Domenica della Divina Misericordia
At 5,12-16; Sal 117; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31
La liturgia della seconda domenica di Pasqua ci parla dei frutti della resurrezione: la pace, la gioia, la comunione e l’amore. Mentre Luca, negli Atti degli Apostoli, descrive la comunione, la fraternità che caratterizzava la prima comunità dei battezzati, nella pagina del Vangelo, Gesù comunica la sua pace ai discepoli: “Pace a voi!”. La resurrezione di Gesù è fonte di gioia, di comunione fraterna e di pace.
Il brano del Vangelo continua con l’esperienza del primo giorno della settimana. Non è più “al mattino” ma “la sera di quel giorno”. Giovanni, nella sua indicazione cronologica - il primo giorno della settimana -, insiste che l'esperienza dell’apparizione di Gesù ai discepoli viene dopo l’esperienza della tomba vuota che ha segnato un nuovo inizio, una nuova creazione e una nuova era della storia. “Il primo giorno” ci richiama in modo significativo, la settimana della creazione dove Dio compie il suo primo atto creativo.
Giovanni presenta dunque "il primo giorno" come quello che apre il tempo nuovo, che trova il suo fondamento principale nell'esperienza della risurrezione e dei frutti di detta resurrezione: amore, comunione fraterna e pace. Questo Gesù, Dio salva, Emmanuele, Dio con noi, è entrato nella storia dell’umanità e si è messo dalla parte dell’uomo fino a “dare la sua vita” per abbattere ogni muro di divisione e fare dei due popoli un popolo solo in lui, per creare “pace”, “fraternità’”, attorno a lui che è il signore di tutti.
In quello stesso giorno, gli apostoli erano chiusi in casa per la paura e Gesù venne, stette e disse. Gesù colui che cerca sempre nuove strade per raggiungerci e fare comunione con gli uomini viene all’incontro dei discepoli. Giovanni sottolinea che Gesù non solo venne ma stette che è un verbo della resurrezione: si trova solo negli ultimi due capitoli del vangelo di Giovanni. Sta chi ha compiuto un viaggio, si può fermare, e gioisce di questo fermarsi: Gesù risorto sta, non in un egoistico divano, con tutti i comfort, ma in mezzo ai suoi. Stare in mezzo è spesso identificato come stare al centro dell’attenzione. In mezzo a loro dirige un saluto: il suo saluto è “pace a voi” e lo ripeterà varie volte nel brano. Gli ebrei erano soliti salutarsi scambiandosi la pace ma nei brani delle apparizioni la pace, shalom, è molto più che un saluto. Indica tutto quello che concorre alla pienezza, alla felicità delle persone e Gesù può fare questo invito alla felicità perché lui è il responsabile di questa felicità.
Gesù dona la pace che è quella serenità dello spirito che permette poi di capirci, di fare luce nei nostri rapporti, di comprendere e di vedere il sole più che le ombre, di distinguere tra il Signore e un fantasma, tra il volto umano di una persona da abbracciare e l’ombra di un possibile nemico da evitare. I discepoli erano rimasti soli, sconfortati dalla morte del loro maestro, arrabbiati per il loro mancato progetto umano, ma proprio ciò che manca a questa comunità di discepoli sconvolta è ciò che Gesù dona. La pace per la comunità dei credenti è un dono di Dio attraverso il Risorto. Proprio ciò che manca ancora oggi per l’umanità. Gesù mostra le mani bucate e il costato trafitto, che sono il prezzo della pace che Egli ha donato e anche il costo del riscatto dell’umanità. Tutti segni del suo amore.
Gesù non si limita ad augurare la pace ma la dona come aveva detto durante l’ultima cena: “vi lascio la pace, vi do la mia pace”. La sua pace è totalità di verità, giustizia e amore, frutto di una piena comunione con Dio. Come possiamo vedere, la pace è dono di Dio e che è frutto della resurrezione.
