Ho incontrato, a San Luis (La Unión, Colombia), un giovane indigeno che viveva, studiava e lavorava, insieme ad altri giovani del popolo Embera Chami, nella comunità dei padri Carlos Zuluaga e Javier Velásquez, missionari della Consolata, al servizio della Pastorale indigena della diocesi di Cartago.
Ho saputo che si era laureato come infermiere all'Università di Pereira e che, a differenza di molti altri professionisti che grazie agli studi cercano di allontanarsi dal loro contesto, Carlos si è dedicato a vivere in mezzo alla sua gente, mettendo la sua professione al servizio della salute e del benessere della sua stessa gente, soprattutto i più fragili e bisognosi che, nel suo caso, sono i bambini fra zero e cinque anni. Un servizio educativo, di promozione e prevenzione delle malattie, realizzato nella lingua madre e nel pieno rispetto della cultura.
Un giorno gli chiesi:
– Quando ci scriverai un paio di paginette che descrivono la salute nel mondo indigeno?
Poco tempo dopo ho ricevuto la sua risposta:
“Le comunità indigene sono sopravvissute per molti anni grazie ai loro processi organizzativi e anche la salute fa parte di tutto questo cammino. Nell’ambito della salute le comunità indigene hanno rafforzato e salvato gran parte della loro medicina tradizionale, che hanno saputo integrare con quanto offerto dai servizi pubblici a favore della prima infanzia.
L'obiettivo è accompagnare i bambini nei loro processi di sviluppo e apprendimento senza separarli dal contesto culturale in cui sono nati; per questo abbiamo avuto bisogno di professionisti in diversi ambiti: nutrizionisti, psicologi, educatori, sociologi e professionali della salute che lavorano insieme e sempre con un approccio differenziato e attento alla realtà del popolo Embera Chami.
Nel mio caso, ho coordinato un programma statale, attraverso l'Istituto Colombiano del Benessere Familiare, finalizzato all'educazione e alla prevenzione sanitaria nelle famiglie con bambini di età inferiore ai cinque anni.
Il contesto non è facile. Come conseguenza del conflitto armato, le comunità indigene sono state spesso sfollate, hanno abbandonato i loro territori originari e si sono trasferite nelle aree urbane. La maggior parte dei destinatari del nostro lavoro educativo appartiene a questa popolazione di vittime espropriata dei propri territori. L’assistenza sanitaria e psicosociale è molto necessaria soprattutto per i bambini che vivono proiettati in un territorio sconosciuto, il più delle volte urbano, dove interagiscono con diversi contesti culturali e senza avere gli strumenti per farlo, né loro e nemmeno le loro famiglie.
Siamo stati accolti bene anche dalla Pastorale Sociale e dalla Pastorale Indigenista, e dai molti volontari laici con i quali loro lavorano, e insieme abbiamo fatto in modo che i bambini fossero puntuali ai programmi di vaccinazione, partecipassero agli appuntamenti per la crescita e lo sviluppo e a tutti i programmi a favore della salute e dell'educazione iniziale.
Questo è il lavoro che faccio, Padre: continuare ad accompagnare perché i bambini non muoiano e non scompaia la cultura del popolo con le sue tradizioni e la sua storia.
In questo momento, per esempio, ci stiamo rendendo conto che molta tradizione orale si sta perdendo con la morte di molti anziani che conoscevano tutti i processi nei territori. Per questo diventa importante anche scrivere tutto, e questo è un altro compito che resta a noi giovani".
Oggi, 6 gennaio 2023, appena alzato ho visto la nuova macchina portata questa notte da Matteo. Si tratta di una Land Cruiser bianca che sarà la nuova ambulanza per l'ospedale. Finalmente, grazie all'impegno di tanti, il sogno si è avverato ed è diventato realtà.
Quando circa un anno fa Matteo parlava della necessità di un'ambulanza idonea per viaggiare su queste piste, io per primo - quando aveva specificato il costo per l'acquisto - avevo pensato che era una assurdità... di questi tempi sarà impossibile raccogliere una tale somma (60 mila €)!
Confesso che questa è la seconda volta che mi capita di peccare per mancanza di fiducia.
La prima volta è stato quando nel 2014 Matteo era in Italia per le sue prime vacanze dopo il suo ritorno in Costa d'Avorio. Io di solito accompagnavo Matteo ai vari incontri e appuntamenti che aveva ed una volta ho assistito, a Senigallia, ad una riunione insieme a Daniela Giuliani ed altri suoi amici Architetti e Ingegneri. Si parlava di progettare la costruzione di una chiesa a Dianra Village.
Seduto in un angolo della stanza, ascoltavo quanto dicevano in merito all'opera da realizzare e mi dicevo tra me: "Questi sono proprio dei sognatori matti!"
Infatti, nel 2007, io avevo visitato quel luogo dove loro, 7 anni dopo, pensavano di costruire la chiesa a Dianra Village. Il posto era un terreno sopraelevato rispetto al villaggio con tante grosse pietre. Su una di queste, all'ombra di alberi maestosi, i primi missionari della Società delle Missioni Africane –negli anni novanta– avevano celebrato la prima Messa, usandola come altare. Il terreno interessato era stato poi dato alla comunità cattolica perché dicevano che quel luogo elevato era abitato dagli spiriti...
Ebbene, nel 2019 ho avuto il privilegio di essere presente all'inaugurazione della nuova chiesa!
Oggi devo dire con assoluta certezza che la Provvidenza c'è! Esiste ed è veramente all'opera!
Basta avere fede, confidare nel Signore ed anche i sogni più impossibili possono realizzarsi e diventare realtà. Di questo sono stato testimone!
*Pietro Pettinari è il papà di padre Matteo che lavora in Costa d'Avorio
Da sinistra, Pietro, babbo di P. Matteo Pettinari che segue nella foto, la signora Carla Paccoia, promotrice principale del progetto, e Igino Pettinari