At 2,1-11; Sal 103; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27; 16,12-15

Nella solennità di Pentecoste, la liturgia della Parola ci invita a contemplare lo Spirito Santo, la sua azione nella Chiesa e nel mondo. Infatti, lo Spirito Santo è una fonte inesauribile di Vita perché trasforma, rinnova, guida, incoraggia, rafforza, edifica la comunità, favorisce l'unità e trasmette ai discepoli la forza per diventare araldi coraggiosi del Vangelo di Gesù.

L'autore degli Atti degli Apostoli nella prima lettura (At 2,1-11) ci presenta lo Spirito Santo come la Nuova Legge che guida e anima il Popolo della Nuova Alleanza. Lo Spirito fa sì che uomini e donne di ogni razza, popolo e nazione accolgano la Buona Notizia di Gesù e formino una comunità unita e fraterna che parla la stessa lingua, quella dell'amore.

Luca colloca il dono dello Spirito nel giorno in cui la comunità ebraica celebrava l'alleanza e il dono della Legge sul Sinai. La coincidenza temporale non è fortuita, anzi, indica chiaramente che la comunità nata da Gesù è la comunità della Nuova Alleanza di cui lo Spirito ne sarà la Legge. Il percorso nella storia di questa comunità non sarà accompagnato da una Legge esteriore, scolpita su tavole di pietra (come quella di Mosè con Legge del Sinai); ma si ispirerà allo Spirito Santo che risiederà nel cuore dei discepoli. La comunità nata da Gesù e guidata dallo Spirito è il nuovo Popolo di Dio. Si compie così la promessa fatta da Dio al suo popolo: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme.” (Ez 36,26-27).

La scena della manifestazione dello Spirito è illustrata con due simboli molto espressivi: (vv. 2-4): il “vento di tempesta” e il “fuoco”. Entrambi richiamano la teofania sul Sinai, quando Dio stipulò un’alleanza con il Popolo, con il dono della Legge che così lo costituì Popolo di Dio (cfr. Es 19, 16.18; Dt 4,36). Questi simboli evocano la forza di Dio che, irresistibilmente, entra nella vita del Popolo, ne trasforma il cuore e lo rende comunità di Dio.

È in questo contesto che dobbiamo comprendere gli effetti della manifestazione dello Spirito descritti dall'autore degli Atti degli Apostoli (cfr At 2,5-13): i discepoli proclamarono il loro messaggio e ciascuno lo poteva comprendere “nella propria lingua” (v. 6). Gli astanti che, nel giorno di Pentecoste, ascoltavano gli apostoli, rappresentavano i popoli di tutto il mondo antico, dalla Mesopotamia alla terra di Canaan, dall'Asia Minore al Nord Africa, fino ad arrivare a Roma. E, pur appartenendo a popoli di lingue e culture diverse, tutti erano in grado di capire l'annuncio «delle meraviglie di Dio» (v.11). L'espressione indica “il Vangelo”, fonte di vita, amore, comunione, fraternità e salvezza per tutti. Coloro che si dimostreranno disponibili ad accogliere questo annuncio entreranno a far parte della comunità della salvezza, dove si parla la stessa lingua: quella dell'amore. Con il bagaglio della propria cultura, delle proprie tradizioni, nella nuova comunità, ognuno potrà sperimentare questa “convivialità delle differenze” che unisce persone valorizzando le diversità come una ricchezza per tutti.

Gli africani, gli europei, i sudamericani, gli asiatici, gli oceanici, i neri, i bianchi: tutti sono invitati, con le loro differenze, ad accogliere questo progetto liberatore di Dio, ad accogliersi e rispettarsi vicendevolmente nell'amore. Allora chiediamoci: la mia comunità è un luogo di libertà e di fraternità? In essa tutti trovano posto e vengono accolti con amore e rispetto, anche quelli di altri popoli, che hanno abitudini differenti, che non fanno parte della “cerchia” dei miei amici e ancor di più, che sono emarginati e allontanati dalla società?

L'orgoglio e l'egoismo fomentano le divisioni, l’indifferenza costruisce muri di egoismo e di rifiuto. Lo Spirito Santo, invece, rende i cuori capaci di comprendere i linguaggi di tutti, mentre costruisce ponti di autentica comunione tra la terra e il cielo, perché lo Spirito Santo è Amore. Perciò la nostra seconda lettura (Gal 5,16-25) ci invita a vivere secondo quest’ amore, entrando nel mistero dello Spirito Santo e testimoniando i suoi stessi frutti.