Il discepolo missionario come aveva detto il defunto Papa Francesco è colui che sa “passare dal dio mondano al Dio cristiano, dall’avidità che ci portiamo dentro alla carità che ci fa liberi, dall’attesa di una pace portata con la forza all’impegno di testimoniare concretamente la pace di Gesù”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Veglia Pasquale nella Notte Santa
Tutte le letture si concludono con il Vangelo della Resurrezione Luca 24, 1-12
Nel silenzio di questa notte, nel silenzio che avvolge il Sabato Santo, toccati dall’amore senza limiti di Dio, viviamo nella speranza dell’alba del terzo giorno, l’alba della vittoria dell’amore di Dio, l’alba luminosa che permette agli occhi del nostro cuore di vedere in una luce nuova la nostra vita, le sue difficoltà e le sue sofferenze.
Se i nostri fallimenti e le nostre amarezze sembravano segnare la fine di tutto, oggi invece sono illuminati dalla speranza. Il gesto d’amore sulla Croce è confermato dal Padre e la luce abbagliante della risurrezione avvolge e trasforma ogni cosa: dal tradimento può nascere l’amicizia, dal rinnegamento il perdono, dall’odio l’amore.
Se la nostra lunga Liturgia della Parola di stasera è iniziata con il racconto della Genesi, si conclude con la proclamazione della risurrezione, tratta dal racconto della Buona Novella di Luca. In questo testo finale ritroviamo alcuni elementi presenti nel racconto della Genesi con cui abbiamo iniziato: c'è il vuoto e l'oscurità della tomba; c'è un forte elemento di confusione che vediamo in coloro che arrivarono alla tomba e la trovarono vuota; c’è anche quel senso di meraviglia e stupore, che vediamo nella figura di Pietro di ritorno dalla tomba, che si nota chiaramente nel primo racconto della creazione.
Vale la pena che anche noi, in questa notte di Pasqua, ci poniamo qualche domanda: Come ci sentiamo nel profondo, mentre ascoltiamo la Parola di Dio e contempliamo il grande evento pasquale? Quale è il nostro luogo questa sera? Forse alcuni possano star vivendo nella loro vita un momento di vuoto e oscurità; forse altri si sentiranno un po' persi e confusi, e magari troveranno difficile comprendere il significato della vita e persino le vie di Dio. E poi che dire degli elementi di meraviglia e stupore che si trovano nel racconto della Genesi e nel racconto della Resurrezione di Luca? Fanno parte anche della nostra esperienza?
La celebrazione della Liturgia di questa Notte Santa dovrebbe suscitare nei nostri cuori un senso di meraviglia mentre contempliamo il grande dono della bontà di Dio rivelato nel Suo amore creatore e redentore. L'Exsultet, che ha aperto la liturgia di questa sera, così come esprime bene il senso di meraviglia e stupore della Chiesa nell'evocazione delle tante opere meravigliose che Dio ha compiuto a favore del Suo popolo, allo stesso tempo dovrebbe dire le meraviglie che il Signore opera ancora a nostro favore grazie a un amore così sorprendente e così divino.
Il grande mistero della Pasqua si rivela a tutti noi nel dono della vita sperimentato anche quando affrontiamo le perdite causate dalla morte o viviamo la speranza nei momenti e nei luoghi della disperazione.
Se la resurrezione può sembrare difficile da comprendere, il suo potere si riconosce in quelle situazioni senza uscita che svelano percorsi di salvezza prima inimmaginabili o nella cruda aridità della nostra esistenza quando la risurrezione sgorga come una fresca ondata d'acqua di sorgente.
La risurrezione di Cristo è la risposta creativa di Dio alla morte. La vediamo quando –in un momento storico come l’odierno dominato da guerre, povertà e instabilità politica– scopriamo coloro che hanno il valore di amare dove l’odio regna incontrastato. Nel cuore delle prove più grandi e nell'oscurità più profonda il potere della risurrezione sono a nostra disposizione se solo osiamo aprire i nostri cuori per accogliere il dono; se, come Pietro sbalordito davanti a quella tomba vuota, sappiamo dire “non è qui!” e siamo disposti a cercare Gesù dove invece ci aspetta: nelle nostre case e in tutti quei luoghi dove ogni singolo giorno ci risvegliamo alla vita.
