Per i Missionari e le Missionarie della Consolata in America, il riconoscimento del miracolo di Sorino Yanomami per intecerssione del Beato Giuseppe Allamano ha un significato molto particolare: è il sigillo, la conferma di un’opzione che assunsero negli ultimi decenni e che caratterizza la missione nel continente: la missione con i popoli indigeni.
Perché questa opzione? Perché si può dire con chiarezza oggi che l’ad gentes in America trova piena espressione in questa scelta apostolica? Per rispondere a queste domande, ripercorriamo a grandi linee la storia del movimento indigenista e il ruolo della Chiesa accanto ai popoli nativi.
Il movimento indigenista in America Latina sorge attorno agli anni Settanta, quando si formano organizzazioni che agglutinano persone che si riconoscono in un’appartenenza etnica, più o meno direttamente (in Ecuador: la federazione SHUAR è una delle prime, fondata nel 1961, raggruppa popoli amazzonici; CRIC è un’associazione dei popoli andini della Colombia; il movimento katarista nella Bolivia andina e il CIDOB nell’area amazzonica).
Prima d’allora, infatti, se escludiamo il caso dei Mapuche in Cile, che sempre sottolinearono l’elemento etnico, le organizzazioni popolari nei vari paesi latinoamericani si riunivano generalmente come associazioni rurali. Questo cambio di rotta è significativo: oltre al riconoscersi come un gruppo sociale di estrazione popolare, i membri di queste associazioni iniziarono a sottolinerare l’aspetto etnico, cambiando anche la prospettiva dei problemi e delle rivendicazioni.
Argentina: visita alle famiglie Wichi e Toba. Foto: Archivio MC
Un esempio molto significativo è la rivendicazione della terra, un problema sociale spinoso fino al giorno d’oggi in America Latina: molte persone si vedono private del diritto di possedere terra per coltivare, concentrata nelle mani di pochi latifondisti. Nel corso della riflessione e della rivendicazione, oltre a parlare di diritto alla terra, si inizia a considerare il territorio, che è un concetto molto più ampio e complesso.
Il territorio non si riferisce solo a un’estensione geografica riservata a un gruppo etnico-sociale, ma contempla diversi punti di riferimento che un determinato spazio contiene: quelli simbolici, significativi per la cosmovisione del popolo e per la religiosità del gruppo (esempio: montagne o altri luoghi considerati sacri, per la presenza di spiriti o degli antenati, i luoghi di culto, tutto ciò che costituisce la “geografia simbolica” o “geografia sacra” di un popolo) come anche quelli produttivi per la vita concreta di lavoro e produzione (foresta, fiumi e laghi per la caccia, la pesca, il raccolto dei frutti, i campi per coltivare).
Il momento storico che stava vivendo gran parte dell’America Latina era molto particolare: il movimento indigenista nasce durante il tempo delle dittature militari di estrema destra, che riducevano la libertà e opprimevano le classi più umili, a favore di un’oligarchia minoritaria. Sappiamo le atrocità commesse in tanti Paesi (i desaparecidos, cioè le persone scomparse, le torture, gli esili...) e i tanti martiri anche tra gli indigeni che furono trucidati per l’opposizione manifestata alla politica repressiva e oligarchica.
Nello stesso periodo inizia la migrazione dalle aree rurali alle città di un consistente numero di famiglie; la conseguente urbanizzazione di masse di contadini per un certo verso facilita l’organizzazione e il reclutamento di membri per le nascenti organizzazioni indigene.
Brasile: educazione nelle comunità Yanomami. Foto: Archivio MC
Un aiuto grande per l’organizzazione di questi nuovi movimenti fu dato dalle ONG, sempre più presenti e vicine alle realtà locali. Si tratta di istituzioni di diversa posizione politica/ideologica/religiosa: dai “verdi” che iniziano a battersi per la difesa dell’Amazzonia, a ONG di stampo cristiano, passando per una numerosa serie di altre posture ideologiche, inclusi i movimenti di sinistra estrema e moderata. Sono proprio queste organizzazioni internazionali che promuovono la formazione di leader locali a livello universitario che assumono quindi un ruolo da protagonisti nei negoziati tra Stato e movimenti indigeni.