Ma com’è possibile entrare nel mistero dello Spirito Santo? Come si può comprendere il segreto dell'Amore?

Il brano del Vangelo odierno (Gv 15,26-27; 16,12-15) ci conduce nel Cenacolo dove, dopo l'Ultima Cena, un senso di smarrimento pervade gli Apostoli, preoccupati dalle parole di Gesù che suscitano interrogativi inquietanti: cosa vuol dire che il mondo proverà odio contro di lui e contro i suoi? Cosa significa la sua misteriosa dipartita? Tante altre cose avrebbe potuto aggiungere, ma gli apostoli non ne avrebbero retto il peso. (cfr. Gv 16,12).

Per consolarli spiega il senso della sua partenza: andrà, ma poi tornerà, sicuramente non li abbandonerà, non li lascerà orfani. Manderà il Consolatore, lo Spirito del Padre che ci farà comprendere l’amore con il quale Cristo ci ha amati e ha dato tutto sé stesso per salvare l’umanità.

Il Paraclito è presentato subito come un protagonista a pieno titolo la cui venuta (otan elthe) instaura un tempo qualitativamente differente, il tempo della chiesa. È anche il portatore della verità. Per essere più precisi, la missione del Paraclito consiste, dopo la dipartita di Cristo, nel fare memoria della testimonianza che gli è stata resa nel tempo della vita pubblica e nel mostrane le implicazioni per l’epoca post pasquale.

Considerando retrospettivamente il destino di Cristo ormai compiutosi, il Paraclito è in grado di mostrarne il perenne significato per i discepoli. Accanto al Paraclito l’evangelista Giovanni cita un secondo protagonista della testimonianza: i discepoli. La loro testimonianza ha come fondamento il loro perdurante rapporto intimo e personale con Cristo. La testimonianza resa dai discepoli è dunque relativa al dire e all’agire del Cristo incarnato. Mentre la testimonianza post-pasquale dei credenti rimane un dono ricevuto mediante la forza dello Spirito Santo.

C’è un’altra indicazione sul ruolo Paraclito nel futuro della communita post- pasquale: si farà araldo delle “cose future” aiutando a comprenderle cristologicamente. Siamo così invitati a un ribaltamento di prospettiva. Lo Spirito, infatti, non è in balia di una creatività insensata che svelerebbe i segreti rimasti nascosti. Nell’eventualità che lo Spirito dischiuda l’avvenire l’unica parola che pronuncia è “Cristo”. Tale annuncio dell’inabitazione del futuro da parte di Cristo non è, a sua volta, fine a sé stesso, ma rimanda in ultima istanza a Dio. Dire che Cristo viene significa dire che si fa presente nella vita e la trasforma con la sua azione liberante.

Papa Benedetto XVI spiega molto bene in che cosa consiste il mistero della Pentecoste: lo Spirito Santo illumina lo spirito umano e, rivelando Cristo Crocifisso e Risorto, indica la via per diventare più simili a Lui, cioè essere «immagine e strumento dell'amore che scaturisce da Cristo» (Deus caritas est, n. 33).

Nel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo discese con potenza sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo (At 1,14); ebbe così inizio la missione della Chiesa nel mondo. Stare insieme, in preghiera prolungata e in armonia, era la condizione posta da Gesù per ricevere il dono dello Spirito Santo. Ci viene offerto in questo modo un formidabile insegnamento per ogni comunità cristiana e per la nostra attività di evangelizzatori.

A volte pensiamo che l'efficacia missionaria dipenda innanzitutto da un'attenta programmazione e dalla sua successiva intelligente applicazione attraverso delle azioni concrete. Il Signore esige certamente la nostra collaborazione, ma alla base di ogni attività che svolgiamo è fondamentale da parte nostra riconoscere che “l’opera è sua” (1 Cor, 3,9) che è lui a prendere l’iniziativa, perché lo Spirito Santo è “l’agente principale della Missione” (E.N. 75), è “il protagonista della Missione” (R.M. Capitolo III).

Riuniti con Maria in questo giorno in cui la Chiesa fa memoria della sua nascita invochiamo tutti insieme: "Veni, Sancte Spiritus! - Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!". Amen.

