Sul numero di febbraio del mensile de L'Osservatore Romano, la testimonianza del cardinale Giorgio Marengo, IMC, prefetto apostolico di Ulaanbaator, di come le donne siano state, nella parrocchia di Arvaikheer, le prime ad essere state battezzate e di come, esattamente come al sepolcro, siano "arrivate per prime, portando con sé i mariti, i figli e i padri"
Il dono della missione è al cuore della Chiesa. Da quel mattino di pietra rotolata via dal sepolcro, passando per l’esperienza vibrante della Pentecoste, la comunità credente si è sentita guidata a condividere l’immensa gioia della risurrezione e ad offrire a persone di ogni cultura la possibilità concreta di sperimentare questa nuova realtà nella propria vita. Erano uomini e donne in quel primo nucleo di discepoli-missionari e sono ancora uomini e donne a continuare nell’oggi la stessa dinamica di annuncio e testimonianza. La vita missionaria può aiutare ad avere uno sguardo ampio e arricchente sul maschile e femminile nella Chiesa.
La mia esperienza al riguardo è molto positiva e ne ringrazio. Fin dall'infanzia, la compresenza del maschile e del femminile ha fatto parte della normalità della vita quotidiana, a cominciare dalla famiglia – nella quale con mia sorella c’è sempre stato un rapporto molto costruttivo e arricchente - poi nella scuola e attraverso lo scoutismo (ragazzi e ragazze), che ha segnato i miei anni più giovani. Dopo la maturità classica, sono entrato tra i Missionari della Consolata, Istituto fondato dal beato Giuseppe Allamano per formare religiosi e religiose per la missione ad gentes. Un unico fondatore diede vita a una congregazione dal volto maschile e femminile, impartendo gli stessi insegnamenti agli uni e alle altre, pensando precisamente a una famiglia, nel pieno rispetto della diversità, ma nella convinzione che per il raggiungimento del fine ultimo (la prima evangelizzazione) ci vogliano uomini e donne consacrati a Dio per questo scopo. Non solo gli uni o le altre, ma insieme.
Donne partecipano a una celebrazione presieduta dal cardinale Marengo. Sussurrare il Vangelo in Mongolia.
E che il beato Allamano avesse ragione l’ho toccato di persona dal primo giorno in cui ho messo piede in Mongolia; anzi, prima ancora, visto che ci fu una preparazione prossima alla partenza in cui ci venne data la possibilità di conoscerci tra noi e approfondire l’ispirazione originaria del nostro carisma. Nel primo gruppo della Consolata in Mongolia eravamo in cinque: tre suore, un altro sacerdote e io. Una missione come questa, caratterizzata da condizioni estreme - numero molto ridotto di cattolici rispetto all'intera popolazione (meno dell’1 per cento), clima che oscilla tra i -40 gradi in inverno e i +40 gradi in estate, una lingua difficile da imparare - richiede una certa abnegazione e molta sincerità con se stessi. I tratti del carattere, sia buoni che cattivi, appaiono sotto la luce trasparente del cielo della Mongolia, che si tratti di un uomo o di una donna. In questa esperienza di deserto, lavoriamo insieme, uomini e donne, nella diversità delle vocazioni, ma in un’armonia essenziale, perché ci sentiamo umili, uguali nella nostra indigenza di fronte al compito affidatoci (l’annuncio del Vangelo), che può essere realizzato solo nella fede, con tempi lunghi e in piena libertà, sia che siamo sacerdoti, religiose o vescovi.
Per me, la missione condivisa è stata e continua ad essere una fonte di umanizzazione integrale. È anche una delle condizioni per la vitalità della missione, perché il rispetto e la stima reciproci che i missionari e le missionarie hanno tra loro fanno parte della testimonianza data in nome del Vangelo. Nella remota parrocchia di Arvaikheer, dove sono stato per diversi anni, i primi gruppi di battezzati erano formati interamente da donne. Come al sepolcro, le donne sono arrivate per prime, portando con sé i mariti, i figli e i padri. Molte donne portano anche il peso delle loro famiglie da sole. Durante l’adorazione eucaristica, nella chiesa rotonda a forma di ger, preghiamo insieme, religiosi e religiose, tutti intorno al Santissimo Sacramento. Nella diversità dei rispettivi ruoli, portiamo avanti insieme il discernimento e il lavoro missionario, trovando nella preghiera la fonte viva del nostro essere figli e figlie di Dio.