“La lucha ya no debe ser con arcos y flechas, sino con lápiz y papel” (Mateo Chumira, leader guaranì). “la lotta non deve più essere con arco e freccia, ma con lapis e carta”
Negli anni Ottanta, con il graduale ritorno alla democrazia, il movimento indigenista continua le negoziazioni con i nuovi governi, fino ad ottenere importanti risultati, in modo speciale la riforma delle Costituzioni nazionali, in cui vengono inseriti articoli che riconoscono i popoli indigeni e i loro diritti (diritto alla terra, diritto all’istruzione bilingue...).
Il 19 aprile 1989 è stato creato il Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell'Amazzonia Brasiliana (COIAB), un'organizzazione regionale del movimento indigeno che fa parte dell'Articolazione nazionale dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB) con 75 organizzazioni membri.
Manifestazione dei popoli indigeni organizzata dal COIAB a Brasilia. Fonto: Felipe Beltrame
E così la Chiesa cattolica, e in essa i Missionari e Missionarie della Consolata, che stette al fianco dei fratelli e sorelle nativi nella fatica della rivendicazione, poté condividere con loro anche la gioia immensa che diede questo risultato.
In questo breve scorcio della realtà dell’ America Latina negli Anni Settanta/Ottanta/Novanta, possiamo adesso inserire le scelte che i Missionari e le Missionarie della Consolata hanno assunto, focalizzandoci sulla presenza consolatina in Roraima, stato del Nord de Brasile, in piena area amazzonica.
Le Missionarie della Consolata arrivarono in Roraima nel 1949, mentre i confratelli erano già arrivati nel 1948. Nei primi decenni le attività principali si svolgevano nel campo della sanità, dell’educazione e dell’assistenza sociale nella città di Boa Vista. Nell’epoca precedente il Concilio Vaticano II, i Missionari e le Missionarie visitavano l’area rurale per la “desobriga”, ovvero: per amministrare i Sacramenti e permettere a tutti i cristiani di confessarsi e fare la comunione almeno una volta all’anno per Pasqua, secondo il precetto della Chiesa.
I Missionari della Consolata arrivano a Catrimani nel 1965. Già negli Anni Settanta le Sorelle raggiungevano l’area Yanomami per assistenza sanitaria; è nel 1990 che le Missionarie si stabiliscono come comunità in Catrimani, condividendo la vita con il popolo Yanomami e lavorando in modo speciale nella sanità e nell’educazione, insieme ai confratelli. La decisione di aprire questa comunità è stata presa come “ringraziamento per la beatificazione di Giuseppe Allamano, il Padre Fondatore”, che proprio quell’anno veniva beatificato.
Incontro di formazione dei leader indigeni nel 1977 nella Terra Raposa Serra do Sol, Roraima. Foto: Lirio Girardi
La scelta di vivere insieme ai popoli indigeni è stata abbracciata in diverse realtà dell’America Latina: per quanto riguarda le Missionarie della Consolata, nel 1991 in Bolivia aprono la presenza a Poopò con il popolo quechua e a Tencua, con il popolo Yecuana, nell’Amazzonia venezuelana; nel 1992 le Sorelle in Argentina aprono la comunità di Comandancia Frías, con il popolo Wichi, nell’Impenetrabile chaqueño e nel 1994 in Colombia le comunità di Puerto Cayetán e Resguardo Guacoyo.
Nel documento Ratio Missionis delle Suore Missionarie della Consolata, si dà questa lettura del cammino compiuto:
“Dagli Anni Novanta del secolo scorso le varie Circoscrizioni del Continente si sono decisamente orientate verso la presenza tra i popoli originari o nativi. L’esperienza e la riflessione hanno mostrato e sempre più confermato che l’ad gentes in America trova la sua espressione in questa opzione apostolica. La Regione America [nata nel 2018, n.d.r.] ha riconfermato la scelta della missione tra i popoli originari come priorità della Circoscrizione.
In un primo tempo, le Missionarie della Consolata hanno affiancato i gruppi nativi nella rivendicazione dei propri diritti, negati dagli Stati nazionali e usurpati dai potenti locali. Con il tempo, si è unito l’impegno per conoscere sempre più profondamente le culture e le spiritualità dei popoli, in un dialogo semplice, quotidiano, che richiede tempi prolungati e relazioni significative con la gente” (Ratio Missionis, 4.8.2).
