Ecco, faccio una cosa nuova

Una proposta di preghiera per il tempo di Quaresima e per prepararci alla Pasqua.
Contemplando il deserto chiuso davanti a noi, attendiamo con fiducia di vedere il germoglio della cosa nuova fatta dal Signore.

Prima di iniziare la preghiera, si pone in un punto ben visibile un cartellone colorato (ad esempio rosso, blu o marrone). Si distribuiscono tre foglietti quadrati di colore chiaro (giallo, beige o bianco) e un pennarello nero a ciascun partecipante.

Guida. In questo tempo di Quaresima, ci regaliamo un’occasione di sosta per aiutarci a vicenda nel cammino verso la Pasqua.
Ci disponiamo in una posizione che aiuti la preghiera. Ciascuno si pone in silenzio alla presenza degli altri, alla propria presenza, alla presenza del Signore.

Silenzio.

Guida. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.

Canto. Vieni Spirito d’amore. Vieni Spirito d’amore.

Lettore 1. Dal libro del profeta Isaìa (43,16-21).

«Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi“».

Lettore 2. Il «Secondo Isaia» è un profeta che parla a un popolo in esilio. Israele, deportato nel VI secolo a.C. in Babilonia, è lontano dalla terra che aveva abitato a lungo e che Dio aveva promesso ad Abramo e ai suoi discendenti. Vive un esilio durissimo, che gli fa dubitare dell’amore di Dio per lui, e si domanda se sono ancora valide le parole di Yahweh: «Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo».
L’esilio babilonese getta Israele nella nostalgia del passato e nell’angoscia per il futuro.
La condizione del popolo ricorda l’antica schiavitù dell’Egitto, e la sua disperazione assomiglia a quella provata dagli israeliti quando di fronte a loro avevano la strada sbarrata dal mare, e dietro l’esercito del faraone che li inseguiva.
Una situazione priva di vie d’uscita. Come quella vissuta dai discepoli di Gesù mentre il loro maestro veniva inchiodato al legno della croce.

Guida. Le acque possenti del mare, i carri e i cavalli d’Egitto minacciano la libertà e la vita.
Quante minacce oggi si affacciano per sottrarre libertà e vita a ciascuno di noi, alle nostre famiglie, alla nostra società, al mondo?

Segno. Dopo un tempo congruo di silenzio accompagnato da una melodia di sottofondo, ogni partecipante, ordinatamente, si reca al cartellone per scrivere in una parola uno dei segni di morte che vede in sé, attorno a sé, nel mondo.

Lettore 2. Il profeta parla al cuore triste degli israeliti con le parole di Yahweh: «Non ricordate più le cose passate. Ecco, io faccio una cosa nuova!». E promette: quel Dio amorevole e liberatore che un tempo ha diviso per Israele le acque del Mar Rosso, e che ha sconfitto i suoi nemici aprendo una strada insperabile nella morte, quello stesso Dio aprirà una strada «anche nel deserto», perché Israele riprenda il cammino verso la terra dei suoi padri, non si senta più in esilio dalla propria esistenza, percorra il sentiero della vita e della gioia piena.
Allo stesso modo, Gesù consola i suoi discepoli e fratelli con la promessa della risurrezione, confermata dai miracoli, i segni che il Signore operava per restaurare la vita di chi lo incontrava.

Guida. Il Signore vuole rassicurare, attraverso le parole del profeta, il suo popolo amato. Vuole consolare il suo cuore con la certezza della sua presenza, del suo amore capace di aprire una strada di vita anche nella morte, un sentiero di libertà anche nell’oppressione.
Ci domanda di riconciliarci con il passato, con una nostalgia che non ci lascia liberi, o con una ferita che non ci lascia vivere. Ci invita ad avere fiducia della sua salvezza creativa.

Segno. Nel silenzio accompagnato da una musica, ciascuno scrive su un foglietto una situazione della propria vita con cui desidera riconciliarsi, e su un secondo foglietto un desiderio profondo che vorrebbe vedere realizzato. Dopo aver scritto, uno per volta ci si alza per posare i biglietti a faccia in giù sul cartellone.

