Sono con voi perché, ora come mai, il futuro di tutti dipende dal presente che scegliamo. Sono con voi perché la devastazione del creato è un’offesa a Dio, un peccato non solo personale ma strutturale che si riversa sull’essere umano, soprattutto sui più deboli, un grave pericolo che incombe su ciascuno e che rischia di scatenare un conflitto tra le generazioni. Sono con voi perché il cambiamento climatico è «un problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita umana» (Esort. ap. Laudate Deum, 3). Sono con voi per porre la domanda a cui siamo chiamati a rispondere ora: lavoriamo per una cultura della vita o della morte? Vi chiedo, in modo accorato: scegliamo la vita, scegliamo il futuro! Ascoltiamo il gemere della terra, prestiamo ascolto al grido dei poveri, tendiamo l’orecchio alle speranze dei giovani e ai sogni dei bambini! Abbiamo una grande responsabilità: garantire che il loro futuro non sia negato.
È acclarato che i cambiamenti climatici in atto derivano dal surriscaldamento del pianeta, causato principalmente dall’aumento dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana, che negli ultimi decenni è diventata insostenibile per l’ecosistema. L’ambizione di produrre e possedere si è trasformata in ossessione ed è sfociata in un’avidità senza limiti, che ha fatto dell’ambiente l’oggetto di uno sfruttamento sfrenato. Il clima impazzito suona come un avvertimento a fermare tale delirio di onnipotenza. Torniamo a riconoscere con umiltà e coraggio il nostro limite quale unica via per vivere in pienezza.
Che cosa ostacola questo percorso? Le divisioni che ci sono tra noi. Ma un mondo tutto connesso, come quello odierno, non può essere scollegato in chi lo governa. Il compito a cui siamo chiamati oggi non è nei confronti di ieri, ma nei riguardi di domani; di un domani che, volenti o nolenti, o sarà di tutti o non sarà.
Colpiscono, in particolare, i tentativi di scaricare le responsabilità sui tanti poveri e sul numero delle nascite. Sono tabù da sfatare con fermezza. Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti, mentre il divario tra i pochi agiati e i molti disagiati non è mai stato così abissale. Questi sono in realtà le vittime di quanto accade: pensiamo alle popolazioni indigene, alla deforestazione, al dramma della fame, dell’insicurezza idrica e alimentare, ai flussi migratori indotti.
Qual è la via d’uscita? Quella che state percorrendo in questi giorni: la via dell’insieme, il multilateralismo. Infatti, «il mondo sta diventando così multipolare e allo stesso tempo così complesso che è necessario un quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere […]. Si tratta di stabilire regole universali ed efficienti» (Laudate Deum, 42). È preoccupante in tal senso che il riscaldamento del pianeta si accompagni a un generale raffreddamento del multilateralismo, a una crescente sfiducia nella Comunità internazionale.
È essenziale ricostruire la fiducia, fondamento del multilateralismo. Ciò vale per la cura del creato così come per la pace: sono le tematiche più urgenti e sono collegate.
Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame» (Lett. enc. Fratelli tutti, 262; cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 51) e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico.
È compito di questa generazione prestare orecchio ai popoli, ai giovani e ai bambini per porre le fondamenta di un nuovo multilateralismo. Perché non iniziare proprio dalla casa comune? I cambiamenti climatici segnalano la necessità di un cambiamento politico. Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato. Abbracciamo una visione alternativa, comune: essa permetterà una conversione ecologica, perché «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali» (Laudate Deum, 70).
«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7)
La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo. Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta. Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte.
«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7). Questa Parola ci aiuta a cogliere l’essenza della nostra testimonianza. Soffermarci sul Libro di Tobia, un testo poco conosciuto dell’Antico Testamento, avvincente e ricco di sapienza, ci permetterà di entrare meglio nel contenuto che l’autore sacro desidera trasmettere. Davanti a noi si apre una scena di vita familiare: un padre, Tobi, saluta il figlio, Tobia, che sta per intraprendere un lungo viaggio. Il vecchio Tobi teme di non poter più rivedere il figlio e per questo gli lascia il suo “testamento spirituale”. Lui è stato un deportato a Ninive ed ora è cieco, dunque doppiamente povero, ma ha sempre avuto una certezza, espressa dal nome che porta: “il Signore è stato il mio bene”. Quest’uomo, che ha confidato sempre nel Signore, da buon padre desidera lasciare al figlio non tanto qualche bene materiale, ma la testimonianza del cammino da seguire nella vita, perciò gli dice: «Ogni giorno, figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandamenti. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia» (4,5).