Questo piccolo inquadramento storico può dare un’idea di cosa significa per i Missionari e le Missionarie della Consolata in America questo miracolo riconosciuto all’intercessione di Padre Fondatore a favore di un uomo Yanomami, nel 1996, proprio in quegli anni in cui tanti missionari e missionarie davano il meglio di sé, anche a rischio della vita, per i fratelli e le sorelle indigeni dell’America.
È il riconoscimento di un’opzione assunta a favore dei più emarginati delle società latinoamericane, suggellato da un miracolo che porta alla canonizzazione il nostro Fondatore. È la benedizione di un cammino che continua oggi, con l’opzione prioritaria della missione ad gentes con i popoli originari del Continente.
* Suor Stefania Raspo, MC, Consigliera Generale.
ALBÓ, Xavier, “El retorno del indio” in: Revista Andina, Cuzco, Perú, 1991.
CAUREY, Elías, Asamblea del pueblo guaraní. Un breve repaso a su historia. Bolivia, 2015.
MISSIONARIE DELLA CONSOLATA, Ratio Missionis. Visione della missione secondo il Carisma delle Suore Missionarie della Consolata. Nepi, 2023.
Ha avuto inizio lunedì 19 agosto il quinto Incontro della Chiesa nell'Amazzonia Legale che riunisce a Manaus, fino al 22 agosto, vescovi e rappresentanti delle 58 comunità ecclesiali della regione brasiliana. "Memoria e Speranza" i cardini della riflessione di quest'anno
L'incontro, organizzato dalla Commissione episcopale speciale per l'Amazzonia e dalla Rete ecclesiale Pan-Amazzonica (REPAM-Brasile), è iniziato con una celebrazione che, secondo il cardinale Steiner, arcivescovo di Manaus e presidente della Regione Nord 1 della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB Nord 1), ha portato grande gioia alla Chiesa locale.
All'apertura dei lavori, Steiner ha dichiarato che "è sempre importante incontrarci per creare più comunione, riflettere insieme sull'evangelizzazione, rimanere fedeli allo spirito missionario della nostra Chiesa e valutare il nostro cammino". Un cammino missionario sinodale che ha "orizzonti molto significativi", ha affermato il cardinale, auspicando che l'incontro sia un'opportunità per "continuare a sognare, per essere una Chiesa profondamente incarnata, prendendo in considerazione i sogni di Papa Francesco", e quindi per "essere una Chiesa che canta veramente la libertà, e nel cantare la libertà, s'incarni nelle culture presenti, per essere veramente segno di speranza".
Da parte sua il presidente del Consiglio indigenista missionario (CIMI) ha ribadito la necessità di "includere sempre di più la vita dei popoli indigeni", menzionando le difficili condizioni ambientali in cui si trova l'Amazzonia.
Mons. Evaristo Spengler, vescovo di Roraima e presidente della REPAM-Brasile
Il cardinale Pedro Barreto, arcivescovo emerito di Huancayo (Perù) e presidente della Conferenza ecclesiale dell'Amazzonia (CEAMA), ha evidenziato la lunga storia della Chiesa in Amazzonia, sottolineando la necessità di "essere consapevoli di aver ereditato una sacra eredità dai nostri predecessori che vi hanno lavorato". Ha ringraziato per "tutto lo sforzo che si sta facendo per camminare insieme nella comunione, partecipando tutti all'unica missione di Cristo".
A nome della presidenza della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB), il vescovo ausiliare di Brasilia e segretario generale della CNBB, mons. Ricardo Hoepers, ha ricordato il cammino della Chiesa in Amazzonia, iniziato con il primo incontro inter-regionale nel 1952, e sottolineando che "la perseveranza ci insegna che vale la pena continuare con entusiasmo questo processo". Hoepers ha riflettuto sui retrocessi che avvengono ogni giorno nella regione amazzonica, come la deforestazione, e ha mostrato la preoccupazione dell'episcopato brasiliano per i popoli indigeni, "i più colpiti", denunciando "la gravità delle cose che stanno accadendo" nel Paese a cui si cerca di rispondere. Ha ricordato il tema della Campagna della Fraternità del 2025 incentrata sull'ecologia integrale, "un'opportunità per sensibilizzare tutto il Brasile".
Suor Carmelita Conceição, vicepresidente della Rete ecclesiale Pan-amazzonica (REPAM), che compie 10 anni, ha citato la realtà della siccità che sfida a "dar segni di vita e speranza nell'Amazzonia", vedendo l'incontro come un aiuto per "capire cosa fare e come posizionarci di fronte a così tante sfide".