Lettore 2. Il Signore che apre una strada anche nel deserto, lo bagna immettendo fiumi per dissetare il popolo di Israele: «Il mio popolo», sottolinea, per ricordare e rinnovare ancora una volta l’antico patto, per sigillare una volta ancora la relazione d’amore che lo tiene legato ai suoi diletti.
Così come le bestie selvatiche lo glorificheranno, anche gli uomini, custoditi dal loro Dio, gli rivolgeranno le loro lodi.
Così come la strada nel deserto che libera Israele ricorda il Signore Gesù Cristo, via, verità (libertà) e vita, così anche i fiumi nella steppa che abbeverano il popolo e le bestie selvatiche, riconciliando l’uomo e il creato a sé, ricordano la fonte di acqua pura che zampilla per la vita eterna: il Signore che con la sua morte e risurrezione inonda il mondo e ogni sua creatura di vita nuova.

Guida. Siamo chiamati a essere i canali di quest’acqua viva. Innanzitutto è la nostra sete a venire placata, è la nostra vita personale a venire inondata dall’acqua della vita eterna. Poi, grazie alla sovrabbondanza che ci bagna, comunichiamo la stessa acqua dissetante ad altri. Perché siamo il popolo plasmato dal suo amore che celebra le sue lodi dovunque ci sia vita: che sia vita stentorea e assetata di amore eterno, che sia già vita gaia e aperta. Questo si chiama missione.

Segno. In un ultimo momento di silenzio, ciascuno scrive sul terzo foglietto un’intenzione che può mettere in atto per aiutare il Signore ad aprire una strada nuova nel deserto del mondo di oggi.
Quando tutti avranno posato il proprio foglietto, la guida andrà al cartellone e disporrà tutti i quadrati di carta in modo da formare su di esso una strada che lo attraversi.

Tutti insieme. Sal 125 (126)

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.
Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito santo.
Come era nel principio, ora e sempre nei secoli, dei secoli. Amen.

Intenzioni libere. Ciascuno può esprimere una propria preghiera. A ogni intenzione tutti rispondono: «Ascoltaci Signore».

Tutti insieme. Padre nostro

Canto. Il canto dell’amore. Il canto dell’amore.

* Luca Lorusso è giornalista della rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: www.amico.rivistamissioniconsolata.it

Tra preghiera, pittura e pennelli, padre Carlo Mondini, 86 anni dei quali 55 anni come sacerdote, prima di tornare in Italia parla dei 25 anni di servizio missionario in Argentina. Il suo impegno per la missione è evidente in ogni aspetto della sua vita.

Nella Casa Regionale dei Missionari della Consolata, nel quartiere di Flores, a Buenos Aires, da un quarto di secolo batte forte un cuore italiano. Padre Carlo Federico Mondini, 86 anni, bresciano di origine, ha dedicato una parte della sua vita a portare un messaggio di speranza e consolazione in Sud America.

Arrivò in Argentina il 7 luglio 1999 con la speranza di condividere la sua fede e servire i più bisognosi. Dopo un intenso periodo di studio dello spagnolo, la sua prima destinazione è stata la parrocchia di Pompeya, a Merlo, provincia di Buenos Aires. Lì, immerso nel calore della comunità di Buenos Aires, ha iniziato a costruire le basi di quella che sarebbe stata la sua missione in Argentina: il seminario di San Miguel, la pastorale di  Jujuy, a stretto contatto con le comunità indigene, e poi Mendoza.

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Padre Mondini ha lasciato la sua impronta artistica in Africa e in Argentina, dove ha dipinto immagini religiose

Una missione senza frontiere

Nella vita del padre Mondini la formazione è stato un aspetto importante; in Kenya e in Italia, prima ancora che in Argentina, ha dedicato forze e tempo all’animazione missionaria e alla formazione di giovani missionari. Con una profonda sensibilità interculturale e una solida conoscenza della spiritualità della Consolata, padre Mondini ha saputo trasmettere ai suoi studenti la passione per la missione ad gentes. La sua esperienza di animazione missionaria è stata fondamentale per rafforzare la vocazione di molti giovani.

