Con bandiere in mano, canti e balli, migliaia di pellegrini si sono riuniti nel parco Eduardo VII di Lisbona per accogliere il Santo Padre. Il Papa è arrivato alle 16.15 e ha presieduto la cerimonia di benvenuto della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG). I giovani si muovevano su e giù per ottenere un posto strategico che permettesse loro di vedere bene il Papa.
"Non siete qui per errore –ha detto ai pellegrini– voi laggiù, tutti noi, siamo stati chiamati per nome". E poi ha insistito: "Tutti sono benvenuti nella Chiesa; se necessario dobbiamo fare spazio, anche per coloro che sbagliano, che cadono o che fanno fatica".
Emma Bruno, una giovane proveniente dalla casa del Missionari della Consolata di Bevera (Lc) e che abbiamo intervistato ci ha detto che “questa GMG è stata buona, piena di nutrimento spirituale e di incoraggiamento dal Santo Padre per tutti i giovani del mondo. Ha anche ricordato che ha potuto partecipare nella GMG grazie ai Missionari della Consolata e ringraziato per il buon lavoro che stanno svolgendo accompagnando i giovani delle diverse aree in cui sono presenti. "I giovani devono essere pronti a dedicare la loro vita a Dio, servendo e dedicandosi al servizio di Dio".
In questo Giorno, sempre nel parco Eduardo VII, il Papa Francesco ha presieduto la Via Crucis con i giovani pellegrini. Durante la Via Crucis ha ricordato che Gesù intraprende questo cammino per noi, per dare la sua vita a noi. “ E nessuno ha un amore più grande di colui che dà la sua vita per gli altri: non dimentichiamoci questo, e questo ce lo ha insegnato Gesù. Per questo, quando guardiamo il Crocifisso, una cosa così dura e piena di dolore, vediamo la bellezza che Gesù dà alla vita di ciascuno di noi”.
Il Santo Padre ha poi posto una domanda ai giovani della GMG: “Io piango qualche volta? Ci sono cose nella vita che mi fanno piangere?” e rispondendo ha detto: “Tutti nella vita abbiamo pianto e ancora piangiamo, e Gesù piange con noi, perché lui ci accompagna nell’oscurità che c'è con il pianto. Ma non dimentichiamo che con la sua tenerezza asciuga le nostre lacrime nascoste; colma la solitudine con la sua vicinanza e anche le nostre paure”.
“Amare è un rischio, e vale la pena correrlo, e lui ci accompagna sempre, è sempre vicino a noi in ogni tappa della vita”. Quindi, l’invito a riflettere sulle proprie sofferenze, ansie e miserie che incutono paura: “vincerla in modo che l’anima torni a sorridere”.
Continuiamo a pregare per voi come voi pregate per noi.
La Chiesa celebra oggi, 29 giugno, la Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. In Italia la festa di San Pietro è stata celebrata fin dai primi secoli della formazione dell'Europa cristiana. Nella città di Roma è giorno festivo e festa patronale e Papa Francesco presiede la Messa nella Basilica Vaticana e nella preghiera dell’Angelus ha ricordato le figure così umane e così credenti di questi due apostoli: “in loro appare che è Dio a renderci forti con la sua grazia, a unirci con la sua carità e a perdonarci con la sua misericordia. Ed è con questa umanità vera che lo Spirito forma la Chiesa. Pietro e Paolo sono state persone vere, e noi, oggi più che mai, abbiamo bisogno di persone vere. C’è in noi l’ardore, lo zelo, la passione per il Signore e per il Vangelo, o è qualcosa che si sgretola facilmente? E poi, siamo pietre, non d’inciampo ma di costruzione per la Chiesa? Lavoriamo per l’unità, ci interessiamo degli altri, specialmente dei più deboli?”
Durante la messa, 32 nuovi arcivescovi del mondo hanno ricevuto dal Papa il Palio, una stola bianca ornata da sei croci e tre chiodi, simbolo della Passione. Realizzato dalle monache benedettine del Monastero di Santa Cecilia, a Roma, con lana di pecora, il Palio è simbolo di comunione e fedeltà con il successore di Pietro. L'Arcivescovo è il Buon Pastore che porta sulle sue spalle le pecore a lui affidate, specialmente le più bisognose.