Kenarik Boujikian, rappresentante del governo brasiliano in qualità di segretaria nazionale per i dialoghi sociali e l'articolazione delle politiche pubbliche della presidenza della Repubblica, ha sottolineato il ruolo della sua istituzione nel mantenere il dialogo tra il governo e la società civile e i movimenti sociali, ricordando la centralità dei movimenti popolari per Papa Francesco. Ha evidenziato l'importanza dei "quaderni di risposte" presentati in risposta alle richieste della Chiesa brasiliana, affermando che non intendono fornire soluzioni definitive ma sono uno strumento di lavoro, suddiviso in quattro assi: emergenza climatica; diritti dei popoli delle acque, della campagna e delle foreste; regolarizzazione fondiaria; denunce e violazioni dei diritti nei territori.
Mons. Gilberto Pastana, arcivescovo di São Luis e presidente della Commissione episcopale speciale per l'Amazzonia
In questo contesto, "la REPAM-Brasile vuole essere un servizio ecclesiale, articolato con molti movimenti e organizzazioni della società civile - ha affermato il suo presidente, il vescovo di Roraima, dom Evaristo Spengler -, con l'obiettivo di preservare i diritti dei nostri popoli e dei nostri territori". Rispondendo ai "quaderni", il vescovo ha affermato che "le nostre azioni supportano e danno visibilità alle iniziative pastorali delle comunità e organizzazioni ecclesiali, basate su una spiritualità incarnata, nella difesa della vita dei popoli e della biodiversità amazzonica per costruire il buon vivere". Dom Spengler ha ricordato le visite effettuate a 13 ministeri e altre entità per portare al governo i risultati dell'ascolto ai popoli, e che ha portato alla formulazione dei "quaderni di risposte".
L'arcivescovo di São Luis e presidente della Commissione episcopale speciale per l'Amazzonia, Gilberto Pastana, ha riaffermato la volontà "di essere fedeli alle sfide del Signore”, invitando a “dare continuità a tutta questa ricchezza raccolta e osservata nei progressi e nelle difficoltà della nostra azione evangelizzatrice”. Monsignor Pastana ha anche chiesto di rafforzare l'impegno missionario e di “individuare i passi concreti che lo Spirito Santo sta rivelando alla Chiesa in Amazzonia per realizzare e far crescere la comunione, la missione e la partecipazione”.
* Originalmente pubblicato in www.vaticannews.va.www.vaticannews.va. Con informazione di Luis Miguel Modino, comunicazione CNBB Nord1
“Assumere la causa indigena come causa della Chiesa”.
Il Consiglio Indigenista Missionario (Cimi) ha presentato, lunedì 22 luglio, presso la sede della Conferenza Episcopale del Brasile (CNBB) a Brasilia (DF), il Rapporto sulla violenza contro i popoli indigeni in Brasile - 2023. Ricordiamo che in Brasile vivono 305 popoli indigeni, di 116 registrati come popoli in isolamento volontario, che, per questo, sono sempre più vulnerabili di fronte alla logica che antepone il profitto alla vita.
L’incontro è iniziato con un rituale indigeno e con la denuncia della violazione dei diritti e della inerzia delle autorità nello Stato di Mato Grosso do Sul, aggravata dalla mancanza di demarcazione delle terre indigeni. Erano presenti l'arcivescovo di Manaus e presidente del Cimi, il cardinale Leonardo Steiner, il segretario esecutivo del Cimi, Luis Ventura; gli organizzatori del rapporto, la sociologa Lucia Helena Rangel e Roberto Antônio Liebgott, la regista e antropologa Ana Carolina Mira Porto e due rappresentanti dei popoli indigeni: il capo della Terra Indigena (TI) Caramuru, Catarina Paraguassu, nel sud-ovest di Bahia, Nailton Muniz, Pataxó Hã-Hã-Hãe, e la leader Avá-Guarani del tekoha Y'Hovy, nella TI Tekoha Guasu Guavirá, nel Paraná occidentale, Vilma Vera.