Auguri di buona Pasqua a tutti!
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.
Risurrezione del Signore
At 10,34.37-43; Sal 117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9
Fin dall'antichità la liturgia del giorno di Pasqua inizia con le parole: Resurrexi et adhuc tecum sum, “sono risorto e sono con te”, hai posato la tua mano su di me!
Celebriamo la risurrezione di Gesù che proclama la vittoria della Vita sulla morte, dell’Amore sull’odio, del Bene sul male, della Verità sulla menzogna, della Luce sulle tenebre. Ci assicura che la morte non può imprigionare coloro che accettano di fare della propria vita un dono d’amore. È dall’amore che nasce la Vita piena, la Vita in abbondanza, la Vita vera ed eterna.
Nella prima lettura (At 10,34.37-43), Pietro, a nome della comunità, presenta l’esempio di Cristo che «passò per il mondo facendo del bene» e che, per amore, fece della sua vita un dono totale a Dio e all'umanità. In un breve riassunto, Pietro “presenta” Gesù a Cornelio e alla sua famiglia. Si tratta di un “primo annuncio”, in cui sono elencate le coordinate fondamentali della vita e del cammino di Gesù. Si noti come la risurrezione di Gesù non viene presentata, in questo annuncio di Pietro, come un fatto isolato, ma come il culmine di una vita vissuta nell'obbedienza al Padre e nel dono di sé. Dopo che Gesù andò per il mondo “facendo del bene e liberando tutti gli oppressi”, dopo essere morto sulla croce come risultato di questa “via”, Dio lo risuscitò.
La vita nuova e piena che la risurrezione significa sembra essere il punto di arrivo di un'esistenza posta al servizio del progetto salvifico e liberante di Dio. Grazie a lei scopriamo che il cammino percorso e proposto da Gesù conduce alla Vita e i discepoli, testimoni di questi fatti, devono annunciare questo “cammino” a tutta l'umanità.
La seconda lettura (Col 3,1-4) insegna che i cristiani, uniti a Cristo risorto attraverso il battesimo, sono morti al peccato e sono nati a una nuova Vita. Lungo tutto il loro cammino nel mondo, essi devono testimoniare questa Vita nuova nelle loro azioni, nel loro amore, nel loro servizio a Dio e all'umanità.
Il Battesimo ci introduce in una dinamica di comunione con Cristo risorto. A partire dal Battesimo, Cristo diventa il centro e il riferimento fondamentale attorno al quale si costruisce tutta la vita del credente. Quale posto occupa Cristo nella nostra vita? Siamo consapevoli che il nostro Battesimo ha significato un impegno verso Cristo e un'identificazione con Cristo?
Il Vangelo (Gv 20,1-9) ci invita a guardare la tomba vuota di Gesù e a “credere”: il vero discepolo di Gesù, colui che lo conosce bene, che comprende la sua proposta ed è disposto a seguirlo, sa che il suo cammino vissuto e amato non poteva concludersi nella tomba, nel fallimento, nel nulla. Perciò è sempre pronto ad accogliere la Buona Notizia della risurrezione.
Il racconto giovanneo inizia con un’indicazione apparentemente cronologica, ma che va intesa soprattutto in chiave teologica: «il primo giorno della settimana». Ciò significa che qui inizia un nuovo ciclo: quello della nuova creazione, quello della liberazione definitiva. Questo è il “primo giorno” di un tempo nuovo e di una nuova realtà: il tempo dell’Uomo Nuovo, dell’Uomo nato dall’azione creatrice e vivificante di Gesù.
In questo primo giorno della settimana, «di buon mattino», Maria Maddalena si reca al sepolcro di Gesù. Nel quarto Vangelo, Maria Maddalena rappresenta la nuova comunità nata dall'azione creatrice e vivificante del Messia. Per Maria di Magdala, invece, «era ancora buio»: la comunità nata da Gesù era convinta, a quel tempo, che la morte avesse trionfato e che Gesù fosse prigioniero del sepolcro. Si trattava, quindi, di una comunità persa, disorientata, insicura, impaurita e senza speranza.