20240826Mondini4“Nella preghiera non siamo mai da soli. Abbiamo un dialogo intimo con Dio, il nostro Padre amorevole. È in questo incontro personale che Egli ci rivela i suoi progetti e ci guida sulla strada che ha tracciato per ognuno di noi. Osate chiedergli: “Signore, cosa vuoi che faccia? Illuminami con il tuo Spirito Santo e dammi la forza di fare la tua volontà. Parlami, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” è il consiglio che padre Mondini dà ai giovani che iniziano la loro vocazione al sacerdozio.

Pennellate missionarie: la passione per la pittura

Padre Mondini ha unito la sua vocazione religiosa alla passione per la pittura. In Africa ha decorato cappelle e ha organizzato mostre d'arte con la comunità locale, i cui dipinti sono stati venduti per sostenere progetti comunitari. In Argentina, ha lasciato la sua impronta artistica a Jujuy, dove ha dipinto immagini religiose come la Vergine Consolata e il Sacro Cuore di Gesù, donando le sue opere alla comunità. Sebbene per lui la pittura sia solo un hobby, il suo talento ha contribuito a decorare gli spazi e a stabilire un contatto con le persone. Con le sue pennellate missionarie dimostra che l'arte può essere un potente strumento di evangelizzazione e di promozione dei valori umani e cristiani.

Il cuore di un missionario

Negli ultimi tre anni, padre Mondini ha fatto della spiritualità il centro della sua vita inspirandosi alla figura di Santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni. Ogni sua parola, ogni suo pensiero e ogni sua azione sono concepiti come un'offerta al Signore.

“Tutto ciò che faccio, ciò che dico, ciò che penso, ogni respiro della mia bocca e ogni battito del mio cuore è un'offerta al Signore”, dice padre Mondini, riflettendo la profondità della sua dedizione.  Nella sua vita consacrata il missionario cerca di unire il suo cuore a quello di Dio e quindi di intercedere per tutte le persone, soprattutto quelle più bisognose. La sua testimonianza ci invita a riflettere sull'importanza della preghiera e dell'offerta personale come mezzi per trasformare il mondo.

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Missionari della Consolata residenti nella Casa Regionale: Guillermo Pinilla, Mario Guglielmin, James Macharia, Carlos Monidini, Marcos Im Sang Hun e Nino Bigani.

Oggi padre Carlo, che ha lasciato un segno profondo e tanta gratitudine nella comunità argentina, ha deciso di tornare in Italia, sua terra d'origine. All’età di 86 anni, questo ritorno è il risultato di una maturazione personale e spirituale che si è sviluppata negli ultimi mesi. Padre Mondini sente il bisogno di riconnettersi alle sue radici, alla sua lingua, alla sua cultura e, soprattutto, ai suoi cari. In Italia lo aspettano nipoti, parenti e amici con cui condividerà questa nuova tappa.

Ad ogni modo questa sua partenza non significa la conclusione della sua vocazione missionaria: porterà con sé il fuoco dell'apostolato che ha acceso in tanti cuori. Dalla sua patria, continuerà a dedicarsi alla preghiera e alle offerte per le necessità del mondo, ispirando altri a seguire le sue orme.

* Padre Guillermo Pinilla, IMC, superiore della Casa Regionale di Buenos Aires e Celina Atencio, insegnante a Mendoza.

Nel corso dei secoli, le diverse società hanno avuto modi diversi di misurare il valore di una persona. In generale, il mondo pagano aveva tre criteri per dimostrare il valore di un individuo nella società. La conoscenza di questi criteri è importante se vogliamo evitare di valutare noi stessi utilizzando gli stessi parametri, e quindi di fare pressione su di noi per raggiungere certi obiettivi sfuggenti e spesso inutili.

Questo è fondamentale perché oggi il secolarismo sta riportando il mondo ai criteri pagani di misurazione del valore della persona, dove i risultati ottenuti mostrano il suo valore più di ogni altra cosa.