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

At 1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20

La solennità dell'Ascensione di Gesù, che oggi celebriamo, ci ricorda che al termine del cammino terreno percorso nell'amore e nella donazione, ci sarà la vita di comunione definitiva con Dio. E che c’è un mandato che Gesù ha lasciato a tutti noi, suoi discepoli, quello di portare avanti la realizzazione del progetto liberatore di Dio per l’umanità.

Nella prima lettura (At 1,1-11) si ribadisce il messaggio centrale di questa festa: Gesù, dopo aver portato nel mondo la Buona Notizia, è entrato nella comunione con Dio Padre - la stessa che attende tutti coloro che seguono il Signore. E i discepoli non possono rimanere immobili a guardare il cielo, bloccati da una religiosità alienante, ma devono andare tra gli uomini per continuare il progetto di amore di Gesù.

Il nostro testo inizia con un prologo (vv. 1-2) che mette in relazione il libro degli “Atti” con il terzo Vangelo - sia nel riferimento allo stesso Teofilo a cui il Vangelo era dedicato, sia nell'allusione a Gesù, ai suoi insegnamenti e alle sue opere nel mondo (tema centrale del terzo Vangelo). Questo prologo presenta quelli che saranno i protagonisti del libro degli Atti: lo Spirito Santo e gli apostoli chiamati a vivere la missione in comunione con il Signore.

Dopo il prologo, segue il tema dell’addio di Gesù (vv. 3-8). L'autore esordisce facendo riferimento ai “quaranta giorni” intercorsi tra la risurrezione e l'ascensione, durante i quali Gesù parlò ai discepoli “del Regno di Dio” (il che sembra essere in contraddizione con il Vangelo, dove la risurrezione e l'Ascensione vengono presentate proprio nel giorno di Pasqua – cfr Lc 24). Il numero quaranta è un numero certamente simbolico, perché definisce il tempo necessario affinché un discepolo impari bene e ripeta alla perfezione, le lezioni del maestro. In questo senso si fa riferimento al tempo simbolico dell'iniziazione cristiana, necessario per apprendere bene l'insegnamento del Risorto.

Le parole di congedo di Gesù (vv. 4-8) mettono in luce due aspetti: la venuta dello Spirito Santo e la testimonianza che i discepoli saranno chiamati a rendere “fino ai confini del mondo”. Abbiamo qui riassunta l'esperienza missionaria della comunità di Luca: lo Spirito si riverserà sulla comunità credente e donerà la forza per testimoniare Gesù nel mondo, da Gerusalemme a Roma. In realtà è questo il programma che Luca presenterà in tutto il libro degli Atti, messo in bocca a Gesù risorto. In questo modo l'autore vuole mostrare con la sua opera che la testimonianza e la predicazione della Chiesa sono radicate in Gesù stesso e saranno sospinte dall’azione dello Spirito.

L’ultimo tema è quello dell'ascensione vera e propria (vv. 9-11) che altro non è che un modo di esprimere simbolicamente che l'esaltazione di Gesù è totale e raggiunge dimensioni sovrumane; che è il culmine di una vita vissuta per Dio e che ora rientra nella gloria della comunione con il Padre. Il significato fondamentale dell'ascensione non sta nell’ammirare, a testa in su, l'elevazione di Gesù; ma è invitarci a seguire la “strada” di Gesù, guardando al futuro e impegnandoci, tra la gente, nella realizzazione del suo progetto di salvezza.

L'ascensione di Gesù ci assicura, innanzitutto, che una vita vissuta nella fedeltà ai disegni del Padre è una vita destinata alla glorificazione, alla comunione definitiva con Dio. Chi segue la stessa “via” di Gesù ascenderà, come Lui, alla vita piena.

La seconda lettura (Ef 4,1-13) invita i discepoli a prendere coscienza della speranza alla quale sono stati chiamati (cfr. una vita piena di comunione con Dio). Essi devono camminare verso questa “speranza” insieme ai loro fratelli – membra dello stesso “corpo” – e in comunione con Cristo, “capo” di questo “corpo”. Cristo risiede nel suo “corpo” che è la Chiesa; ed è in esso che diventa presente tra gli uomini di oggi.

In questo testo, vengono presentati due concetti molto significativi per definire il rapporto tra Cristo e la Chiesa: quello di “capo” e quello di “pienezza” (in greco, “pleroma”).