Con questa solennità la Chiesa ritorna alle radici della sua fede. Le spoglie mortali di Pietro e Paolo, due martiri, riposano nelle due Basiliche, San Paolo fuori le Mura e San Pietro, che racchiude un vasto cimitero sotterraneo, posto sotto l'altare della Basilica a lui dedicata a Roma.
Ciascuno con il proprio contributo, i due Apostoli formarono le prime Comunità di Seguaci di Gesù. Paolo è passato da persecutore ad ardente difensore di Gesù. Un appassionato della missione. Sono sue le espressioni “guai a me se non evangelizzassi!” (1 Cor 9,16) o "non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me" (Gal 2,20). A causa del Vangelo, morì decapitato.
Pietro, da uomo pauroso che era, con la grazia di Gesù è diventato la prima pietra della comunità cristiana. Lui che aveva rinnegato Gesù, dopo averlo incontrato risorto, annuncia senza timore, il nome e la causa di Gesù, chi lo ha ucciso e perché. Come il Maestro, anche Pietro ha concluso la sua vita crocifisso. Lui si chiamava Simone e non era nessuna "roccia". Fu Gesù a dargli il soprannome di Cefa o Pietra, che in seguito divenne Pietro. Questo Pietro, così debole e così umano, come noi, si è trasformato in roccia perché Gesù ha pregato per lui e ha detto: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). È così che Pietro è diventato il nostro primo Papa.
Oggi, a capo della Chiesa abbiamo la guida di Francesco, (il 266° Papa dopo Pietro) un “fratello argentino” che, quando inaugurò il suo pontificato nel 2013, disse di sognare una Chiesa povera per i poveri, una Chiesa in cammino missionario verso le periferie geografiche ed esistenziali, una Chiesa che non ha paura di toccare le ferite, come in un ospedale da campo, per poter andare incontro a tutti e offrire la misericordia di Dio.
Seguendo gli Apostoli della prima ora, Papa Francesco comunica la gioia del Vangelo che ci riempie di speranza e ci incoraggia a lottare per i nostri diritti; prendendoci cura responsabilmente della nostra Casa Comune e di ciascuno di noi stessi.
Nei momenti più difficili che l'umanità ha dovuto affrontare, come la pandemia di Covid-19 e la “terza guerra mondiale a pezzi” degli ultimi anni, le parole, i gesti e le preghiere di Francesco sono sempre stati fondamentali per ricordare l'essenziale del Crocifisso davanti al messaggio evangelico per tutta l'umanità.
Francesco sa che solo Cristo edifica la Chiesa. Per questo propone l'incontro con Gesù, che può rinnovare la nostra vita. Cristo può anche rompere gli schemi che ci vincolano, che sono ostacoli alle riforme della Chiesa di Pietro e per cambiare nel mondo ciò che va cambiato: razzismo, esclusione, discriminazione, xenofobia (avversione per stranieri e migranti), omofobia, fondamentalismo, degrado del Pianeta, disprezzo per i poveri, odio per i popoli indigeni, neri e i poveri delle periferie...
La nostra fede cristiana oggi è la stessa di Pietro e Paolo: seguire Gesù Cristo. Per questo celebrare questi Apostoli è anche fare memoria della nostra storia di fede, valorizzare le nostre radici e le origini della nostra comunità. Nonostante le difficoltà, questo ci riempie di coraggio e di fiducia per rimanere, con Pietro e Paolo, saldi nell'opera che Gesù ci ha affidato nella sua Chiesa.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, missionario della Consolata residente a Roma.
Non è mancato, nel corso dedicato ai missionari con 50 anni di ordinazione, una vista breve ma intensa alla città di Assisi. Molti di noi ci erano già stati, alcuni in anni davvero remoti, ma avvicinarci alla spiritualità di San Francesco, nei tempi di Papa Francesco, è comunque una esperienza che vale la pena. Poi per noi missionari Assisi quest’anno ha anche un altro attrattivo: la figura del giovane Carlo Acutis, beatificato dal papa in ottobre del 2020, stroncato da una leucemia poco più che adolescente ma innamorato di mezzi di comunicazione e dell’eucaristia… la sua personle “autostrada al cielo”.