Il cristianesimo ci ha aperto gli occhi e ha dimostrato che siamo figli e figlie di Dio, destinati a una fine gloriosa, ma che viviamo temporaneamente in questo mondo come un passaggio. Purtroppo, il declino dell'affiliazione delle persone alle realtà spirituali, il rapido aumento del materialismo e la sempre maggiore sostituzione della religione con forme alternative pseudo religiose (es. Psicologia e altro) stanno alimentando il ritorno alla visioner "pagana" circa il valore di una persona.

Nel mondo greco, c'erano tre attributi che stabilivano la qualità di una persona. In primo luogo, un uomo di valore doveva avere un'origine nobile. In altre parole, una persona era una persona di valore se apparteneva all'aristocrazia. Questa poteva essere ottenuta per nascita, per servizio nell'esercito o per via burocratica. In secondo luogo, la qualità di una persona era misurata attraverso l'istruzione di eccellenza. L'istruzione formale creava le élites che erano al di sopra della gente comune, povera e analfabeta. In terzo luogo, una persona veniva misurata attraverso i suoi successi (attività che aveva svolto o virtù che aveva dimostrato nella sua vita). In altre parole, le grandi opere delle persone parlavano per loro, di solito elevandole nella scala sociale.

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Queste tre qualità erano utilizzate come indicatori dell'identità e del valore di una persona. Le ritroviamo anche nel Nuovo Testamento. Ad esempio, in Atti degli apostoli 22,3-4, San Paolo disse: "Io sono un ebreo, nato a Tarso in Cilicia". Stava dicendo agli ebrei che se la nobiltà e il valore di una persona si misuravano dall'essere ebreo, allora lui aveva i requisiti necessari, perché era anch'egli ebreo. Per quanto riguarda l'istruzione, disse di essere stato istruito da Gamaliele, uno dei grandi maestri della legge dell'epoca. Per quanto riguarda le conquiste, San Paolo osservava che era stato molto diligente nei confronti di Dio e per questo motivo aveva perseguitato i cristiani mandando in prigione uomini e donne.

In un altro caso (Fil 3,10-11), San Paolo parla della sua circoncisione all'ottavo giorno, per sottolineare la sua origine ebraica e la sua appartenenza al popolo eletto di Dio. Diceva infatti di essere un ebreo nato da genitori ebrei e appartenente alla tribù di Beniamino. Per quanto riguarda l'educazione, San Paolo ha detto di essere stato un fariseo. Per quanto riguarda le conquiste, disse che prima del suo drammatico incontro con il Signore stava perseguitando la Chiesa. San Paolo voleva dire agli ebrei che se quel criterio di misurazione del valore di una persona era giusto, allora lui era molto qualificato agli occhi della gente.

Oggi San Paolo ci dice quello che disse agli ebrei di allora. Pur avendo tutti i motivi per vantarsi, considerava ogni cosa un'inutile porcheria in confronto alla conoscenza di Cristo (Fil 3,8). Aveva capito che il valore di una persona inizia quando si rende conto della sua filiazione a Dio. Anche noi dobbiamo scoprire che il nostro valore è legato e fondato sulla nostra relazione con Dio. Il nostro valore non ha nulla a che vedere con il luogo in cui siamo nati, con l'educazione che abbiamo ricevuto o con i risultati che abbiamo raggiunto nella nostra vita. Tutte queste cose ci danno un valore temporaneo e ci rendono eroi a breve termine agli occhi della gente, ma alla fine sono inutili, perché non hanno alcun beneficio spirituale.

Il vero valore di una persona e l'eroismo in senso cristiano non hanno nulla a che fare con il fatto di essere nati in una famiglia speciale, di avere una grande istruzione formale o di avere molti successi mondani. Questi eroi muoiono come chiunque altro, lasciano le loro conquiste e diventano parte della sorte dimenticata. La scoperta del nostro valore agli occhi di Dio ci rende eroi. È così che i santi sono diventati ciò che sono oggi.

