Fuori dalle chiese, con i cristiani
Dopo una settimana di silenzio, tornano a suonare le campane delle chiese nella capitale siriana. Ci troviamo a Bab Tuma (in arabo, La porta di Tommaso), il quartiere cristiano della capitale siriana. Oggi si celebreranno le messe, ma si terranno in un’atmosfera completamente diversa. I riti religiosi avranno luogo in una «nuova» Siria, dopo 54 anni di regime della famiglia degli Assad.
Un’ora prima dell’inizio delle funzioni, Georges Assadourian, vescovo della Chiesa cattolica armena di Damasco, ci invita per raccontarci come la sua comunità ha vissuto quest’ ultima settimana. «I ribelli hanno cominciato prendendo Aleppo, perché quello è il centro economico della Siria. In questi anni, ci sono stati diversi attacchi per provare ad entrare qui, nella capitale, ma sempre senza successo. Il sabato prima della presa di Damasco avevamo programmato una preghiera. Tanti cristiani hanno avuto paura dell’arrivo degli uomini dell’Hts (Hay’at Tahrir al-Sham), siamo stati spaventati dal loro modo di presentarsi, e dall’origine estremista dei loro gruppi di appartenenza. Abbiamo avuto il timore che sarebbero tornate le persecuzioni contro i cristiani, così come accadde nei luoghi sotto il controllo dell’Isis.
Quando il gruppo di al-Julani è arrivato a Damasco, abbiamo chiesto di poter incontrare un rappresentante per capire le loro intenzioni. Siamo andati a incontrarli al Four Season, l’hotel occupato e adibito a quartier generale temporaneo. Ci hanno rassicurato, dichiarando di volere solo la pace e che il tempo della guerra è finito. Ci hanno promesso che non avremo nulla da temere e che tutte le religioni coesisteranno insieme. Se sarà così, io non posso dirlo, ma sono ottimista. Certo, da parte dei fedeli ci sono diverse preoccupazioni. In questo governo, anche se temporaneo, sono tutti musulmani, alcuni magari anche estremisti. Noi invece vorremmo uno Stato laico. In uno stato laico ognuno è libero di professare la propria religione.
Alcuni degli uomini di Julani, sono già andati nei negozi che vendono alcolici chiedendo, anche se momentaneamente, di non venderli. Ogni giorno ricevo circa 50-60 persone che, come cristiani in Siria, cercano rassicurazioni sul loro futuro. Non possiamo fare previsioni, possiamo solo attendere e vedere cosa accadrà. Posso dire che, comunque, anche se le intenzioni fossero quelle di radicalizzare la Siria, a Damasco sarebbe molto difficile farlo. Siamo un mosaico di tante culture e religioni diverse, credo che la gente non permetterebbe mai l’istituzione della sharia, almeno qui nella capitale».
Il francescano Firas Lutfi della chiesa dedicata alla Conversione di San Paolo, nel quartiere cristiano di Bab Tuma, a Damasco. Foto: Angelo Calianno
Camminando per il quartiere cristiano, si respira un’aria totalmente diversa rispetto a quella che c’era sotto il regime. La gente festeggia e, pian piano, sta perdendo quella costante paura di finire in galera con qualsiasi pretesto. Fotografie e poster, raffiguranti Assad, che decoravano letteralmente ogni angolo delle strade, ora sono fatte a pezzi. I proprietari dei negozi dipingono di bianco le proprie serrande, cancellando la vecchia bandiera della Siria, per poi dipingere quella con i nuovi colori.
Raggiungiamo la chiesa latina dedicata alla Conversione di San Paolo, sempre nel quartiere di Bab Tuma. Parlando con i fedeli che escono dalla messa, tutti ci esprimono la gioia di non essere più sotto un regime, e la speranza di non ritrovarsi presto con un altro dittatore. Malgrado questo, nessuno dei cristiani riesce a sbilanciarsi troppo sul futuro, tutti sono molto cauti.
Finito di celebrare la messa, il frate francescano Firas Lutfi ci racconta: «Ora abbiamo sentimenti contrastanti. Gioia, perché l’incubo di Assad è finito. Preoccupazione, perché questi gruppi di ribelli vengono da un background islamico estremista. Ci hanno promesso che saremo tutti liberi senza nessuna persecuzione. Quindi, ora attendiamo per vedere quello che accadrà nel concreto.
Quello che noi speriamo, è che tutto sia stabile per arrestare la fuga dei cristiani da questo Paese. Non vogliamo essere considerati una minoranza nel nostro Stato, ma dei cittadini a tutti gli effetti. Si avvicina il Natale, lo celebreremo come abbiamo sempre fatto. Sarà un Natale uguale a quello di Gesù, con povertà e scarsità. Per tutto il resto, ora ci sono solo due cose che possiamo fare, da un punto di vista pratico: attendere, per vedere come si evolverà questa situazione e quali saranno le intenzioni del nuovo governo. Da un punto di vista spirituale: sperare, perché alla fine, per vocazione, noi siamo figli della speranza».