La prima cosa che Maria Maddalena vede avvicinandosi è che la pietra che chiudeva il sepolcro è stata rimossa. Questa pietra, posta dopo che il corpo di Gesù fu deposto nella tomba, segnò la sua morte definitiva. Stabilì la separazione tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Perché questa pietra è stata rimossa? Inoltre la tomba è vuota. Cosa significa questo? Maria conferma questo dato ma non riesce a capire dove porti; è disorientata e perplessa. È ancora nel buio e in questo primo momento non prende in considerazione l'ipotesi che la morte di Gesù non sia definitiva. La sua unica conclusione fu che qualcuno aveva rimosso il corpo senza vita di Gesù da quella tomba.
La conclusione di Maria, la sua difficoltà nell'interpretare i segni, rivela probabilmente la perplessità e la confusione dei discepoli, nelle prime ore del mattino di Pasqua, quando scoprono che la tomba di Gesù è rimasta vuota. Solo più avanti, in uno sviluppo che la liturgia di questo giorno non ha conservato, Maria di Magdala vivrà l'incontro con Gesù risorto e diventerà testimone della risurrezione (cfr Gv 20,11-18).
La risurrezione di Gesù è la vittoria della Vita sulla morte, della verità sulla menzogna, della speranza sulla disperazione, della giustizia sull'ingiustizia, della gioia sulla tristezza, della luce sulle tenebre. Ci apre prospettive completamente nuove e ci assicura il trionfo di Dio sulle forze che vogliono distruggere il mondo e gli uomini. Noi che crediamo e celebriamo la risurrezione di Gesù siamo testimoni della vittoria della Vita accanto ai nostri fratelli paralizzati dalla paura e dal pessimismo? Il messaggio che portiamo al mondo è un messaggio di gioia e speranza che ha i colori del mattino di Pasqua?
Cari fratelli e sorelle in Cristo, ringraziamo il Signore, perché Egli, con la potenza della sua parola e dei sacri sacramenti, ci guida nella giusta direzione e solleva i nostri cuori. E preghiamolo così: «Sì, Signore, fa' che diventiamo persone pasquali, uomini e donne di luce, ricolmi del fuoco del tuo amore. Amen».
Buona Pasqua a tutti!
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.
Nella Basilica di San Pietro la Messa crismale del Giovedì Santo presieduta dal cardinale Calcagno su delega di Francesco. Nell’omelia del Pontefice l’invito ai preti a “ricominciare” durante l’Anno giubilare “nel segno della conversione” e a trasformare le parole in azioni tangibili: “I poveri, prima degli altri, e i bambini, gli adolescenti, le donne e anche coloro che nel rapporto con la Chiesa sono stati feriti, hanno il “fiuto” dello Spirito Santo: lo distinguono da altri spiriti mondani"
Il sacerdozio diventa “un ministero di speranza” quando è Cristo a condurre, perché “in ognuna delle nostre storie Dio apre un giubileo, cioè un tempo e un’oasi di grazia”. È l’incoraggiamento che il Papa rivolge a tutti i sacerdoti nell’omelia per la Messa crismale del Giovedì Santo. La liturgia celebrata nella Basilica di San Pietro questa mattina, 17 aprile, è presieduta dal cardinale Domenico Calcagno, presidente emerito dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, su delega di Francesco ancora convalescente a Casa Santa Marta. Nella circostanza sono stati consacrati gli oli che poi saranno utilizzati per i vari sacramenti durante l’anno, come Battesimo, cresima o unzione degli infermi, alla presenza di 4300 persone, di cui 1800 sacerdoti e 2500 fedeli.