Presentazione del Rapporto sulla violenza contro i popoli indigeni in Brasile - 2023. Foto: Willian Bonfim
Il Rapporto, si sviluppa in tre capitoli e 19 categorie di analisi, presenta una panoramica delle varie forme di violenza e di violazioni commesse contro le popolazioni indigene in tutto il Paese nel 2023, primo anno del terzo mandato dell'amministrazione del Presidente Lula, che, al momento, ha fatto poco sulla questione indigena. Secondo il rapporto, infatti, la violenza contro le popolazioni indigene in Brasile non è diminuita.
Secondo Lucia Helena Rangel, il Congresso nazionale, i deputati e i senatori intendono legiferare per porre fine ai diritti degli indigeni e incitare alla violenza. La sociologa ha sottolineato che il Rapporto include 150 casi di conflitti per i diritti territoriali, 276 casi di invasioni, sfruttamento illegale delle risorse e danni alla proprietà, 850 casi di omissione e ritardo nella regolarizzazione delle terre, 411 casi di violenza, tra cui 208 omicidi, nonché 1.040 bambini fino a 4 anni uccisi a causa dell'omissione di soccorso del governo e 180 suicidi.
Da qui l'importanza di questo “grido di denuncia, che mira a dare visibilità alla situazione e alla realtà dei territori indigeni e, nello stesso tempo, di manifestazione della resistenza dei popoli indigeni”, ha dichiarato Luis Ventura. “È un documento che mira a sollecitare ed esigere che i responsabili prendano misure urgenti per affrontare questa violenza permanente e strutturale contro i popoli indigeni”, ha sottolineato il segretario esecutivo del Cimi.
Il cardinale Leonardo Steiner ha ricordato che “i popoli indigeni sono una testimonianza vivente dell'audacia e della perseveranza della lotta”. Inoltre, ha denunciato come nel corso della storia del Brasile da una parte “i popoli indigeni sono stati cacciati, poi schiavizzati, poi difesi dai sacerdoti gesuiti, dall’altra, però, nel corso della storia brasiliana, i popoli indigeni sono sempre stati massacrati”, causando la distruzione delle culture e la scomparsa delle lingue”. Per questo, ha insistito il cardinale è urgente e necessario “portare avanti la vera missione che abbiamo ricevuto, ovvero quella di far sì che la causa indigena diventi anche la causa della Chiesa”.
Mons. Leonardo Steiner ha affermato che stiamo vivendo “un momento estremamente difficile, perché il Congresso Nazionale ha perso l'orizzonte dell'etica, ma peggio, ha perso la morale, perché pensa di poter imporre certe leggi ai popoli indigeni, dimenticando che c'è una giustizia da cui deve scaturire la legge. Vi è la legge, vi è la giustizia, e la giustizia non coincide con le leggi che vengono elaborate e con tutti i tentativi che sono stati fatti nel Congresso Nazionale”, evidenziando che la Chiesa cattolica è al fianco dei popoli indigeni.
Il rapporto verrà consegnato alle autorità brasiliane e a Papa Francesco, “come testimonianza del servizio che la Chiesa sta svolgendo in Brasile a favore dei popoli indigeni”.
I leader indigeni presenti hanno denunciato la negazione e la violazione dei diritti dei popoli indigeni in Brasile. Vilma Vera ha ricordato che “con molte difficoltà e molta lotta il nostro popolo ha conquistato diversi diritti all'interno della Costituzione Federale”, ha affermato. La situazione di odio e pregiudizio in corso ha spinto la leader indigena a chiedere: “fino a quando il Brasile continuerà ad assistere a questo massacro? Fino a quando il sistema giudiziario brasiliano andrà contro la popolazione indigena, creando e approvando leggi totalmente contrario alla legislazione? Fino a quando assistere alla morte dei nostri parenti?” Poi ha lanciato un appello affinché la giustizia svolga il suo ruolo, la società civile brasiliana aiuti i popoli indigeni e si ponga fine a questo massacro silenzioso, compresa l’uccisione dei bambini, che hanno diritto al loro territorio.
Lucine Barbosa della Terra Indígena Laranjeira Nhanderu, Mato Grosso do Sul
Il leader indigeno dal 1975, Nailton Muniz del popolo Pataxó Hã-Hã-Hãe, ha raccontato le violenze subite da lui e dal suo popolo in tutto quel tempo, con l’aggravarsi della situazione nel gennaio 2024. A nome del suo popolo, ha denunciato per l’ennesima volta, che “è triste vivere in un Paese che non rispetta la nostra Costituzione” e non garantisce i diritti fondamentali ai popoli indigeni. Ciò che maggiormente preoccupa i leader indigeni, è poter costituire un'organizzazione, unire le forze anche a livello spirituale, in modo tale da ottenere la demarcazione delle loro terre. Di fronte alle continue uccisioni di indigeni e alla mancanza di protezione da parte delle autorità, egli afferma con audacia che “il sistema giudiziario è contro di noi”.