Dire che Cristo è il “capo” della Chiesa significa, innanzitutto, dire che i due formano una comunità indissolubile e che tra i due vi è una totale comunione di vita e di destino; significa anche che Cristo è il centro attorno al quale si articolano i vari movimenti del “corpo”, da cui e verso cui il “corpo” cresce e si orienta; Significa inoltre che la Chiesa/corpo è soggetta all'obbedienza a Cristo/capo: da Cristo solamente dipende la vita della Chiesa e solo a Lui deve obbedienza.

Dire che la Chiesa è la “pienezza” (“pleroma”) di Cristo significa dire che in essa risiede la “pienezza”, la “totalità” di Cristo. Ella è il ricettacolo, la dimora, dove Cristo si fa presente nel mondo; è attraverso questo “corpo” che Cristo continua ogni giorno a realizzare il suo disegno di salvezza in favore degli uomini. Presente in questo “corpo”, Cristo abbraccia il mondo e attira a sé l'intero universo, finché Cristo stesso sia “tutto in tutti” (v. 23).

Nel brano del Vangelo di Marco (16,15-20), Gesù risorto appare ai discepoli, li aiuta a superare la delusione e l'autocommiserazione e li invia in missione, come testimoni del progetto di salvezza di Dio. In comunione con il Padre, Gesù continuerà ad accompagnare i suoi discepoli e, attraverso di loro, offrirà agli uomini la vita nuova e definitiva.

La questione centrale affrontata nel nostro testo è il ruolo dei discepoli nel mondo, dopo l’Ascensione di Gesù. Il testo si compone di tre scene: Gesù risorto definisce la missione dei discepoli; Gesù “è elevato in cielo e siede alla destra del Padre” (v.19); i discepoli si mettono in viaggio per annunciare il Vangelo e compiere così la missione che Gesù ha loro affidato.

L'autore di questa catechesi rassicura i discepoli che non sono soli nella loro missione. Gesù, vivo e risorto, sarà con loro e si manifesterà al mondo nelle parole e nei gesti dei discepoli.

La solennità dell'Ascensione di Gesù è, soprattutto, il momento in cui i discepoli prendono coscienza della loro missione e del loro ruolo nel mondo. La Chiesa (la comunità dei discepoli, riuniti attorno a Gesù, animata dallo Spirito) è, essenzialmente, una comunità “in uscita” cioè chiamata a testimoniare al mondo il progetto di salvezza e di liberazione che Gesù è venuto a portare.

Diventare discepolo è, prima di tutto, apprendere gli insegnamenti di Gesù, imparare dalle sue parole, dai suoi gesti, un’intera vita offerta per amore. Siamo coscienti delle sfide che il mondo presenta ogni giorno, sono tante e sempre nuove; i discepoli, formati alla scuola di Gesù, sono invitati a “interpretare” queste sfide alla luce degli insegnamenti del loro Maestro. Allora chiediti: fino a che punto cerchi di conoscere gli insegnamenti di Gesù e applicarli alla vita di tutti i giorni?

Il giorno in cui sei stato battezzato, sei stato affidato a Gesù e in Lui, sei entrato a gustare la vita di comunione della Trinità. Cerchi di alimentare il tuo rapporto con il Signore e di condividere l’amore con cui la Trinità riempie la tua vita?

Proprio quando ci assale lo sconforto e la frustrazione per quello che succede nel mondo e facciamo fatica a vedere dei cambiamenti per il futuro, allora è importante ricordare le parole di Gesù: “Sarò con voi fino alla fine dei tempi”. Questa certezza deve alimentare il coraggio di testimoniare quello in cui crediamo. Shalom!

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

At 10,25-26.34-35.44-48; Sal 97; 1 Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

La liturgia della parola di questa VI Domenica di Pasqua presenta la “rete” d'amore che avvolge l'intera storia della salvezza. Dio che ne è la sorgente, ama suo Figlio Gesù, gli comunica il suo amore e poi lo invia affinché lo renda visibile al mondo, con parole e opere, fino a dare la vita.

I discepoli di Gesù, al suo seguito dalla Galilea a Gerusalemme, furono i testimoni oculari di questo suo amore “fino alla fine”. Trasformati in uomini nuovi dall'amore di Gesù, i discepoli a loro volta, proclamano e rendono presente con la loro vita l’amore di Dio per l’umanità.

Nella prima lettura (At 10,25-26.34-35.44-48), Luca, l’autore degli Atti, dopo aver descritto l'accoglienza riservata a Pietro dal centurione pagano Cornelio, mette in bocca allo stesso Pietro un discorso – di cui però la lettura di oggi ci presenta solo un breve estratto – dove anticipa il kerygma, cioè, le verità fondamentali su Gesù, il Cristo di Dio.