Stupiscono non poco le parole di questo vecchio saggio. Non dimentichiamo, infatti, che Tobi ha perso la vista proprio dopo aver compiuto un atto di misericordia. Per la sua testimonianza di carità, il re lo aveva privato di tutti i suoi beni rendendolo completamente povero ma lui non ebbe timore di continuare nel suo stile di vita. Ascoltiamo il suo racconto, che parla anche a noi oggi: «Per la nostra festa di Pentecoste, cioè la festa delle Settimane, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola:la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi al figlio Tobia: “Figlio mio, va’, e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi. Tobia fece come gli aveva detto il padre, ma tornò con la notizia che un povero era stato ucciso e lasciato in mezzo alla piazza. Senza esitare, il vecchio Tobi si alzò da tavola e andò a seppellire quell’uomo. Tornato a casa stanco, si addormentò nel cortile; gli cadde sugli occhi dello sterco di uccelli e divenne cieco (cfr 2,1-10). Ironia della sorte: fai un gesto di carità e ti capita una disgrazia! Ci viene da pensare così; ma la fede ci insegna ad andare più in profondità. La cecità di Tobi diventerà la sua forza per riconoscere ancora meglio tante forme di povertà da cui era circondato. E il Signore provvederà a suo tempo a restituire al vecchio padre la vista e la gioia di rivedere il figlio Tobia. Quando venne quel giorno, «Tobi gli si buttò al collo e pianse, dicendo: “Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi!”.Ed esclamò: “Benedetto Dio! Benedetto il suo grande nome! Benedetti tutti i suoi angeli santi! Sia il suo santo nome su di noi e siano benedetti i suoi angeli per tutti i secoli. Perché egli mi ha colpito, ma ora io contemplo mio figlio Tobia”» (11,13-14).
Ringraziamo il Signore perché ci sono tanti uomini e donne che vivono la dedizione ai poveri e agli esclusi e la condivisione con loro; persone di ogni età e condizione sociale che praticano l’accoglienza e si impegnano accanto a coloro che si trovano in situazioni di emarginazione e sofferenza. Non sono superuomini, ma “vicini di casa” che ogni giorno incontriamo e che nel silenzio si fanno poveri con i poveri. Non si limitano a dare qualcosa: ascoltano, dialogano, cercano di capire la situazione e le sue cause, per dare consigli adeguati e giusti riferimenti. Sono attenti al bisogno materiale e anche a quello spirituale, alla promozione integrale della persona.
Nel 60° anniversario dell’Enciclica Pacem in terris, è urgente riprendere le parole del santo Papa Giovanni XXIII quando scriveva: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; e ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà» (n. 6). Quanto lavoro abbiamo ancora davanti a noi perché queste parole diventino realtà, anche attraverso un serio ed efficace impegno politico e legislativo!
Penso in modo particolare alle popolazioni che vivono in luoghi di guerra, specialmente ai bambini privati di un presente sereno e di un futuro dignitoso. Nessuno potrà mai abituarsi a questa situazione; manteniamo vivo ogni tentativo perché la pace si affermi come dono del Signore Risorto e frutto dell’impegno per la giustizia e il dialogo.
Non posso dimenticare le speculazioni che, in vari settori, portano a un drammatico aumento dei costi che rende moltissime famiglie ancora più indigenti. I salari si esauriscono rapidamente costringendo a privazioni che attentano alla dignità di ogni persona.
Come non rilevare, inoltre, il disordine etico che segna il mondo del lavoro? Il trattamento disumano riservato a tanti lavoratori e lavoratrici; la non commisurata retribuzione per il lavoro svolto; la piaga della precarietà; le troppe vittime di incidenti, spesso a causa della mentalità che preferisce il profitto immediato a scapito della sicurezza…
Questo elenco, già di per sé drammatico, dà conto in modo solo parziale delle situazioni di povertà che fanno parte del nostro quotidiano. Non posso tralasciare, in particolare, una forma di disagio che appare ogni giorno più evidente e che tocca il mondo giovanile. Quante vite frustrate e persino suicidi di giovani, illusi da una cultura che li porta a sentirsi “inconcludenti” e “falliti”.