* Cardinale Giorgio Marengo, IMC, Prefetto apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia). Pubblicato nel sito www.vaticannews.va
Durante la visita in Mongolia, Papa Francesco benedice Tsetsege, 69 anni, nella sua ger. È la donna che ha trovato la Signora del Cielo. Foto: Vatican Media
Vatican News parla da oggi anche la lingua del Paese asiatico, visitato dal Papa lo scorso settembre. L’idioma è il 52.mo che si si aggiunge agli altri già presenti, tra scritto e parlato, grazie ad una collaborazione con la Chiesa locale. Verranno tradotti e pubblicati sulle pagine del portale vaticano tutti gli Angelus domenicali e le catechesi del mercoledì
Rivolgersi alle periferie del mondo, alle comunità più remote, è nel DNA della Radio Vaticana fin dal primo messaggio radiofonico di Papa Pio XI nel 1931. Dopo aver aggiunto negli ultimi anni al sito Vatican News il coreano, l'ebraico e il macedone, alle 51 lingue già presenti nel sito si aggiunge ora il mongolo. “Siamo felici di questa nuova possibilità di poter leggere le parole del Santo Padre in mongolo – sottolinea il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar -. E' uno dei frutti della sua recente visita nella terra dall'eterno Cielo blu, che ha toccato il cuore dei cattolici mongoli, ma anche quello di tante persone di altre convinzioni religiose, positivamente impressionate dalla grande testimonianza umana e spirituale di Papa Francesco. ‘Le sue parole ci sono entrate dentro’ – ribadisce il porporato -, hanno commentato in molti, ‘mettendo in risalto i valori della nostra tradizione’. Ora il magistero ordinario del Successore di Pietro è disponibile in lingua mongola. Un nuovo strumento a servizio dell'evangelizzazione, che ci auspichiamo dispieghi tutto il suo potenziale attraverso i canali odierni della comunicazione”.
Il cardinale Giorgio Marengo presenta al Papa alcuni malati ospiti della Casa della Misericordia in Mongolia. Foto: OSV
“E’ una piccola cosa - afferma il Prefetto del dicastero per la Comunicazione Paolo Ruffini - che a noi però sembra ed è grande quanto grande è la Mongolia. Parlare tutte le lingue, il maggior numero di lingue possibile, è la nostra missione, il nostro servizio. Farlo non da soli, ma con chi vive nei territori dove arriva la nostra parola ci reinsegna l’importanza di affrontare le sfide insieme, di camminare insieme, di fare «cose grandi» nella fatica quotidiana di cose apparentemente piccole. Passo dopo passo. Nella Chiesa - rimarca Ruffini - non c’è grande e non c’è piccolo. Parlare anche il Mongolo aiuterà la Chiesa tutta a riscoprire l’importanza del piccolo, dei piccoli semi. E’ più quello che riceveremo di quello che daremo. Come spesso ripete Papa Francesco, la rivelazione di Dio avviene nella piccolezza: «Lo Spirito sceglie il piccolo, sempre; perché «non può entrare nel grande, nel superbo, nell’autosufficiente».
“Il viaggio in Mongolia del settembre 2023 è stato straordinario - precisa il Direttore Editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli - per la testimonianza che tutti noi abbiamo ricevuto da quella Chiesa piccola e ancora nascente, dedita al servizio del prossimo. È rimasta storica la foto fatta dal drone con il Successore di Pietro insieme a tutti i cattolici del Paese, che sono 1.500. Come segno di attenzione a questa piccola comunità, per favorire la comunione, grazie alla collaborazione del cardinale Marengo, abbiamo pensato di aprire una pagina di Vatican News in lingua mongola, portando così per il momento a 52 le lingue usate dal sistema dei media vaticani. È un omaggio a questi nostri fratelli e alla loro testimonianza evangelica in Mongolia".