Quest’anno è lui il nostro protettore ufficiale ed è sepolto nella chiesa della spogliazione, situata nei pressi della casa di Pietro da Bernardone, il papà di San Francesco al quale, in presenza del vescovo, Francesco restituì i suoi vestiti come segno della perfetta povertà che voleva vestire da quel momento in poi.
La visita ad Assisi ci ha permesso di vedere alcuni dei luoghi di culto francescani importanti: la Porziuncola dove Francesco comprese la sua vocazione, fondò la sua prima comunità francescana e a soli 36 anni lascio questa terra; la splendida basilica di San Francesco, ai margini del contro storico di Assisi, dove si conserva il suo luogo di sepoltura e dove la sua persona e la sua prodigiosa storia ha ispirato uno dei luoghi d’arte più belli di Italia… ma che non si poteva fotografare… peccato!
Poi alla fine del nostro cammino di formazione abbiamo avuto la fortuna di poter scambiare due parole con papa Francesco. Da Francesco a Francesco. L’occasione è stata in occasione di una delle tradizionali udienze del mercoledì, celebrata sul sagrato di Piazza San Pietro, in una splendida giornata di sole seppur ancora freddina.
Ci siamo dovuti alzare presto perché tutti devono passare attraverso i controlli di sicurezza ma avevamo un biglietto speciale che ci ha portato dietro l’altare, al centro del sagrato antistante il portico di accesso alla basilica, dal quale è stata fatta l’udienza del papa. Alla fine, quando si ritirava da quel luogo verso la casa di santa Marta, sua residenza, è passato davanti a noi e con noi si è lasciato fotografare. Ci ha raccomandato di pregare per lui, come fa sempre… e quando noi abbiamo detto che lo facciamo tutti i giorni… con una simpatica battuta ha aggiunto “pero fatelo a mio favore e non in contro”. Effettivamente non mancano, e sono visibili e vociferanti, tante voci di opposizione al suo pontificato. Non sarà forse un segno eloquente della sua profezia?
Cari fratelli e sorelle! I vangeli di Matteo, Marco e Luca sono concordi nel raccontare l’episodio della Trasfigurazione di Gesù. In questo avvenimento vediamo la risposta del Signore all’incomprensione che i suoi discepoli avevano manifestato nei suoi confronti. Poco prima, infatti, c’era stato un vero e proprio scontro tra il Maestro e Simon Pietro, il quale, dopo aver professato la sua fede in Gesù come il Cristo, il Figlio di Dio, aveva respinto il suo annuncio della passione e della croce. Gesù lo aveva rimproverato con forza: «Va’ dietro a me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Ed ecco che «sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (Mt 17,1).
Il Vangelo della Trasfigurazione viene proclamato ogni anno nella seconda Domenica di Quaresima. In effetti, in questo tempo liturgico il Signore ci prende con sé e ci conduce in disparte. Anche se i nostri impegni ordinari ci chiedono di rimanere nei luoghi di sempre, vivendo un quotidiano spesso ripetitivo e a volte noioso, in Quaresima siamo invitati a “salire su un alto monte” insieme a Gesù, per vivere con il Popolo santo di Dio una particolare esperienza di ascesi.
L’ascesi quaresimale è un impegno, sempre animato dalla Grazia, per superare le nostre mancanze di fede e le resistenze a seguire Gesù sul cammino della croce. Proprio come ciò di cui aveva bisogno Pietro e gli altri discepoli. Per approfondire la nostra conoscenza del Maestro, per comprendere e accogliere fino in fondo il mistero della salvezza divina, realizzata nel dono totale di sé per amore, bisogna lasciarsi condurre da Lui in disparte e in alto, distaccandosi dalle mediocrità e dalle vanità. Bisogna mettersi in cammino, un cammino in salita, che richiede sforzo, sacrificio e concentrazione, come una escursione in montagna. Questi requisiti sono importanti anche per il cammino sinodale che, come Chiesa, ci siamo impegnati a realizzare. Ci farà bene riflettere su questa relazione che esiste tra l’ascesi quaresimale e l’esperienza sinodale.