In questo discorso, Pietro parla di Gesù (v. 38a), della sua attività in Palestina (“passò di luogo in luogo facendo del bene e sanando tutti coloro che erano oppressi dal diavolo, perché Dio era con lui” – v. 38b), della sua morte (v. 39b), della sua risurrezione (v. 40) e, infine, della dimensione salvifica di tutta la sua vita (v. 43b). È questo il nucleo fondamentale dell'annuncio che Gesù ha affidato ai primi discepoli perché lo testimoniassero al mondo intero.

Il nostro testo sottolinea, soprattutto, il fatto che il messaggio di salvezza è destinato a tutte le nazioni, senza distinzione di persone, razze e popoli. Pertanto, l'annuncio di Gesù deve raggiungere gli estremi confini della Terra, perché Gesù è venuto a portare la salvezza a tutti senza eccezione alcuna. E l’effusione dello Spirito «su coloro che hanno ascoltato la Parola» (v.44), ebrei e pagani insieme (v.45), è la conferma lampante che Dio offre la salvezza a tutti. Per questo Pietro, dopo aver compreso la dimensione inclusiva e universale della salvezza, agisce di conseguenza e battezza il centurione Cornelio e tutta la sua famiglia.

Il grande insegnamento che ci viene dall’episodio del centurione Cornelio è che Dio ama tutti allo stesso modo, di un amore che non fa differenze e considera tutti, uomini e le donne, pagani e giudei, come i suoi figli e figlie amatissimi. È un amore che non discrimina sulla base del colore della pelle, della razza, della nazione o della posizione sociale, perché a nessuno è preclusa la misericordia di Dio.

Chiediamoci allora se nel nostro rapporto con gli altri, siamo condizionati da pregiudizi, da conclusioni affrettate, da prese di posizioni ideologiche che dividono, emarginano, discriminano persone o gruppi umani, anche all’interno delle parrocchie e delle comunità religiose?

Per l'autore della Prima lettera di Giovanni (seconda lettura, 1 Gv 4,7-10) esiste un “dogma” fondamentale che si impone con forza e che segna l'intera esistenza cristiana: la certezza che “Dio è amore”. Ciò significa che il carattere distintivo del Dio che il Signore ci ha rivelato, è l'amore. La prova sublime che Dio è amore sta nel fatto che ha mandato il suo Figlio unigenito per donarci la Vita (v.9). Gesù Cristo, che si è incarnato nella storia umana, realizzando il disegno del Padre, ha mostrato attraverso gesti di compassione e accoglienza, di cura e guarigione, l'amore di Dio per tutti, soprattutto per i più poveri, gli esclusi e gli emarginati...

Per amore, Egli ha lottato per liberarci dalle schiavitù, dall'oppressione, dall'egoismo, dalla sofferenza; per amore ha abbracciato la croce fino a versare l'ultima goccia di sangue; per amore è sceso agli inferi ed ha vinto la morte. Tutta la vita di Gesù è la conferma più evidente e inconfutabile dell'immenso amore di Dio per noi.

Deus caritas est” (Dio è amore) afferma l'autore della Prima Lettera di Giovanni. Questa non è una definizione astratta nemmeno un assunto filosofico; è una realtà che si evince dalla contemplazione degli interventi di Dio nella storia della Salvezza. E noi, se siamo “figli” di questo Dio che è amore, allora dobbiamo “amarci gli uni gli altri” con lo stesso amore, incondizionato, libero, disinteressato, con Dio stesso ci ama.

Il Vangelo (Gv 15,9-17) ci colloca, ancora una volta, a Gerusalemme, un giovedì sera del mese di Nisan dell'anno trenta, un giorno prima della celebrazione della Pasqua ebraica. È lo stesso scenario del brano di Vangelo che abbiamo ascoltato domenica scorsa.

Gesù è a tavola con i suoi discepoli, in un'indimenticabile cena d'addio e sa perfettamente cosa gli succederà subito dopo. Eppure, non si preoccupa tanto di sé stesso, conosceva bene i rischi quando ha accettato la sua missione ma, invece, si interessa dei suoi commensali, di cosa succederà a loro quando il loro Maestro sarà arrestato e portato via. Senza la presenza di Gesù che indica loro la strada, saranno i discepoli in grado di portare avanti il progetto del Regno? Sapranno discernere, in mezzo alle crisi e agli smarrimenti, cosa è più importante da fare? Riusciranno a mantenere viva la relazione con Gesù?