I poveri sono persone, hanno volti, storie, cuori e anime. Sono fratelli e sorelle con i loro pregi e difetti, come tutti, ed è importante entrare in una relazione personale con ognuno di loro. Agire con e per i poveri è una questione di giustizia che ci impegna tutti a cercarci e incontrarci reciprocamente, per favorire l’armonia necessaria affinché una comunità possa identificarsi come tale. Interessarsi dei poveri, quindi, non si esaurisce in frettolose elemosine; chiede di ristabilire le giuste relazioni interpersonali che sono state intaccate dalla povertà. In tal modo, “non distogliere lo sguardo dal povero” conduce a ottenere i benefici della misericordia, della carità che dà senso e valore a tutta la vita cristiana.
La condivisione deve corrispondere alle necessità concrete dell’altro, non a liberarmi del mio superfluo. Anche qui ci vuole discernimento, sotto la guida dello Spirito Santo, per riconoscere le vere esigenze dei fratelli e non le nostre aspirazioni. Ciò di cui sicuramente hanno urgente bisogno è la nostra umanità, il nostro cuore aperto all’amore.
Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di santa Teresa di Gesù Bambino. In una pagina della sua Storia di un’anima scrive così: "ho capito che la carità non deve restare chiusa in fondo al cuore: “Nessuno, ha detto Gesù, accende una fiaccola per metterla sotto il moggio ma la si mette sul candeliere, affinché illumini tutti quelli che sono nella casa”. Mi sembra che questa fiaccola rappresenti la carità che deve illuminare, rallegrare non solo coloro che sono a me più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno»
In questa casa che è il mondo, tutti hanno diritto a essere illuminati dalla carità, nessuno può esserne privato. La tenacia dell’amore di Santa Teresina possa ispirare i nostri cuori in questa Giornata Mondiale, ci aiuti a “non distogliere lo sguardo dal povero” e a mantenerlo sempre fisso sul volto umano e divino del Signore Gesù Cristo.
Fratel Domenico Bugatti e padre Rinaldo Do chiedono aiuto per persone recluse in condizioni disperate e disumane.
È una storia di missione fin nel midollo quella di fratel Domenico Bugatti, missionario bresciano della Consolata, classe 1947, Premio Cuore Amico nel 2015.
Da oltre quarant'anni opera nella Repubblica Democratica del Congo dove si è occupato di bambini di strada, di ragazze madri e poi anche di formazione delle donne.
Ma c’è un impegno che fratel Domenico non ha mai lasciato. «Quarant'anni fa una comboniana, il giorno dopo il mio arrivo a Isiro, mi suggerì di andare a visitare le carceri. Chi conosce la situazione dei carcerati delle nostre prigioni può facilmente comprendere che razza di vita sub-umana e che sofferenze accompagnano la loro detenzione».
«Qui in carcere ci sono duecento e più persone, in maggioranza giovani confinati e “inscatolati” in un grande e unico stanzone, senza servizi igienici, con cibo scarso, e abbondanti odori nauseabondi. Fanno pena. Noi facciamo quello poco che possiamo. Loro mi considerano uno di famiglia».
Insieme a un altro missionario di origini bresciane, padre Rinaldo Do, pure lui Premio Cuore Amico, da oltre 25 anni, due volte al mese fratel Domenico e alcuni volontari visitano i carcerati e offrono un pranzo per la loro sopravvivenza, donando anche medicine e vestiti.
Quando dei prigionieri vengono trasferiti in ospedale fratel Domenico li visita regolarmente offrendo alimenti e medicine, perché non c'è il servizio sanitario gratuito.
Alimenti e medicine: è questo l’appello che lanciano i due missionari della Consolata per i carcerati. Un aiuto che avvalora le parole del Maestro: “Ero prigioniero e siete venuti a visitarmi”.
Approfittando di questo testo di padre Jalmir Matias de Oliveira, coordinatore della pastorale-afro nella diocesi di São Miguel Paulista, per cercare di capire il senso del perché è necessaria una pastorale afro. "Chiediamoci: qualcuno che afferma di essere cristiano può anche essere razzista o discriminare l'altro a causa del colore della sua pelle? È scandaloso che questo possa accadere all'interno della chiesa. È totalmente incompatibile con il Vangelo che crediamo e predichiamo agli altri.