L'odio e la rappresaglia colpiscono anche i sostenitori e i simpatizzanti degli indigeni, secondo la regista e antropologa Ana Carolina Mira Porto che ha denunciato l'invisibilità della questione indigena nei mezzi di comunicazione e l'impunità degli attacchi contro i popoli indigeni e i loro sostenitori. Ha parlato apertamente di un genocidio in corso, che sta causando morti, feriti e traumi per molte persone. Per questo ha chiesto l'auto demarcazione, la giustizia e il no al “Marco temporale”, proposta di legge che rende questi popoli ancora più vulnerabili.
* Padre Luis Miguel Modino, comunicazione della CNBB Norte1
Scarica qui la sintesi del Rapporto in italiano
III Marcia delle donne indigene, settembre 2023. Foto: Maiara Dourado/Cimi
I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che si propone rafforzare il dialogo interculturale con il fine di camminare insieme verso la monifue (“la vita piena”) e costruire una Chiesa più vicina alla realtà dei popoli indigeni.
Nell’Amazzonia peruviana vivono 51 popoli nativi, di cui nove si trovano nel Vicariato di San José del Amazonas; una Chiesa particolare che nel corso dei suoi anni ha camminato e navigato a fianco delle popolazioni indigene, come nel caso di Juan Marcos Coquinche Mercier, che da anni vive inserito nella cultura “Naporuna” (indigena Kichwa della regione prossima al fiume Napo).
Il Sinodo per l'Amazzonia, che è stato celebrato nell’ottobre del 2019, proponeva nuove modalità nelle relazioni fra Chiesa cattolica e territorio, culture e vita ancestrale. Si tratta di camminare con i criteri di Papa Francesco che, a Puerto Maldonado, aveva detto alle popolazioni indigene “aiutate i vostri missionari a diventare una cosa sola con voi”.
Tutto è una sfida rivolta alle Chiese locali che dovranno riflettere quotidianamente e concretamente su come camminare insieme a questi popoli nel qui e ora.
Con la consapevolezza che il piano pastorale del Vicariato Apostolico di San José del Amazonas non è all'altezza dell'opzione indigena, i rappresentanti di sei missioni che convivono direttamente con i popoli indigeni, assieme ad alcuni membri del personale amministrativo, si sono incontrati per condividere le comuni preoccupazioni ed esperienze su come dare passi concreti verso una opzione preferenziale per i popoli indigeni. Con rispetto a questo tutti siamo consapevoli che ciò richiede una conversione nelle forme, metodi, tempi, ritmi, lingua e spiritualità.
Si è quindi consolidata la proposta di tenere una prima Assemblea dei Popoli Indigeni con i missionari che liberamente desideravano far parte di questo processo: sentire, imparare, camminare con loro, insieme nella costruzione della monifue, quella pienezza di vita che nel nostro caso si basa sulla gratuità e l'interculturalità.
Padre Fernando Flórez è accolto dalla comunità indigena Murui di Puerto Refugio sulle rive del fiume Putumayo, Perù
A questo processo si è unito anche il Vicariato come istituzione - si unisce, consigliato dai nonni e dalle nonne del territorio. Così, nel villaggio di Angoteros, dal 27 di giugno al primo di luglio 2024, si sono incontrati i rappresentanti dei popoli Tikuna, Arabela, Murui-Uitoto, Yagua, Secoya, Bora, Maijuna, Okaina, Kichwa, nonché missionari, missionarie e alcune istituzioni che desiderano tenere pronti i propri remi per meglio navigare con questi popoli.
L'obiettivo non era altro che quello di offrire uno spazio di dialogo tra culture che permettesse conoscersi, valorizzarsi e camminare insieme e seminare la parola di vita dalla loro saggezza.