Per sostenerli nella loro missione futura, per aiutarli a superare le difficoltà e gli sbandamenti, Gesù dà loro la consegna del grande comandamento: “questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” – v.12; “fino al dono della vita” (v.13). Ai discepoli è chiesto di seguire l’esempio del Maestro: amarsi con un amore che è servizio e donazione totale. Da questo amore radicale nasce la comunità del Regno, la comunità del mondo nuovo, che testimonia la salvezza di Dio. Dio è presente nel mondo e agisce per liberare gli uomini attraverso quell'amore disinteressato, gratuito e totale dei suoi discepoli che porta il “marchio” di Gesù.

C'è chi pensa che la strada indicata da Gesù ai suoi discepoli sia una strada di rinuncia, di sofferenza, di sacrificio, che richiede di vivere lontani da tutto ciò che è bello, interessante e piacevole. Ma non è così. Tutto ciò che Gesù propone ai discepoli ha lo scopo di aiutarli ad essere felici: “Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia completa” (v.11). Perché la gioia non sta nell’accumulare i beni effimeri nemmeno risiede nel credere in valori futili che non saziano il desiderio profondo di senso, ma proviene dal dono di sé, dal servizio semplice e umile verso chi è in difficoltà, dalla cura dei più fragili e dalla vita offerta per amore.

A tutto questo crediamo? Quale gioia stai cercando: quella passeggera e superficiale che proviene dal possesso di beni effimeri, oppure quella duratura e profonda che solo gesti autentici di donazione, di servizio e cura dei fratelli, possono dare? Buona Domenica a tutti!

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

At 9,26-31
Sal 21
I Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

Nell'itinerario pasquale che abbiamo intrapreso, la liturgia di questa quinta domenica ci invita a riflettere su come Gesù è la fonte di vita autentica. L’immagine del Buon Pastore (cfr. Gv. 10,11-18, vangelo di domenica scorsa) ci ha ricordato che i discepoli di Gesù, sono chiamati a testimoniare in gesti concreti l’amore, come un pastore si prende cura delle sue pecore, al punto di dare la vita per loro.

Nella prima lettura (At 9,26-31), con il pretesto di raccontarci l'inserimento dell’apostolo Paolo nella comunità cristiana di Gerusalemme, Luca sottolinea che la fede cristiana nasce, cresce e si sviluppa nel dialogo e nella condivisione con i fratelli nella comunità, in questo modo diventerà, nel mondo, una “casa dalle porte aperte”, accogliente e inclusiva dove tutti possono fare un'esperienza di incontro con Gesù risorto.

La Chiesa è certamente una comunità fatta di uomini e donne e, pertanto, segnata da debolezze e fragilità; ma è, anzitutto, una comunità che, nella storia, è assistita, animata e guidata dallo Spirito Santo che è “il Paraclito” il “Consolatore”, cioè Colui che soccorre nei momenti di difficoltà e di smarrimento. Confidiamo nell'azione dello Spirito? Crediamo che la Chiesa, nonostante la fragilità dei suoi membri, sarà sempre un “sacramento universale di salvezza”, poiché guidata dallo Spirito di Dio?

Abbiamo già visto, nelle domeniche precedenti, che la prima Lettera di Giovanni è indirizzata alle Chiese giovannee dell'Asia Minore, con lo scopo di dirimere le controversie sollevate dagli eretici prognostici in contrato con alcuni punti fondamentali della teologia cristiana. Per questo motivo, l'autore della Lettera cerca di offrire ai cristiani, soprattutto quelli disorientati dalle credenze eretiche, una sintesi dei principi fondamentali di un’autentica vita cristiana.

Nella seconda lettura di questa domenica (1 Gv 3,18-24), viene ribadito che l'amore verso i fratelli non è qualcosa che si manifesta in solenni dichiarazioni, oppure in buone intenzioni, ma in gesti concreti di condivisione, solidarietà e di servizio. Ed è proprio con degli atteggiamenti concreti a favore dei fratelli e sorelle bisognosi che si rivela l'autenticità dell'esperienza cristiana e si rende testimonianza del progetto salvifico di Dio (v. 18).