Nel “ritiro” sul monte Tabor, Gesù porta con sé tre discepoli, scelti per essere testimoni di un avvenimento unico. Vuole che quella esperienza di grazia non sia solitaria, ma condivisa, come lo è, del resto, tutta la nostra vita di fede. Gesù lo si segue insieme. E insieme, come Chiesa pellegrina nel tempo, si vive l’anno liturgico e, in esso, la Quaresima, camminando con coloro che il Signore ci ha posto accanto come compagni di viaggio. Analogamente all’ascesa di Gesù e dei discepoli al Monte Tabor, possiamo dire che il nostro cammino quaresimale è “sinodale”, perché lo compiamo insieme sulla stessa via, discepoli dell’unico Maestro. Sappiamo, anzi, che Lui stesso è la Via, e dunque, sia nell’itinerario liturgico sia in quello del Sinodo, la Chiesa altro non fa che entrare sempre più profondamente e pienamente nel mistero di Cristo Salvatore.
E arriviamo al momento culminante. Narra il Vangelo che Gesù «fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Ecco la “cima”, la meta del cammino. Al termine della salita, mentre stanno sull’alto monte con Gesù, ai tre discepoli è data la grazia di vederlo nella sua gloria, splendente di luce soprannaturale, che non veniva da fuori, ma si irradiava da Lui stesso. La divina bellezza di questa visione fu incomparabilmente superiore a qualsiasi fatica che i discepoli potessero aver fatto nel salire sul Tabor. Come in ogni impegnativa escursione in montagna: salendo bisogna tenere lo sguardo ben fisso al sentiero; ma il panorama che si spalanca alla fine sorprende e ripaga per la sua meraviglia. Anche il processo sinodale appare spesso arduo e a volte ci potremmo scoraggiare. Ma quello che ci attende al termine è senz’altro qualcosa di meraviglioso e sorprendente, che ci aiuterà a comprendere meglio la volontà di Dio e la nostra missione al servizio del suo Regno.
L’esperienza dei discepoli sul Monte Tabor si arricchisce ulteriormente quando, accanto a Gesù trasfigurato, appaiono Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti (cfr Mt 17,3). La novità del Cristo è compimento dell’antica Alleanza e delle promesse; è inseparabile dalla storia di Dio con il suo popolo e ne rivela il senso profondo. Analogamente, il percorso sinodale è radicato nella tradizione della Chiesa e al tempo stesso aperto verso la novità. La tradizione è fonte di ispirazione per cercare strade nuove, evitando le opposte tentazioni dell’immobilismo e della sperimentazione improvvisata.
Il cammino ascetico quaresimale e, similmente, quello sinodale, hanno entrambi come meta una trasfigurazione, personale ed ecclesiale. Una trasformazione che, in ambedue i casi, trova il suo modello in quella di Gesù e si opera per la grazia del suo mistero pasquale. Affinché tale trasfigurazione si possa realizzare in noi quest’anno, vorrei proporre due “sentieri” da seguire per salire insieme a Gesù e giungere con Lui alla meta.
Il primo fa riferimento all’imperativo che Dio Padre rivolge ai discepoli sul Tabor, mentre contemplano Gesù trasfigurato. La voce dalla nube dice: «Ascoltatelo» (Mt 17,5). Dunque la prima indicazione è molto chiara: ascoltare Gesù. La Quaresima è tempo di grazia nella misura in cui ci mettiamo in ascolto di Lui che ci parla. E come ci parla? Anzitutto nella Parola di Dio, che la Chiesa ci offre nella Liturgia: non lasciamola cadere nel vuoto; se non possiamo partecipare sempre alla Messa, leggiamo le Letture bibliche giorno per giorno, anche con l’aiuto di internet. Oltre che nelle Scritture, il Signore ci parla nei fratelli, soprattutto nei volti e nelle storie di coloro che hanno bisogno di aiuto. Ma vorrei aggiungere anche un altro aspetto, molto importante nel processo sinodale: l’ascolto di Cristo passa anche attraverso l’ascolto dei fratelli e delle sorelle nella Chiesa, quell’ascolto reciproco che in alcune fasi è l’obiettivo principale ma che comunque rimane sempre indispensabile nel metodo e nello stile di una Chiesa sinodale.