“La nostra missione è diffondere il Vangelo in tutto il mondo, dare voce alle Chiese locali, leggere i fatti attraverso la lente della dottrina sociale, non lasciare mai nessuno da solo – evidenza Massimiliano Menichetti, Responsabile di Radio Vaticana Vatican News -. Abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto durante il viaggio del Papa in Mongolia, ispirati proprio dal Suo sostenere questa piccola comunità. Abbiamo iniziato a pubblicare sul portale Vatican News, ma più avanti potrebbe esserci anche una produzione in audio. Stiamo lavorando a modelli sinergici con le Chiese locali, proprio per dare sempre più voce a quella speranza che cambia il mondo”.
Fonte: Vatican News
La visita del Papa alla Mongolia, i primi quattro giorni di settembre del 2023 non ha radunato decine o centinaia di migliaia di fedeli come in altre occasioni. Qui ci sono solo 1,500 cattolici battezzati. Tuttavia a me è bastato per entrare in un turbinio di avvenimenti ed emozioni.
I nostri missionari, preti e suore, erano indaffarati per l’organizzazione dell’avvenimento. Uno incontrava i giornalisti RAI e Vaticano, sr Anna organizzava la logistica, p. Dido la liturgia, altri erano incaricati di ospiti di lingua spagnola e sr Esperanza era la cuoca ufficiale del Papa. In casa era tutto un via vai e p. Lourenco e io che eravamo appena arrivati dalla Corea, non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo. Una sera p. Ernesto portò a casa due giornalisti e… Giovanni! Proprio p. Giovanni degli OMI che conoscevo bene dalla Corea e che era appena arrivato dalla Cina dove lavora da 12 anni. Che magnifica sorpresa! Che bello incontrare un vecchio amico quando meno te l’aspetti!
A Ulaan Baator erano arrivati anche alcuni fedeli della nostra parrocchia di Arvaikheer, a più di 400 km di distanza da qui, e una di loro aveva espresso il desiderio di poter “toccare” il Papa. Immaginatevi una comunità di cattolici più piccola di qualsiasi nostra comunità parrocchiale: che esperienza unica poter vedere dal vivo il Papa e toccarlo! Per i Cattolici Mongoli è stato come poter toccare la loro comunione con tutta la chiesa universale, e non solo in senso simbolico, ma proprio fisico. Perlima, quella cattolica di Arvaikheer che lo aveva tanto desiderato, insieme a tanti altri, ha avuto l’opportunità di toccare il Papa, quando all’offertorio della messa gli ha portato il calice del vino.
Molti non cristiani si chiedevano chi era questo signore tanto importante, che veniva da Roma e incontrava persino il presidente. Per loro è stata la prima vera esposizione alla Chiesa Cattolica. E da adesso non ci vedono più come una delle tante ditte straniere che vengono qui a far soldi, ma come portatori di una religione di pace e amore. Alcuni commentavano con orgoglio: “Questo grande uomo è il capo di un miliardo e trecento milioni di persone, quindi in questi giorni gli occhi di un miliardo e trecento milioni di persone guarderanno alla Mongolia”. E dopo che ha reso onore alla statua di Ginghis Khaan sulla piazza principale della capitale: “Ha onorato il nostro grande Ginghis Khaan, allora ha un grande rispetto per noi!”
Francesco ha lodato i missionari che lavorano in Mongolia per le loro attività nel sociale. “Questo è importantissimo,- ha detto –è il vostro biglietto da visita come cristiani. Ma sopra tutto ci vuole l’adorazione, la contemplazione. Dovete vivere e comunicare il: “gustate e vedete come è buono il Signore”.