Quando lasciamo effettivamente che l’amore guidi la nostra vita, possiamo essere sicuri di essere sulla via della verità; quando i nostri cuori sono aperti all’amore, al servizio e alla condivisione, allora siamo in pace perché in comunione con Dio. La nostra coscienza, infatti, può rimproverarci di errori passati e disapprovare alcune nostre scelte, ma se amiamo, sappiamo che siamo vicini a Dio, perché Dio è amore (v.19). L'amore autentico ci libera da ogni insicurezza e preoccupazione, poiché ci dà la certezza che siamo sulla strada giusta che conduce al Signore; e se Dio «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (v.20), non abbiamo nulla da temere. Vivere nell'amore significa vivere nel cuore di Dio e abbandonarsi alla sua bontà e misericordia.

Il Vangelo di questa domenica (Gv 15,1-8), attraverso l'allegoria della vite e dei tralci, ci assicura che nella nostra ricerca di una vita piena di senso, è a Cristo che dobbiamo guardare. Siamo consapevoli che è in Cristo che possiamo trovare un'autentica proposta di Vita? È per noi il vero “albero della Vita”, o preferiamo seguire percorsi di individualismo, autosufficienza e riporre la nostra fiducia e speranza in altri “alberi”, in altre proposte, in altri credi?

Cosa può spezzare la nostra intimità con il Signore e renderci simili a rami secchi e sterili? Tutto ciò che ci impedisce di rispondere con radicalità e zelo alla sequela esigente di Gesù, ci condanna alla sterilità e ci distoglie dalla vera Vita, per esempio: egoismo, autosufficienza, orgoglio, vanità, arroganza, pigrizia, autoindulgenza, avarizia, bramosia della ricchezza, o ricerca degli applausi... Che cosa, nel mio modo di essere, pensare o nel mio stile di vita, costituisce per me un ostacolo a restare unito a Gesù?

Ricordiamo che l'ascolto della Parola di Dio gioca un ruolo decisivo nel processo di conversione volto ad eliminare tutto ciò che impedisce la nostra unione con Cristo. Si, abbiamo bisogno di ascoltare la Parola di Gesù, di meditarla, di confrontare la nostra vita con l’esempio del Signore, di accogliere le provocazioni che ci aiutano nella conversione. Quanto spazio ha la Parola di Dio nella mia vita? Quando tempo dedico alla meditazione e alla Lectio Divina? È per me un criterio per rivedere le mie scelte?

Ognuno di noi è e rimarrà sempre un “ramo vivo e fecondo” della vera Vite, a condizione che è unito saldamente al Signore e cresce ogni giorno nell’intimità con Lui, nella preghiera, nell’ascolto della sua Parola, nella partecipazione ai Sacramenti e nel servizio della carità. Chi ama Gesù, la vera vite, produce frutti di fede per un abbondante raccolto spirituale e gesti di carità per il bene dei fratelli e delle sorelle. Preghiamo perché possiamo rimanere saldamente innestati in Gesù e perché tutte le nostre azioni abbiano da Lui inizio e in Lui il compimento.

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

61ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni

At 4,8-12
Sal 117
I Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

La quarta Domenica di Pasqua è considerata la “Domenica del Buon Pastore”, perché ogni anno, in questa domenica, viene proclamato il brano del capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni, che presenta Gesù come il “Buon Pastore". È questo, dunque, il tema centrale che la Parola di Dio suggerisce oggi per la nostra riflessione.

La prima lettura (At 4,8-12) presenta una catechesi rivolta ai credenti per mostrare loro come i discepoli di Gesù devono essere testimoni della fede.

La prima indicazione che Luca offre, riguarda Pietro, che era «pieno di Spirito Santo» (v. 8). I discepoli di Gesù non sono soli, abbandonati al loro destino, quando affrontano difficoltà e mettono a repentaglio la loro vita, per annunciare la salvezza. Infatti, è lo Spirito che li guida nella loro missione, li sostiene nella loro testimonianza e infonde in loro il coraggio necessario per affrontare le ostilità del mondo. Si realizza così la promessa che Gesù aveva fatto ai suoi discepoli: «quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di quello che direte in vostra difesa, perché “lo Spirito Santo vi insegnerà, in quel momento, ciò che bisogna dire” (Lc 12,11-12).

Nel discorso di Pietro emerge il coraggio e l'audacia (Luca usa la parola greca “parresia”) che vince la paura e che spinge l'apostolo verso una testimonianza radicale, (cfr. At 4,13) per testimoniare Gesù, soprattutto in un ambiente ostile. Luca suggerisce che la stessa “parresia” dovrà sempre caratterizzare l’annuncio Gesù da parte dei cristiani.