In Brasile, almeno il 50% della popolazione si dichiara "negra". E dov'è tutta questa gente? Che fa? Dove abita? Come vive? Ci rendiamo conto di questa realtà?
C'è un profondo pregiudizio radicato dentro di noi di cui potremmo anche non essere colpevoli perché ci è stato inculcato, spesso fin dalla più tenera infanzia, dove dire nero è sinonimo di inferiore, di poco valore; quando non anche spregevole, inutile, sporco. Questa forma di pensare fa parte in qualche modo del nostro inconscio e pensiamo che sia normale. In questo caso parleremmo di razzismo strutturale: c'è un'intera struttura che è stata costruita per secoli che pone il nero in un luogo di subalternità. Struttura che è stata pensata e progettata perché fosse così.
Da qui la necessità di una Pastorale Afro. La nostra cura pastorale invita ad aumentare la consapevolezza di questo peccato strutturale in modo tale che possiamo adottare un atteggiamento antirazzista e aiutiamo i nostri neri a vedere il loro valore, ritrovare la loro auto stima, valorizzare la loro cultura, non vergognarsi della loro storia, dei loro antenati, portare anche alle nostre celebrazioni la gioia, la forza di questo popolo che combatte e resiste con i loro colori e i loro ritmi.
Il razzismo fa male, ti fa soffrire, causa innumerevoli problemi profondi nella vita delle persone. Oggi abbiamo i social network, dove le persone si nascondono nell'anonimato per diffondere messaggi di odio e pregiudizio, per ferire e attaccare. Per noi cristiani questo atteggiamento è peccaminoso. Se rompo il rapporto con i fratelli e le sorelle attraverso la discriminazione, rompo con la fraternità, rompo un rapporto con Dio.
Questa struttura di peccato, che genera morte negli altri, è una questione di giustizia sociale, ma per noi cristiani è anche una questione di fede. Un uomo, una donna di fede che non affronta il razzismo sono in totale contraddizione con il Vangelo. Il Signore, "che non discrimina le persone" (Sir 35,15), ci converta al rispetto degli altri!"
La pastorale afro-brasiliana, attraverso le sue istanze e attraverso i suoi pastori, è uno spazio di azione e di consapevolezza della Chiesa e della società per la realtà della popolazione afro-discendente. Agisce nel requisito dei diritti fondamentali di cittadinanza per tutti, specialmente per coloro che vivono ai margini della società, a causa del loro colore ed etnia. Attraverso la pastorale afro-brasiliana, la Chiesa segna la sua costante presenza nel combattere e condannare ogni forma di razzismo, pregiudizio, xenofobia e altre forme di discriminazione.
Rispondendo a tutte queste sfide nella Parrocchia di San Roque, abbiamo voluto lavorare nella prospettiva di aumentare la consapevolezza dei diritti e doveri del popolo nero, così come l'accettazione e l'apprendimento di ciò che significa fare parte di questa eredità culturale antica. Nel mese di Novembre abbiamo celebrato il mese della "coscienza nera" nel quale ci siamo avvicinati in modo speciale alle scuole con l'intenzione di sensibilizzare le persone a proposito della loro identità afro. Ci aiutano anche i programmi educativi di queste scuole che prevedono nel loro curriculum spazi e modalità per approfondire l'identità afro degli studenti.
Un'altra attività è stata il "Cinema in Piazza": il primo novembre si è proiettata la pellicola "Stars Beyond Time" che ha ricordato a tutti gli assistenti che possiamo rompere i nostri ostacoli e raggiungere i nostri obiettivi anche con le avversità.
In occasione della visita ad limina i missionari e i fedeli della parrocchia hanno inviato un dono simbolico al Papa Francesco, un "pandeiro" (tamburello) consegnato dall'arcivescovo di Feira de Santana, don Zanoni Demettino Castro. Papa Francesco non solo l'ha ricevuto ma l'ha anche suonato. Questo strumento cosí tradizionale è "segno della gioia di Bahia, segno della gioia del Vangelo". Per tutti noi è stato motivo di grande gioia e gratitudine.
*Ibrahim Muinde è missionario della Consolata e lavora nella parrocchia di São Roque Matinha dos Pretos