Il giorno dell’incontro con i religiosi, gli incaricati della sicurezza erano sicuri che Lourenco e io, non potevamo entrare al luogo dell’incontro col pontefice a causa di un codice sbagliato. Poi p. Dido, incaricato della liturgia per la visita del Papa è riuscito a farci superare questo primo ostacolo. In seguito abbiamo trovato un altro incaricato della sicurezza che aveva delle sicurezze diverse da quello di prima e finalmente, anche se noi non eravamo più sicuri di niente, siamo potuti entrare nella chiesa cattedrale dove avremmo sicuramente incontrato il Papa.
Non pensate che io sia uno che ci tiene particolarmente a queste cose. Ma sta di fatto che nelle ultime tre settimane facevo sogni in cui parlavo col Papa, scherzavo con lui, mangiavo pranzo con lui, parlavo di cose serie e facevo bella figura. Ma arrivato davanti a lui non sono riuscito a dire una parola. Certo che Giorgio (cioè sua eminenza il cardinal Marengo, Prefetto apostolico della Mongolia) mi ha presentato bene al Papa. E Francesco mi ha detto: “Ah tu vieni dalla Corea. Lì ci sono troppi preti. Mandateli in missione!” e così, ridendo, ho passato i miei 15 secondi di gloria senza dire una parola! A vederlo, il Papa, sembra proprio tanto invecchiato, ma quando mi ha parlato era tutto allegro e con tanta voglia di scherzare. E’ stato come incontrare un vecchio amico.
Chi ha parlato bene invece è Rufina, che ha conosciuto la fede quando era studentessa. Quando aveva 18 anni , una sera si trovò a parlare per ore con entusiasmo al papà di sua nonna materna, ottantenne, sulla vita di Gesù, partendo dalla nascita fino alla risurrezione. Questo episodio le fece capire che doveva comunicare la buona notizia anche ai suoi amici Mongoli. Così colse l’occasione di una iniziativa della Diocesi, andò a Roma a studiare catechesi, e adesso è operatrice pastorale della diocesi. Lavoro preziosissimo per portare il Vangelo più vicino al sentire della gente.
Saanja, il secondo prete mongolo ordinato, con la sua umiltà e semplicità, ha salutato il Papa a nome della chiesa mongola. Orfano di padre e aiutato dalle suore di Madre Teresa, ha poi conosciuto il padre Kim Stefano (sacerdote fidei donum coreano, morto a maggio di quest’anno e compianto da tutti), che lo ha battezzato e ispirato a diventare sacerdote.
Bella è sta a anche la cerimonia di intronizzazione della Madonna del Cielo. E’ una storia commovente. Tanti anni fa una signora trovò questa statua, avvolta nella carta, in una discarica di rifiuti. Si disse : “Chi sarà questa bella signora, forse ha voluto farsi trovare da me perché la portassi in casa mia.” La mise nella sua umile ger (tenda mongola). Il parroco venne a saperlo e in seguito portò la statua in chiesa. Poi passò in mano ai salesiani. Infine Giorgio (cioè il Cardinale ecc. ecc.), toccato da questa storia, ebbe l’ispirazione di portarla in cattedrale e proclamarla protettrice della chiesa mongola col titolo di “Madre del Cielo”. E quella signora, che è stata battezzata un anno fa, sabato ha incontrato personalmente il Santo Pontefice.
Non c’erano solo Mongoli a ricevere il Papa, ma anche piccoli gruppi di fedeli e missionari dei paesi vicini. Russi, Vietnamiti, Coreani, Khazaki, Cinesi, ecc.. I Cinesi appena potevano incontrare un prete erano emozionatissimi. Subito volevano la foto insieme e poi ognuno chiedeva di essere benedetto.
Nella Messa di Domenica, Francesco ha sottolineato che dobbiamo avere coscienza della sete profonda che c’è dentro di noi, che è come la sete del nomade in queste sconfinate praterie mongole. E l’unica acqua che può spegnere questa sete è l’acqua dell’amore che conosce chi ha incontrato Cristo!