Il vero eroismo cristiano significa diventare progressivamente persone migliori ogni giorno, superando le nostre debolezze e conformando la nostra vita al progetto di Dio, espresso nella vita di Cristo. In un mondo in cui i nostri effimeri successi vengono sbandierati e pubblicizzati ovunque, San Paolo ci invita a riscoprire la nostra filiazione a Dio. Dal punto di vista cristiano, il santo, a differenza dell'eroe pagano, non nasce eroe, non nasce imbattibile. Il santo nasce debole, ma consapevole della sua fragilità e cerca di acquisire una configurazione progressiva in Cristo, che è il modello supremo degli eroi. Come tale, diventa un eroe grazie alla forza e all'aiuto dello Spirito di Cristo. Che anche noi possiamo diventare tali eroi.

* Padre Jonah M. Makau, IMC, frequenta il corso in Cause dei Santi, a Roma.

Ogni volta che pensiamo o parliamo dei santi, l'idea che ci viene in mente è quella di eroi. Consideriamo i santi come eroi, e giustamente. È tuttavia importante differenziare il concetto mondano di eroismo da quello cristiano, se vogliamo attribuire correttamente le giuste qualità ai nostri fratelli e sorelle che sono in cielo.

Per cominciare, il concetto di eroismo è stato utilizzato per la prima volta in campo etico da Aristotele. Fu propagato nel cristianesimo da Sant'Agostino, che lo applicò ai martiri. I martiri furono chiamati eroi perché scelsero di morire invece di peccare. In questo modo, hanno sconfitto il diavolo. In altre parole, la capacità dei martiri di superare la tentazione di voler salvare la propria vita ad ogni costo era paragonata alla sconfitta delle forze del male sempre determinate a portare fuori strada le persone. Per questo i santi erano considerati vincitori.

Con la fine delle persecuzioni, altre persone, che non erano state martiri, iniziarono a essere associate al martirio. Il fatto di vivere correttamente la vita cristiana e quindi di superare le proprie debolezze faceva sì che i cristiani comuni fossero in qualche modo martiri. Venivano chiamati confessori. Si trattava di persone che, a differenza dei martiri che avevano testimoniato Cristo attraverso la loro morte, testimoniavano Cristo attraverso la loro vita virtuosa.

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Purtroppo, il fatto che il concetto di eroismo sia stato ripreso dal contesto pagano comportava molti rischi. Ad esempio, come era possibile paragonare i martiri e gli altri santi agli eroi pagani, la maggior parte dei quali erano considerati eroi per il loro potere di distruzione dei nemici, per la loro vendetta sui precedenti oppressori e per la loro forza di eliminare gli avversari?

In secondo luogo, l'idea degli eroi rischiava di allontanare i santi dalla vita ordinaria dei cristiani. A volte si rischiava di elevare i santi ad altezze irraggiungibili, isolandoli dalla fraternità cristiana. In questo modo quasi si mitizzavano i santi. Peggio ancora, questo concetto di eroismo metteva in ombra l'essenza della santità dei cristiani comuni, presentando l'idea che per essere santi bisognava fare cose straordinarie invece di vivere una vita cristiana ordinaria, aperta e generosa alla grazia di Dio. Questa visione delle cose non facilitava la fruizione della santità. Al contrario, la faceva apparire come un dono inimitabile e con meno significato per la vita dei poveri peccatori.

Lo sfondo del concetto neotestamentario di santità ed eroismo, tuttavia, è diverso dall'eroismo pagano. L'eroe cristiano è colui che, nello sforzo di seguire Gesù, è capace di rinnegare sé stesso, prendere la propria croce ogni giorno e seguire Cristo (Lc 9,23). Il cristiano appartiene a Cristo (Fil 3,12). La sua vita è un mistero di comunione con Cristo. Ogni cristiano è crocifisso con Cristo nel battesimo. La morte di Cristo sulla croce è stata un segno di quanto ci ha amato. Oggi, gli eroi cristiani sono coloro che sono in grado di amare Cristo e i suoi fratelli e sorelle nello stesso modo in cui lui ha amato. Quindi, per essere eroi nel nostro tempo, dobbiamo fare due cose.