* Angelo Calianno, Rivista MC. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it
I rapporti tra il paese del Corno d’Africa e l’Italia
L’Italia e l’Eritrea tornano amiche? Quale senso ha il riavvicinamento del governo di Roma a quello di Asmara?
La domanda è rimbalzata più volte tra giornalisti, analisti, studiosi a partire da gennaio quando il presidente eritreo Isaias Afewerki – al potere ininterrottamente dal 1993 – si è recato in Italia, su invito del governo italiano, per partecipare al Vertice Africa-Italia, tenutosi a Roma per promuovere partenariati in vari settori come l’economia, le infrastrutture, la sicurezza alimentare, l’energia, la formazione professionale e la cultura.
Sotto il profilo politico i nuovi rapporti tra Roma e Asmara sono complessi da leggere. Durante la sua visita, Afewerki ha incontrato il premier italiano Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e hanno discusso del rafforzamento dei legami bilaterali e hanno esplorato le opportunità di investimento in Eritrea. A giugno, poi, una delegazione italiana di alto livello ha visitato l’Eritrea, guidata dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, con la partecipazione di varie personalità, tra cui la presidente della Commissione esteri e difesa del Senato, Stefania Craxi.
Questa visita si colloca nel contesto del cosiddetto «Piano Mattei», la strategia italiana volta a stabilizzare e sviluppare l’area del Corno d’Africa. «È difficile valutare gli effetti di queste visite – spiega Uoldelul Chelati Dirar, eritreo, professore all’Università di Macerata -. Dal punto di vista economico, l’Eritrea è un mercato piccolo, solo cinque milioni di persone, le leve economiche sono tutte in mano pubblica, non essendoci un tessuto di piccole e medie imprese. Difficile quindi valutare quali vantaggi reciproci ci possano essere in questo senso. Anche se in Eritrea, come nel resto del Corno d’Africa, c’è un generale apprezzamento per i prodotti italiani e per la capacità italiana di costruire infrastrutture (ponti, strade, dighe, ecc.)».
La situazione attuale in Eritrea è caratterizzata da «sfide» significative in termini di diritti umani, relazioni internazionali e sviluppo economico. Il governo eritreo continua a essere accusato di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, rapimenti e repressione della libertà di religione.
La leva militare obbligatoria, che spesso si traduce in un servizio di durata indefinita, coinvolge anche minorenni, e le punizioni collettive per i familiari di disertori o evasori di leva sono ancora praticate. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch denunciano queste pratiche, sottolineando come il sistema di coscrizione abbia un impatto devastante sull’istruzione e la vita dei giovani eritrei.
«Nei rapporti internazionali – continua il prof Ueoldelul Chelati Dirar – il governo eritreo da sempre gioca su più tavoli senza mai legarsi strutturalmente a nessuno. Stringe rapporti con i Paesi del Golfo, poi con gli Usa, poi, ancora, con l’Iran e ora con l’Italia. Questa politica spregiudicata ha assicurato longevità. La diplomazia dev’essere concreta. Quindi, l’Italia, avviando un dialogo, può creare un rapporto con un attore importante del Corno d’Africa. Detto questo non so quanto possa incidere sulle dinamiche dell’Eritrea e della regione. L’Italia non ha una continuità nella sua politica estera. Anche se la posizione di Roma sempre prudente è apprezzata dalle capitali dell’Africa dell’Est».
* Enrico Casale, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it
Le elezioni 2024 rafforzano la teocrazia sciita.
Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).
Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.
Donne iraniane al voto venerdì 1 marzo 2024 in una foto diffusa dall’Agenzia di stampa statale. Foto Maryam Almomen – IRNA
Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.
Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).
Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.
* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato nel sito: www.rivistamissioniconsolata.it
Maduro e un'opposizione tutta femminile
In attesa di stabilire la data delle elezioni presidenziali, il governo Maduro prova a fermare un'opposizione a guida femminile. (Foto Correo del Orinoco)
La data delle elezioni presidenziali non è stata ancora ufficialmente annunciata, ma pare sia questione di poco. In quale direzione vada il Venezuela di Nicolás Maduro è, invece, piuttosto chiaro. Lo scorso 22 febbraio la Tass, l’agenzia di stampa del Cremlino, dava spazio all’entusiasmo del presidente venezuelano in occasione della nuova visita del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov. Mentre si fanno sempre più stretti i rapporti con la Russia, quelli con la comunità internazionale dei paesi democratici rimangono molto tesi.
Il presidente Maduro ha preso misure forti contro due donne che avrebbero potuto causargli problemi: María Corina Machado prima e Rocío San Miguel poi.
Mentre cerca di riconfermarsi al potere, il presidente venezuelano Nicolás Maduro stringe rapporti sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin. Foto: Ciudadccd.info
La prima è (sarebbe) la candidata scelta dall’opposizione dopo la consultazione popolare dello scorso ottobre (primarie vinte con oltre il 93 per cento delle preferenze), ma è stata inabilitata dal Tribunale supremo (addirittura per quindici anni) per aver appoggiato le sanzioni degli Stati Uniti contro il Venezuela e Juan Guaidó come presidente provvisorio. In base a questa decisione la Machado non potrà partecipare alle prossime elezioni nelle quali, in caso di svolgimento regolare, sarebbero alte le sue possibilità di vittoria.