Nell'introduzione della seconda parte della lettera (1 Gv 3,1-2), l'autore ricorda ai credenti che Dio li ha resi suoi “figli”. E proprio dietro questa iniziativa di Dio si nasconde il suo immenso amore (v.1a). Essere chiamati “figli di Dio” per i credenti non è un semplice titolo onorifico, senza riscontro nella realtà anzi, definisce la situazione di coloro che sono amati da Dio con un amore “audace” e che da Lui hanno ricevuto la vita nuova. È chiaro che per essere “figlio di Dio” bisogna essere in comunione con Lui e vivere in modo coerente con la logica dell’amore verso il prossimo. I “figli di Dio” realizzano le opere di Dio, infatti, poco più avanti, in uno sviluppo che non rientra nella lettura odierna della liturgia, l'autore della lettera contrappone i “figli di Dio” ai “figli del diavolo” – che sono coloro che rifiutano la vita nuova di Dio e non praticano “la giustizia e non amano il fratello” (cfr. 1 Gv 3,7-10).

In quanto “figli di Dio”, vivono in modo coerente con i comandamenti di Dio sulla base di valori contrapposti a quelli che propone il “mondo”. Pertanto, il “mondo” li ignorerà o addirittura li perseguiterà, rifiutando la proposta di cui i “figli di Dio” sono testimoni. Non c’è nulla di nuovo né di sorprendente, perché il “mondo” aveva già rifiutato Cristo e la sua proposta di salvezza (v. 1b).

Il capitolo decimo del 4° Vangelo è dedicato alla catechesi del “Buon Pastore” che l’autore utilizza per spiegare la missione di Gesù: l'opera del “Messia” consiste nel condurre l’umanità verso pascoli verdeggianti e sorgenti cristalline da cui sgorga in pienezza la Vita.

L'immagine del “Buon Pastore” non è stata inventata dall'autore del 4° Vangelo, ma si ispira ad alcuni testi dell’Antico Testamento, in particolare, a Ez 34, dove viene utilizzata la metafora del “pastore” e del “gregge” per parlare del rapporto tra i governanti e il popolo. Il profeta, parlando agli esuli di Babilonia, denuncia che i capi di Israele sono stati, nel corso dei secoli, dei cattivi “pastori”, perché hanno pensato solo a loro stessi e hanno condotto il popolo su sentieri di sofferenza, di ingiustizia e di morte. Per questo, profetizza Ezechiele, Dio stesso verrà e assumerà la guida del suo Popolo, e metterà a capo del suo “gregge” un “Buon Pastore” (il “Messia”), che lo libererà dalla schiavitù e lo condurrà a nuova vita. Questa promessa di Dio – tramandata da Ezechiele – si è realizzata in Gesù cosi come ci racconta Giovanni.

Gesù è il buon pastore che conosce il suo gregge. Dopo aver definito in questo modo la sua missione e il suo rapporto con il gregge, Gesù spiega chi sono le sue pecore e chi può far parte del suo gregge. Quando afferma che “ho ancora altre pecore che non appartengono a questo recinto e devo radunarle” (v.16a), Gesù chiarisce che la sua missione è universale perché non si esaurisce dentro i confini del popolo di Israele, ma intende donare la vita a tutti i popoli della terra. Così deve essere la comunità di Gesù che per essenza, non si identifica con una specifica istituzione politica, sociale o culturale, perché abbraccia l’umanità senza discriminazioni, confini ed è inviata nel mondo intero. Ciò che è decisivo, per far parte della comunità di Gesù, è accogliere la sua chiamata e seguirlo nel progetto di vita che propone. Ci sarà, allora, un'unica comunità, il cui riferimento è Gesù, che camminerà con Lui verso la Vita vera ed eterna, perché “ascolteranno la sua voce e ci sarà un solo gregge e un solo pastore” (cfr. v.16b).

Avendo Cristo, il buon Pastore, come modello da seguire, preghiamo affinché ogni vocazione nella chiesa abbia come obiettivo di “seminare la speranza e costruire la pace…  infatti, siamo chiamati a riscoprire il dono inestimabile di poter dialogare con il Signore, da cuore a cuore, diventando così pellegrini della speranza, perché la preghiera è la prima forza della speranza.  Tu preghi e la speranza cresce e va avanti.” (Papa Francesco, Messaggio per la 61ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 21 aprile 2024)

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

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