All’udire la voce del Padre, «i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”. Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo» (Mt 17,6-8). Ecco la seconda indicazione per questa Quaresima: non rifugiarsi in una religiosità fatta di eventi straordinari, di esperienze suggestive, per paura di affrontare la realtà con le sue fatiche quotidiane, le sue durezze e le sue contraddizioni. La luce che Gesù mostra ai discepoli è un anticipo della gloria pasquale, e verso quella bisogna andare, seguendo “Lui solo”. La Quaresima è orientata alla Pasqua: il “ritiro” non è fine a sé stesso, ma ci prepara a vivere con fede, speranza e amore la passione e la croce, per giungere alla risurrezione. Anche il percorso sinodale non deve illuderci di essere arrivati quando Dio ci dona la grazia di alcune esperienze forti di comunione. Anche lì il Signore ci ripete: «Alzatevi e non temete». Scendiamo nella pianura, e la grazia sperimentata ci sostenga nell’essere artigiani di sinodalità nella vita ordinaria delle nostre comunità.
Cari fratelli e sorelle, lo Spirito Santo ci animi in questa Quaresima nell’ascesa con Gesù, per fare esperienza del suo splendore divino e così, rafforzati nella fede, proseguire insieme il cammino con Lui, gloria del suo popolo e luce delle genti.
Oggi la questione ecologica è al centro degli interessi di Papa Francesco e della Chiesa che desidera impegnarsi nella cura della Casa Comune, insieme a molte organizzazioni e persone che condividono le stesse preoccupazioni e speranze.
A conferma di questa preoccupazione, nel mese di ottobre 2019 si è tenuta in Vaticano l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Pan-Amazzonia per discutere di “Nuovi percorsi per la Chiesa e per un’ecologia integrale”. Uno dei macro temi di questo Sinodo è stata la questione dell’ecologia. La preoccupazione per il presente e il futuro del pianeta, per il cambiamento climatico, per la crisi socio-ambientale, era comune a tutti i partecipanti nel Sinodo. Questa preoccupazione è stata alimentata durante il lungo processo di ascolto degli appelli degli abitanti dell’Amazzonia e riguarda l’intera umanità: è stato ripetuto in vari contesti che il grido della Terra è lo stesso grido dei popoli, degli impoveriti e degli sfruttati.
Papa Francesco, di fronte ai rappresentanti di vari popoli indigeni riuniti a Puerto Maldonado (Perù) nel gennaio 2018, aveva detto “Mai come oggi i popoli indigeni e i loro territori sono stati minacciati”.
Questa espressione nasce dalla consapevolezza che l’Amazzonia - così come altri biomi - è minacciata da un’ideologia che considera il territorio come un magazzino di risorse da sfruttare ad ogni costo, ignorando la vita degli esseri che lo abitano. Sulla base di questa ideologia - che preoccupa la Chiesa e molti agenti della società civile - l’estrazione di risorse forestali, minerarie ed energetiche viene illusoriamente presentata come una ricetta per risolvere “problemi economici”, “rimediare alla disoccupazione” o accelerare la “crescita economica” e il Prodotto Interno Lordo di una nazione.
Il modello di sfruttamento selvaggio che vediamo nel territorio amazzonico prende la forma di deforestazione a favore di un inefficiente allevamento del bestiame, l’irrazionale esplorazione mineraria e petrolifera, i megaprogetti per la produzione di energia insostenibile e molto altro ancora. Questi progetti, spesso faraonici e finalizzati ad aumentare le esportazioni di materie prime, ignorano la devastazione dei territori e gli impatti sociali, come lo spostamento forzato della popolazione e l’aumento della violenza e della criminalità.