Infine è arrivato lunedì, il Papa ha finito la sua visita, e anche i nostri missionari erano “finiti” e sono andati tutti a prendersi il meritato riposo, dopo notti con poche ore di sonno, corse di qua e di là per controllare che tutto funzionasse, e viaggi agli alberghi per seguire le varie delegazioni internazionali.
Ma tutti, fedeli e missionari siamo rimasti pieni di gioia e pace. E’ stato come se la Santa Madre Chiesa, nella persona di Papa Francesco, avesse preso in braccio e baciato il figlio più piccolo. E Francesco ci ha ricordato che la piccolezza può diventare una grande opportunità!
Omelia della Santa Messa nella “Steppe Arena” (3 settembre)
«O Dio, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63,2). Questa stupenda invocazione accompagna il viaggio della nostra vita, in mezzo ai deserti che siamo chiamati ad attraversare. E proprio in questa terra arida ci raggiunge una buona notizia: nel nostro cammino non siamo soli; le nostre aridità non hanno il potere di rendere sterile per sempre la nostra vita; il grido della nostra sete non rimane inascoltato. Dio Padre ha mandato il suo Figlio a donarci l’acqua viva dello Spirito Santo per dissetare la nostra anima (cfr Gv 4,10). Tanti di voi sono abituati alla bellezza e alla fatica del camminare, azione che richiama un aspetto essenziale della spiritualità biblica, rappresentato dalla figura di Abramo e, più in generale, proprio del popolo d’Israele e di ogni discepolo del Signore: tutti, tutti noi infatti, siamo “nomadi di Dio”, pellegrini alla ricerca della felicità, viandanti assetati d’amore. Il deserto evocato dal salmista si riferisce, dunque, alla nostra vita: siamo noi quella terra arida che ha sete di un’acqua limpida, di un’acqua che disseta in profondità; è il nostro cuore che desidera scoprire il segreto della vera gioia, quella che anche in mezzo alle aridità esistenziali, può accompagnarci e sostenerci. Sì, ci portiamo dentro una sete inestinguibile di felicità; siamo alla ricerca di un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività che portiamo avanti ogni giorno; e soprattutto siamo assetati di amore, perché è solo l’amore che ci appaga davvero, che ci fa stare bene, che ci apre alla fiducia facendoci gustare la bellezza della vita. Cari fratelli e sorelle, la fede cristiana risponde a questa sete; la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati: no! Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi.
Questo è il contenuto della fede cristiana: Dio, che è amore, nel suo Figlio Gesù si è fatto vicino a te, a me, a tutti noi, desidera condividere la tua vita, le tue fatiche, i tuoi sogni, la tua sete di felicità. È vero, a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità. Queste parole, carissimi, richiamano la vostra storia: nei deserti della vita e nella fatica di essere una comunità piccola, il Signore non vi fa mancare l’acqua della sua Parola, specialmente attraverso i predicatori e i missionari che, unti dallo Spirito Santo, ne seminano la bellezza. E la Parola sempre, sempre ci riporta all’essenziale, all’essenziale della fede: lasciarsi amare da Dio per fare della nostra vita un’offerta d’amore. Perché solo l’amore ci disseta veramente. Non dimentichiamo: solo l’amore disseta veramente.
Questa è la verità che Gesù ci invita a scoprire, che Gesù vuole svelare a voi tutti, a questa terra di Mongolia: non serve essere grandi, ricchi o potenti per essere felici: no! Solo l’amore ci disseta il cuore, solo l’amore guarisce le nostre ferite, solo l’amore ci dà la vera gioia. E questa è la via che Gesù ci ha insegnato e ha aperto per noi.
Anche noi, fratelli e sorelle, allora ascoltiamo la parola che il Signore dice a Pietro: «Va’ dietro a me» (Mt 16,23), vale a dire: diventa mio discepolo, fai la stessa strada che faccio io e non pensare più secondo il mondo. Allora, con la grazia di Cristo e dello Spirito Santo, potremo camminare sulla via dell’amore. Anche quando amare significa rinnegare sé stessi, lottare contro gli egoismi personali e mondani, correre il rischio di vivere la fraternità.