Per i popoli indigeni il termine monifue significa abbondanza e questa prima assemblea rappresenta proprio questo: il raccolto di questa grande chagra (campo) seminata nella diversità che non ha mai rappresentato una minaccia ma una promessa. Il monifue si può vedere riflesso, tra le altre cose, in questi quattro aspetti che possiamo mettere in evidenza.
* Padre José Fernando Flórez Arias, IMC, missionario nel Vicariato di San José del Amazonas, Perù.
Missionari e missionarie della Consolata in visita alla Missione Putumayo a Suplin Vargas, Perù, nel febbraio 2022. Foto: Jaime C. Patias
L’XI riunione del Foro social panamazonico (Fospa)
Foresta pluviale e fiumi, ma anche 2,5 milioni di specie animali, 40mila specie floreali, almeno 375 popoli indigeni e 35 milioni di persone che vivono in aree rurali e urbane. Questa è l’Amazzonia che nove paesi del Sud America hanno la fortuna e l’onere di condividere.
Un mondo in pericolo. Anzi, secondo gli scienziati molto vicino a un punto di non ritorno. Per parlare di questo dal di dentro, nel 2001 è stato creato il Foro social panamazonico (Fospa), che dal 12 al 15 giugno si è riunito per l’undicesima volta, quest’anno a Rurrenabaque e San Buenaventura, in Bolivia.
Nei quattro giorni del convegno si sono affrontati i principali problemi che affliggono l’Amazzonia.
Il dettagliato comunicato finale ha un lungo preambolo politico che può essere riassunto in tre imperativi: la lotta per il futuro si fa ora; non ci sono soluzioni se non si consultano i popoli indigeni; nessun governo può rivendicare il diritto di parlare a nome dei popoli. Date queste premesse, il Fospa elenca 46 punti programmatici e rivendicativi per quattro grandi aree tematiche: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre terra, estrattivismo (attività di prelievo di risorse naturali, ndr) e alternative, resistenza delle donne.
Le comunità native (popoli indigeni, ma anche afrodiscendenti e comunità tradizionali dei fiumi), radicate nel territorio, vogliono esercitare l’autonomia secondo le proprie regole e procedure, separandosi dalla tutela statale che ha finora segnato la storia. La ricerca dell’autogoverno e dell’autodeterminazione per intraprendere la strada di uno sviluppo autonomo è, dunque, un obiettivo prioritario.
Vista aerea della Terra indigena Gaviao del popolo Mura, nell'Amazzonia brasiliana. Come tutte le terre indigene è minacciata dall'estrattivismo. Foto: Bruno Kelly - Amazonia Real
L’Amazzonia – viene affermato nel comunicato – ha raggiunto il punto di non ritorno e si trova in emergenza climatica. Il collasso che deriva dalla deforestazione e dall’estrattivismo mette a rischio la sua sopravvivenza, quella delle comunità che lo abitano e la vita dell’intero pianeta. I paesi responsabili del riscaldamento globale dovrebbero assumersi la responsabilità del loro debito ecologico contribuendo alla rigenerazione dell’Amazzonia mentre tutti i paesi panamazzonici dovrebbero adottare il paradigma sociale del «Buen vivir».
Il Fospa elenca poi quelle che, a suo giudizio, sono false soluzioni alla crisi climatica: i crediti di carbonio, i meccanismi di compensazione della biodiversità, i megaprogetti di transizione energetica, la geoingegneria, l’energia nucleare e altre proposte basate sulla logica della compensazione e della mercificazione della natura. Si tratta – viene spiegato – di meccanismi commerciali per le grandi aziende e gli Stati storicamente responsabili della crisi climatica globale.
Il punto 26 è una richiesta tanto fondamentale quanto di difficilissima realizzazione: viene richiesto un accordo internazionale per dichiarare la regione amazzonica zona vietata a tutte le forme di estrattivismo minerario.
Gli ultimi punti del documento sono dedicati alle donne panamazzoniche perché esse sono in prima linea nella lotta e nella difesa della sovranità dei propri corpi, della Madre natura e dei territori. Contro il patriarcato, il colonialismo, il capitalismo e l’estrattivismo.
Gran parte delle prese di posizione del Foro social panamazonico appaiono totalmente giustificate e condivisibili. Occorre capire quanto le sue affermazioni di principio possano tradursi in applicazioni pratiche in una realtà complessa qual è l’Amazzonia. E, soprattutto, in quanto tempo visto che la variabile temporale è determinante.
* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it