Leggi qui il testo integrale dell'omelia del Papa Francesco
Nell’omelia, pronunciata dal cardinale, il Papa esorta i preti a “leggere il sacerdozio ministeriale come puro servizio al popolo sacerdotale” per portare “il lieto annuncio” della risurrezione di Cristo ai fedeli. Ricordando il rinnovamento delle promesse del giorno dell’ordinazione, di cui si fa memoria nella Messa crismale, Francesco sottolinea l’importanza di guardare la propria storia senza paura: questo porta “ristoro” a tutto il popolo di Dio, tramite la “prossimità quotidiana del prete alla sua gente in cui le profezie di giustizia e di pace si adempiono”, sottolinea il Pontefice. E l’Anno Santo, aggiunge, è una perfetta occasione per poter riscoprire il sacerdozio in servizio dei fedeli.
Le anfore di oli che verranno usati per i Sacramenti. Foto: Vatican Media
L’anno giubilare rappresenta così, per noi sacerdoti, una specifica chiamata a ricominciare nel segno della conversione. Pellegrini di speranza, per uscire dal clericalismo e diventare annunciatori di speranza.
Il Papa insiste poi sull’importanza della Parola di Dio per accompagnare il ministero. “La nostra vita è sostenuta da buone abitudini. Esse possono inaridirsi, ma rivelano dov’è il nostro cuore – evidenzia - Quello di Gesù è un cuore innamorato della Parola di Dio: a 12 anni lo si capiva già e ora, divenuto adulto, le Scritture sono casa sua”. L’invito ai sacerdoti è quindi a ricordarsi che la Bibbia rimane la loro “prima casa”, dove si è costruito un rapporto con la Parola di Dio e in cui ognuno ha “delle pagine più care”.
Aiutiamo anche altri a trovare le pagine della loro vita: forse gli sposi, quando scelgono le Letture del loro matrimonio; o chi è nel lutto e cerca dei brani per affidare alla misericordia di Dio e alla preghiera della comunità la persona defunta.
Tornando al Vangelo, Papa Francesco evidenzia l’importanza del passo del profeta Isaia che sceglie Gesù in cui si legge che “lo Spirito del Signore à sopra di me”. “Noi seguiamo Lui e per ciò stesso ci riguarda e ci coinvolge la sua missione” ed è questo Spirito che “invochiamo sul nostro sacerdozio” e che rimane “silenzioso protagonista del nostro servizio”. Francesco poi rimarca che i fedeli avvertono subito quando questo Spirito è reale e la Parola di Dio si trasforma in fatti tangibili.
La participazione dei sacerdoti. Foto: Jaime C. Patias
I poveri, prima degli altri, e i bambini, gli adolescenti, le donne e anche coloro che nel rapporto con la Chiesa sono stati feriti, hanno il “fiuto” dello Spirito Santo: lo distinguono da altri spiriti mondani, lo riconoscono nella coincidenza in noi tra l’annuncio e la vita. Noi possiamo diventare una profezia adempiuta, e questo è bello!
Francesco aggiunge che gli oli consacrati durante Messa sono un sigillo di “questo mistero trasformativo nelle diverse tappe della vita cristiana”. Invita quindi i sacerdoti a “mai scoraggiarsi, perché è un’opera di Dio” e lui “non fallisce mai”.
Fino all’ultimo giorno, è sempre Lui a evangelizzarci, a liberarci dalle prigioni, ad aprirci gli occhi, a sollevare i pesi caricati sulle nostre spalle. E poi perché, chiamandoci alla sua missione e inserendoci sacramentalmente nella sua vita, Egli libera anche altri attraverso di noi. In genere, senza che ce ne accorgiamo. Il nostro sacerdozio diventa un ministero giubilare, come il suo, senza suonare il corno né la tromba: in una dedizione non gridata, ma radicale e gratuita.