In alternativa a questa prospettiva di saccheggio delle risorse, riconosciamo che l’Amazzonia è un territorio abitato e garantisce l’esistenza di molte forme di vita: è parte della creazione di Dio. Fa parte della “nostra casa comune [che] può essere paragonata a volte ad una sorella, con cui condividiamo l’esistenza, a volte ad una madre bella, che ci accoglie tra le sue braccia” (LS, n.1). Seguendo un’intuizione di Papa Francesco, la foresta amazzonica è stata definita come il “cuore biologico di una Terra sempre più minacciata” (DF, n.2) e definirla come “cuore biologico” esprime l’influenza di questo bioma sul ciclo dell’acqua del continente americano e sui movimenti del vento, il suo contributo essenziale alla regolazione del clima planetario, la ricchezza di biodiversità (1/3 del patrimonio genetico del pianeta) e la grande diversità sociale (285 popoli indigeni che parlano 240 lingue diverse) che conserva.
La Chiesa non può rimanere indifferente a tutto ciò che riguarda la vita. Siamo quindi chiamati a una “conversione ecologica”, ispirata alla proposta dell’ecologia integrale. In questo cammino di conversione è fruttuoso instaurare un dialogo di conoscenza e saggezza con altri popoli e con i poveri, cercando nuove risposte per affrontare le sfide più urgenti e per promuovere un modello di sviluppo giusto e solidale.
Quando parliamo di ecologia integrale -un concetto a cui Papa Francesco fa spesso riferimento e che spiega nell’Enciclica Laudato Si’- intendiamo il modo corretto di stabilire relazioni e di prenderci cura della Casa comune con tutti i suoi abitanti. È l’unica strada possibile per la vita. Il concetto di “ecologia integrale” ci mette nella condizione di creature che contemplano la ricchezza e la fragilità della creazione, come fece il poverello di Assisi (cfr. LS, n. 76, 85, 214). Nel considerare l’“ecologia integrale” abbiamo come principio fondamentale la ricerca del bene comune nel presente, ma anche per il futuro, perché il mondo in cui viviamo ospiterà anche le generazioni future.
La promozione del bene comune non contrappone la difesa dell’ambiente alla promozione dell’umanità, ma considera tutte le dimensioni della vita, riconoscendo che, a partire da una sana spiritualità, è necessario stabilire relazioni armoniose con il creato, coltivare stili di vita di felice sobrietà (LS, n.224), promuovere gesti quotidiani che evitino il consumismo, ma che valorizzino una serena attenzione a tutte le forme di vita. .
Per sottolineare la conversione ecologica, come cristiani possiamo accogliere l’invito contenuto nel Documento finale del Sinodo per l’Amazzonia: prendersi cura della nostra Casa comune e dei diritti dei suoi abitanti è un’esigenza di fede (DF, n.70); siamo custodi dell’opera di Dio, riconosciamo il “peccato ecologico” come un’azione contro Dio, il nostro prossimo, la comunità e l’ambiente (DF, n.82).
Il Sinodo è stato - ma continua ad essere nella sua implementazione - un “camminare insieme” e un ascoltare: sentiamo le grida che vengono dal territorio. L’Amazzonia deve essere considerata un argomento che merita di essere ascoltato. Poi, ascoltiamo altri modelli e concetti di vita buona, altri progetti che rispettano tutto il creato. Il Documento finale ci invita a “disimparare”, “imparare” e “reimparare” (DF, n.81) per mettere in discussione modelli consolidati ma problematici. Dobbiamo interrogarci sull’impatto di ogni nostra azione sui nostri fratelli, sui poveri, sugli altri, sulle generazioni future, sull’ambiente e sulle varie forme di vita. Dobbiamo chiederci se ciò che facciamo ci rende schiavi o se ci rende davvero liberi di vivere in serena sobrietà.
Per Papa Francesco, la crisi ecologica è una chiamata a una profonda conversione interiore che scuote i pii cristiani, i quali “con il pretesto di un realismo pragmatico spesso rifuggono dalla preoccupazione per l’ambiente” (LS, n. 217). La “conversione ecologica” a cui ci invita l’Enciclica Laudado Si’ implica “lasciare che tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù emergano nel nostro rapporto con il mondo circostante”, poiché “vivere la nostra vocazione di amministratori dell’opera di Dio non è qualcosa di opzionale o un aspetto secondario dell’esperienza cristiana, ma una parte essenziale di un’esistenza virtuosa” (LS, n. 217).