Incontro con le autorità, con la societa civile e con il corpo diplomatico (2 settembre)
Ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le parole che mi ha rivolto, e porgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Sono onorato di essere qui, felice di aver viaggiato verso questa terra affascinante e vasta, verso questo popolo che ben conosce il significato e il valore del cammino. Lo rivelano le sue dimore tradizionali, le ger, bellissime case itineranti. Immagino di entrare per la prima volta, con rispetto ed emozione, in una di queste tende circolari che punteggiano la maestosa terra mongola, per incontrarvi e conoscervi meglio. Eccomi dunque all’ingresso, pellegrino di amicizia, giunto a voi in punta di piedi e con il cuore lieto, desideroso di arricchirmi umanamente alla vostra presenza.
Ho saputo che dalla porta della ger, di prima mattina, i bambini delle vostre campagne stendono lo sguardo sul lontano orizzonte per contare i capi di allevamento e riferirne il numero ai genitori. Fa bene anche a noi abbracciare con lo sguardo l’ampio orizzonte che ci circonda, superando la ristrettezza di vedute anguste e aprendoci a una mentalità dal respiro globale, come invitano a fare le ger che, nate dall’esperienza del nomadismo delle steppe, si sono diffuse su un territorio vasto, divenendo elemento identificativo di diverse culture vicine. Gli spazi immensi delle vostre regioni, dal deserto del Gobi alla steppa, dalle grandi praterie alle foreste di conifere fino alle catene montuose degli Altai e dei Khangai, con le innumerevoli anse dei corsi d’acqua, che visti dall’alto sembrano decorazioni raffinate su antiche stoffe pregiate: tutto questo è uno specchio della grandezza e della bellezza dell’intero pianeta, chiamato a essere un giardino ospitale. La vostra sapienza, la sapienza del vostro popolo, sedimentata in generazioni di allevatori e coltivatori prudenti, sempre attenti a non rompere i delicati equilibri dell’ecosistema, ha molto da insegnare a chi oggi non vuole chiudersi nella ricerca di un miope interesse particolare, ma desidera consegnare ai posteri una terra ancora accogliente, una terra ancora feconda. Quello che per noi cristiani è il creato, cioè il frutto di un benevolo disegno di Dio, voi ci aiutate a riconoscere e a promuovere con delicatezza e attenzione, contrastando gli effetti della devastazione umana con una cultura della cura e della previdenza, che si riflette in politiche di ecologia responsabile. Le ger sono spazi abitativi che oggi si potrebbero definire smart e green, in quanto versatili, multi-funzionali e a impatto-zero sull’ambiente. Inoltre, la visione olistica della tradizione sciamanica mongola e il rispetto per ogni essere vivente desunto dalla filosofia buddista rappresentano un valido contributo all’impegno urgente e non più rimandabile per la tutela del pianeta Terra.
Le ger, presenti nelle zone rurali così come nei centri urbanizzati, testimoniano inoltre il prezioso connubio tra tradizione e modernità; esse infatti accomunano la vita di anziani e giovani, raccontando la continuità del popolo mongolo, che dall’antichità al presente ha saputo custodire le proprie radici, aprendosi, specialmente negli ultimi decenni, alle grandi sfide globali dello sviluppo e della democrazia.
Entrati in una ger tradizionale, lo sguardo è portato a elevarsi verso il punto centrale più alto, dove c’è una finestra sul cielo. Vorrei sottolineare questo atteggiamento fondamentale che la vostra tradizione ci aiuta a riscoprire: saper tenere gli occhi rivolti in alto. Alzare gli occhi al cielo – l’eterno cielo blu da voi sempre venerato – significa restare in un atteggiamento di docile apertura agli insegnamenti religiosi. C’è infatti una profonda connotazione spirituale tra le fibre della vostra identità culturale ed è bello che la Mongolia sia un simbolo di libertà religiosa. Nella contemplazione degli orizzonti sterminati e poco popolati da esseri umani, si è affinata infatti nel vostro popolo una propensione al dato spirituale, a cui si accede dando valore al silenzio e all’interiorità. Davanti al solenne imporsi della terra che vi circonda con i suoi innumerevoli fenomeni naturali, nasce anche un senso di stupore, il quale suggerisce umiltà e frugalità, scelta dell’essenziale e capacità di distacco da tutto ciò che non lo è.
