili e refrattari a Gesù nei quali Gesù con il suo insegnamento cercherà di liberare le persone.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

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