In primo luogo, dobbiamo valorizzare la "quotidianità" o la vita di ogni giorno. È facile vivere pienamente e con gioia brevi momenti belli della nostra fede, solo come "un fuoco del momento". Altra cosa è invece vivere il nostro impegno cristiano quotidiano ogni giorno, ogni settimana, ogni mese e per anni. È per questo che Gesù ha parlato di prendere la nostra croce ogni giorno. Richiede costanza, una pazienza duratura e una determinazione incrollabile. È questo il senso della fedeltà.

In secondo luogo, per essere veri eroi in senso cristiano, dobbiamo andare oltre la pratica comune di ogni altro cristiano, nel vivere le virtù cristiane. Il piccolo passo al di là della pratica comune indica l'effetto dello Spirito Santo in noi, perché mostra ciò che non avremmo potuto raggiungere con le nostre capacità. In altre parole, andare oltre la pratica comune di ogni altro cristiano, richiede la collaborazione con lo Spirito del Signore. Chiediamo al Signore di continuare a ispirare le nostre vite per essere eroi cristiani del nostro tempo.

* Padre Jonah M. Makau, IMC, frequenta il corso in Cause dei Santi, a Roma.

Pubblichiamo la riflessione tenuta da padre Innocent Bakwangama questo lunedì 24 giugno presso la Casa Generalizia a Roma, IMC, durante la Messa nella Solennità della Natività di San Giovanni Battista.

C'è molto da dire circa la Solennità di oggi, la natività di San Giovanni Battista. Ma vorrei evidenziare solo un aspetto espresso nella seconda lettura (At 13, 22-26).

Bisogna innanzitutto ricordare che il popolo d'Israele pensava che Giovanni fosse il Messia che aspettava. Era quindi necessaria una spiegazione da parte dell'interessato per chiarire la questione. Per questa ragione, quando stava per concludere il corso della sua vita disse: “Non sono chi pensate, ma guardate, c’è qualcuno che viene dietro a me a cui non merito nemmeno di slacciare i sandali”(Gv 1, 27). Giovanni Battista parlava a nome di Dio, ma affermava con chiarezza che la luce che brilla è Gesù, non lui, e questa luce di Cristo risplende da sola. Da questo punto di vista, Giovanni ha dimostrato tutta la confusione della gente che lo riteneva il profeta definitivo.

Questo gli valse l'ammirazione di Gesù: “In verità vi dico: tra i nati di donna, nessuno è sorto più grande di Giovanni il Battista” (Mt 11,11). Il modo in cui Gesù parla di Giovanni Battista tradisce il suo entusiasmo per quest'uomo che per primo ha forzato le porte del Regno. Gli piace la sua franchezza e la sua durezza e arriva al punto di paragonarlo a Elia. “E se vuoi sentirlo: lui stesso è Elia che deve venire” (Mt 11, 14). 

Cosa dice a noi missionari? Spesso nelle nostre comunità siamo missionari coraggiosi, bravi, molto attivi e molto amati dai cristiani. Quando ci siamo, la parrocchia o comunità è sempre piena di gente. Ma quando veniamo trasferiti altrove, la parrocchia o la comunità resta vuota. Chiediamoci: cosa può giustificare questo? Cosa cerca le gente? Perché vengono da noi? Cosa diciamo loro? Qual è il nostro atteggiamento?

Penso che dobbiamo imparare da Giovanni Battista. Come lui, siamo chiamati a farci da parte perché Gesù cresca. Dobbiamo servire da ponte per arrivare a Gesù e non da ostacoli. La nostra missione è facilitare l'incontro con il Signore. Dobbiamo dire alla gente, come ha detto Giovanni: “ecco l'agnello di Dio” (Gn 1, 29). È Lui che siamo chiamati a far conoscere. Affinché, anche se cambiamo di parrocchia o comunità, la gente rimanga lì per Gesù. Noi cambiamo di comunità, ma Gesù non cambia mai.

Che San Giovanni Battista ci serva da esempio e che la sua umiltà e franchezza ci caratterizzino.

* Padre Innocent Bakwangama, IMC, omelia nella Solennità della Natività di San Giovanni Battista.

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