L’appello alla conversione ecologica diventa, nell’esortazione apostolica Querida Amazónia, la descrizione di un sogno ecologico.
Lungi dall’essere un sogno ad occhi aperti, la visione onirica di Papa Francesco immagina una Chiesa che ha a cuore la stretta relazione degli esseri umani con la natura e valorizza la “saggezza dei popoli nativi dell’Amazzonia [che] ‘ispira la cura e il rispetto per la creazione, con una chiara consapevolezza dei suoi limiti, vietandone l’abuso. Abusare della natura significa abusare dei nostri antenati, dei nostri fratelli e sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro’” (QA, n.42). La cura della nostra Casa Comune richiede la combinazione di saggezza ancestrale e conoscenze tecniche (QA, n.51).
Nella costruzione di questi ponti tra le conoscenze, forse i missionari che sono vicini a molti fratelli e sorelle di culture diverse possono contribuire in modo speciale. Per esempio, imparando insieme a queste persone a non considerare la natura “come qualcosa di separato da noi o come una semplice cornice per la nostra vita”. Siamo inclusi in essa, ne facciamo parte e ci compenetriamo in essa” (LS, n. 139).
Nel pensiero del Fondatore e dei primi missionari - come emerge dall’abbondante materiale relativo ai primi anni delle missioni - era chiaro che l’evangelizzazione non poteva essere dissociata dalla “formazione dell’ambiente”. Dopo alcuni anni di lavoro apostolico in Kenya, il decreto di lode della Sacra Congregazione per i Religiosi (28/12/1909) sottolineava come i missionari dell’Istituto si fossero distinti per il loro impegno nella vita del popolo (Lettere V, p. 304s). Quel decreto diede molta gioia e soddisfazione al Fondatore, che vi lesse l’approvazione del metodo missionario studiato e attuato insieme ai suoi figli. Oggi, a distanza di più di un secolo, i termini in cui viene espressa e le idee alla base di quel testo sembrano naturalmente superati, possono urtare la sensibilità e suscitare critiche legittime.
L’azione missionaria, nella sua dimensione “umanitaria” - in mezzo a critiche, crisi e maturazioni - ha adottato nuove teorie e assunto pratiche diverse. I missionari, oltre a essere “portatori” del Vangelo, sono stati considerati anche come fautori di cambiamenti nella vita dei popoli. Questa attività può essere espressa con alcune parole chiave, emblematiche della sensibilità dei diversi tempi: “civiltà”, che ha lasciato il posto alla “promozione umana”, modernizzata nell’idea di “sviluppo”, oggi troppo segnata da un’ideologia che cerca di imporre lo stesso modello globale a tutte le società.
Per assumere una posizione positiva, facendo nostre le parole di Papa Francesco, possiamo dire che, all’interno della Chiesa, anche noi diventiamo promotori di una “ecologia integrale”. Poiché non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò che riguarda la vita, siamo chiamati a una “conversione ecologica”, ispirata alla proposta dell’“ecologia integrale”.
In questo cammino di conversione, è utile instaurare un dialogo con la saggezza di altri popoli e con i poveri, cercando nuove risposte per affrontare le sfide più urgenti e promuovere un modello di vita giusto, solidale e sostenibile. Il contributo dei popoli indigeni alla cura del creato è ampiamente riconosciuto nei documenti ecclesiali redatti nel processo del Sinodo sull’Amazzonia, in cui si osserva che “la ricerca della vita in abbondanza da parte dei popoli amazzonici si concretizza in quello che essi chiamano ‘vivere bene’, che si realizza pienamente nelle Beatitudini. Si tratta di vivere in armonia con se stessi, con la natura, con gli esseri umani e con l’Essere Supremo, perché esiste un’intercomunicazione in tutto il cosmo” (DF, n.9. Cfr. LS, n.149; IL, n.49s; QA, n.42).