La seconda donna, avvocata e direttrice della Ong «Control ciudadano» (specializzata nel controllo delle azioni delle forze di sicurezza), è stata arrestata con la pesante accusa di essere parte di una cospirazione – nota come «brazalete blanco» – per assassinare il presidente Maduro. A metà febbraio, pochi giorni dopo l’arresto della San Miguel, Caracas ha ordinato la chiusura dell’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) e dato 72 ore al personale (tredici persone) per lasciare il paese. L’accusa è quella di essere una centrale di supporto a un’estrema destra di golpisti e terroristi e di avere un’attitudine colonialista.
Questa serie di eventi mette in serio rischio gli accordi di Barbados tra governo e opposizione sulle regole della competizione elettorale, accordi faticosamente raggiunti lo scorso 17 ottobre con la mediazione di Norvegia e Messico.
Evidentemente Caracas preferisce rafforzare i legami con i paesi in cui la prassi democratica non è contemplata o è considerata un’inutile perdita di tempo. La cooperazione tra Venezuela e Russia è forte perché forti sono gli interessi reciproci. Caracas vuole rompere l’isolamento internazionale e risollevare la propria economia in perenne affanno. Per parte sua, Mosca vuole rafforzare la propria presenza – politica, militare ed economica – in America Latina, già solidissima con il Nicaragua della coppia presidenziale Daniel Ortega e Rosario Murillo. In un caso e nell’altro si conferma che i dittatori s’intendono a meraviglia.
* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato nel sito: www.rivistamissioniconsolata.it
Daniel Ortega e Rosario Murillo sono una coppia consolidata. Non sappiamo se lo siano come famiglia, ma sicuramente lo sono come dittatori del piccolo paese centroamericano. Inamovibili anche sulle pagine e sugli schermi dei media nazionali. Su «El 19 Digital» i loro volti sorridenti sono sulla testata del sito, accanto allo slogan «Tiempos de victorias, por gracia de Dios!». La famiglia Ortega Murillo è molto unita: la signora Murillo, vicepresidente del Nicaragua, è ospitata frequentemente al notiziario di «Canal 4», la rete televisiva di proprietà di due dei suoi sette figli. Sul sito del canale si trovano svariate notizie sulla Russia di Putin, grande alleato del paese. Ad esempio, a gennaio è stato dato grande risalto alla visita di una delegazione della Crimea, la penisola ucraina invasa e annessa alla Russia nel febbraio del 2014.
La testata de «El 19 Digital», sito d’informazione governativo. Si noti la frase in alto a sinistra: «Tiempos de victorias, por gracia de Dios!».
Lo scorso novembre il paese ha ufficialmente abbandonato l’Organizzazione degli stati americani (Osa), allineandosi a Venezuela e Cuba. Managua contestava l’ingerenza dell’organizzazione continentale negli affari interni del paese, in particolare nei processi elettorali e nel campo dei diritti umani. Per converso, il paese ha stretto legami sempre più stretti con la Russia, appoggiando anche la sua aggressione all’Ucraina. A ottobre 2023, si è tenuta a Mosca la prima riunione della Commissione di cooperazione tra la Duma russa e l’Assemblea nazionale del Nicaragua. A guidare la delegazione di Managua c’era Laureano Facundo Ortega Murillo, il figlio maggiore della coppia presidenziale. Questi ha espresso a chiare lettere la posizione del proprio paese: «Possiamo assicurarvi, fratelli, che il Nicaragua non è neutrale, il Nicaragua è con la Russia, perché è la cosa corretta, è la cosa giusta».
Laureano Facundo Ortega Murillo (a sinistra), figlio maggiore di Daniel Ortega, in un recente incontro a Mosca. La Russia è un grande alleato del Nicaragua. Foto duma.gov.ru.
Meno pubblicità è stata invece data alla notizia dell’espulsione, avvenuta domenica 14 gennaio, del vescovo Rolando Álvarez, che si trovava in carcere per scontare una condanna di 26 anni a causa del suo appoggio alle proteste del 2018. Con lui sono stati espulsi un altro vescovo, due seminaristi e quindici sacerdoti.
Da anni il governo Ortega-Murillo combatte la Chiesa cattolica del paese. Lo scorso agosto aveva confiscato l’Università centroamericana, nota con il nome di Uca, di proprietà della Compagnia di Gesù (i gesuiti) che l’aveva fondata nel 1960. L’ateneo, uno dei più prestigiosi dell’intera America Latina, è stato accusato di essere una «centrale del terrorismo».
La Uca è soltanto l’ultima vittima del regime Ortega-Murillo. Da dicembre 2021, in Nicaragua sono state chiuse 26 università (sette delle quali straniere), oltre a migliaia di associazioni e Ong. Inoltre, a fine 2023, anche la Croce rossa internazionale ha dovuto chiudere i battenti.
* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato nel sito: www.rivistamissioniconsolata.it