Le religioni quando si rifanno al loro originale patrimonio spirituale e non sono corrotte da devianze settarie, sono a tutti gli effetti sostegni affidabili nella costruzione di società sane e prospere, dove i credenti si spendono affinché la convivenza civile e la progettualità politica siano sempre più al servizio del bene comune, rappresentando anche un argine al pericoloso tarlo della corruzione.
Di sguardo verso l’alto e di ampie vedute furono invece protagonisti molti dei vostri leader antichi, i quali dimostrarono una non comune capacità di integrare voci ed esperienze diverse, anche dal punto di vista religioso. Un atteggiamento rispettoso e conciliante era infatti riservato anche alle molteplici tradizioni sacre, come testimoniano i diversi luoghi di culto – tra cui uno cristiano – tutelati nell’antica capitale Kharakhorum. È stato dunque quasi naturale per voi arrivare alla libertà di pensiero e di religione, sancita dalla vostra attuale Costituzione; superata, senza spargimento di sangue, l’ideologia atea che credeva di dover estirpare il senso religioso, ritenendolo un freno allo sviluppo, vi riconoscete oggi in quel valore essenziale dell’armonia e della sinergia tra credenti di fedi diverse, che –ognuna dal proprio punto di vista– contribuiscono al progresso morale e spirituale.
In tal senso, la comunità cattolica mongola è lieta di continuare ad apportare il proprio contributo. Essa ha cominciato, poco più di trent’anni fa, a celebrare la sua fede proprio all’interno di una ger e pure la cattedrale attuale, che si trova in questa grande città, ne ricorda la forma. Sono segni del desiderio di condividere la propria opera, in spirito di servizio responsabile e fraterno, con il popolo mongolo, che è il suo popolo. Sono perciò contento che la comunità cattolica, per quanto piccola e discreta, partecipi con entusiasmo e con impegno al cammino di crescita del Paese, diffondendo la cultura della solidarietà, la cultura del rispetto per tutti e la cultura del dialogo interreligioso, e spendendosi per la giustizia, la pace e l’armonia sociale.
La Chiesa cattolica, istituzione antica e diffusa in quasi tutti i Paesi, è testimone di una tradizione spirituale, di una tradizione nobile e feconda, che ha contribuito allo sviluppo di intere nazioni in molti campi del vivere umano, dalla scienza alla letteratura, dall’arte alla politica. Sono certo che anche i cattolici mongoli sono e saranno pronti a dare il proprio apporto alla costruzione di una società prospera e sicura, in dialogo e collaborazione con tutte le componenti che abitano questa grande terra baciata dal cielo.
«Sii come il cielo». Con queste parole, un famoso poeta invitava a trascendere la caducità delle alterne vicende terrene, imitando la magnanimità ispirata proprio dall’immenso e terso cielo blu che si contempla in Mongolia. Anche noi, oggi, pellegrini e ospiti in questo Paese che tanto può offrire al mondo, desideriamo raccogliere tale invito, traducendolo in segni concreti di compassione, dialogo e progettualità comune. Possano le diverse componenti della società mongola, qui ben rappresentate, continuare a offrire al mondo la bellezza e la nobiltà di un popolo unico. Come la vostra scrittura, così possiate restare “in piedi” e sollevare tante sofferenze umane intorno a voi, ricordando a tutti la dignità di ogni essere umano, chiamato ad abitare la casa terrena abbracciando il cielo. Bayarlalaa! [grazie!].