La celebrazione della Messa del Crisma. Foto: Jaime C. Patias
Nonostante “la nostra casa comune, tanto ferita, e la fraternità umana, così negata, ma incancellabile”, il “raccolto di Dio è per tutti” ed è “un campo vivo, in cui cresce cento volte più di quello che si è seminato”, afferma Francesco. “Ogni contadino, infatti, conosce stagioni in cui non si vede nascere nulla. Non ne mancano anche nella nostra vita. È Dio che fa crescere e che unge i suoi servi con olio di letizia”. Il Pontefice conclude incoraggiando i sacerdoti nel loro ministero, anche con le difficoltà che possono sorgere: “Molte paure ci abitano e tremende ingiustizie ci circondano, ma un mondo nuovo è già sorto”.
Passione, morte e risurrezione di Gesù, che ci apprestiamo a vivere, sono il terreno che sostiene saldamente la Chiesa e, in essa, il nostro ministero sacerdotale.
* Isabella H. de Carvalho – Città del Vaticano. Pubblicato originalmente in: www.vaticannews.va
Es 12,1-8.11-14; Sal 115; ICor 11,23-26; Gv 13,1-15
Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono di amore estremo che il Signore ci ha fatto. Nella lettura dal Libro dell’Esodo (12,1-8.11-14), che abbiamo appena ascoltato, viene descritta la celebrazione della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma vincolante.
Al centro della cena pasquale, ordinata secondo determinate regole liturgiche, stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto. Israele non doveva dimenticare che Dio aveva personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia era continuamente basata sulla comunione con Dio. Israele non doveva dimenticarsi di Dio. Questa era una festa di commemorazione, di ringraziamento e, allo stesso tempo, di speranza.
Allo stesso modo, nella seconda lettura (1 Cor 11,23-26), Paolo inizia il discorso sulla Cena del Signore identificando la sua autorità nell'insegnare su questo argomento: la fonte della sua sapienza è il Cristo risorto. Poi ne delinea il processo rituale. Lui non era presente all'Ultima Cena quando Gesù istituì l'Eucaristia; la sua conoscenza non proveniva da un'esperienza diretta ma dalla condivisione della Cena del Signore con i suoi fratelli cristiani. Quindi, le parole dell'istituzione che Paolo utilizza sono probabilmente le parole concrete che i primi cristiani usavano nella loro pratica liturgica.
La Cena del Signore è un ringraziamento per la morte salvifica di Cristo e allo stesso tempo un ricordo di Gesù e della sua morte. Questo ricordare non significa solo riflettere su personaggi o eventi storici, ma renderli presenti riportandoli all’oggi. Evidentemente chi viene ricordato è il Cristo risorto e non un eroe morto da tempo.
Il riferimento alla "nuova alleanza" chiarisce che un rapporto di reciproco privilegio e responsabilità tra Dio e i credenti è fondamentale per questa esperienza sacramentale. Coloro che mangiano e bevono la Cena del Signore incarnano l'azione salvifica di Cristo: rendono presente e annunciano la buona novella. Questo accesso a un rapporto intimo con Dio, attraverso Gesù, è sia un privilegio che una responsabilità.
Paolo chiarisce che la chiave dell'esperienza eucaristica è la partecipazione. Attraverso la condivisione del pasto sacro, i credenti instaurano una relazione reciproca con Dio e tra di loro: ricordano e ringraziano per il sacrificio che Dio ha compiuto per l'umanità in Gesù, e ricambiano il favore rivolgendosi agli altri con la buona notizia che l'opera salvifica e la sollecitudine amorevole di Dio sono ancora attive nel mondo fino alla fine dei tempi.
Fu alla vigilia della sua Passione che Gesù, insieme ai suoi discepoli, celebrò questa cena dai molteplici significati. È in questo contesto che dobbiamo comprendere la nuova Pasqua che Egli ci ha donato nella Santissima Eucaristia.
L’evangelista Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1). È arrivata l’“ora” di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio ed agape–amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre.
Nella lavanda dei piedi, Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col “panno” dell’umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati!
La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della “capacità per Dio” offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella narrazione della lavanda dei piedi, è per sua natura caratteristico del cristianesimo in generale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.
Al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Il “comandamento nuovo” non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. La novità in questo è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo.
Pregiamo il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento. Il Giovedì Santo ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.