"Come missionari poi, dovete essere non solo santi, ma santi in modo superlativo" (VS, 111)

“E’ questo il fine primario del nostro Istituto –diceva Lui ai suoi missionari–  Non siete qui venuti per…; ma per farvi santi; allora e solamente allora adempirete bene il secondo fine…” (Conf. IMC. III, 258).

“Prima santi e poi missionari”

Sono molte le affermazioni dell’Allamano che rivelano la sua ferma convinzione che solo chi è santo può essere un vero missionario. Questa convinzione fa parte della sua identità di Fondatore, dunque, anche del carisma dei missionari e missionarie della Consolata. 

Per l’Allamano c’è una graduatoria esplicita tra un “prima” e un “poi” logici: prima santi, poi missionari. Prima va sottolineato l’essere della persona, quindi il suo operare, prima si tratta di curare il nostro essere, la nostra relazione con Dio che ci chiama ad essere Santi, poi dobbiamo trasmettere questa relazione agli altri. Agli studenti, infatti egli diceva: “Primo: siamo per farci santi in questa Casa: non per farci Missionari, ma per farci santi e poi Missionari”, “Prima la santificazione nostra, poi la conversione degli infedeli; prima noi e poi gli altri. (...) Prima di tutto sei venuto per farti santo; non bisogna cambiare i termini.”. (VS 111-112)

Dobbiamo cercare prima e anzitutto la santità poiché questa è presupposto fondamentale per la missione. L’attività apostolica e missionaria, secondo l’Allamano, esige la santità di vita. “Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare, salvare anime: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà”. Per l’Allamano “è inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi” poiché “se non si è santi…non si fa niente”. “Voler far buoni gli altri senz'esserlo noi è volere l'impossibile.” (VS 113).

Se l’affermazione “prima santi e poi missionari” indica chiaramente che è la santità che gioca il ruolo fondamentale nel rinnovamento della missione, più che i metodi e i programmi pastorali, altrettanto importante è sottolineare come sia la missione a contribuire alla santità del missionario: si tratta, cioè, di diventare “santi nella missione ad gentes”.

Per tanto la santità dell’apostolo si costruisce, si alimenta “facendo missione”, nel costante dono di sé, nell’amore e nel servizio concreto per i fratelli ai quali egli è inviato, in comunione con il Signore che cammina, respira, guarisce e consola la gente attraverso di lui (cfr. EG 266). 

Santità “alla mano” 

Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a persone troppo speciali, con doti eccezionali, fuori dalla nostra portata, a coloro cioè che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova cercando di essere “straordinari nell’ordinario”, “facendo bene il bene e senza rumore”.

La Missione ce lo ha dimostrato! Sono tanti i missionari, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere, che hanno dato la vita, senza clamore, con umiltà, entusiasmo e dedizione, consumandosi a servizio dei poveri, visitando i villaggi, amministrando sacramenti, lasciando nella gente un ricordo indelebile di una santità diffusa, che si è fatta prossima, “alla mano”, perché un riflesso della presenza di Dio nella loro vita. (cfr. GeE 7).

Vita come cammino di santità

La santità è permettere allo Spirito di plasmare in te oggi quella parola e quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. 

La santità diventa quindi vivere in comunione con Cristo i misteri della sua vita. Pertanto, la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua (Fil.2,5). Così ciascuno di noi dovrebbe diventare un messaggio che lo Spirito trae dalla ricchezza di Cristo e dona alla gente.

Infatti “Ogni santo è una missione, è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo” (Gaudete et exultate 19.21.23).

“Fare bene il bene. E quali sono i modi per fare bene tutte le cose? S. G. Cafasso offre alcuni suggerimenti. Il primo è di fare ogni cosa come la farebbe il Signore. Conformiamoci a Gesù, facciamo tutto come farebbe Lui, in modo che sia Lui a vivere e operare in noi. Domandiamoci perciò: «Se Gesù fosse al mio posto, come farebbe? Penserebbe così? Parlerebbe così? Agirebbe così?». Vorrei proprio che ciascuno di voi fosse un’immagine vivente di nostro Signore. Tutti i santi cercarono di configurarsi al Signore.” (Così vi Voglio n.6)

“Siamo chiamati a riscoprire la bellezza della vocazione missionaria come un cammino di conversione per diventare “discepoli missionari” alla scuola di Gesù, centro della nostra vita e della nostra missione” (cfr. Linee guida della Direzione Generale, Messaggio Programmatico all’Istituto dopo il XIII CG, pag. 11).

La mediocrità spirituale è una tentazione particolarmente subdola, sottile, non facile da individuare. Si insinua nella nostra vita, cresce nell’aridità dello spirito e germoglia sul terreno di una vita di preghiera stanca e monotona. La possiamo esprimere con le parole di Gesù Risorto alla chiesa di Efeso: “Sei constante e hai molto sopportato per il mio nome senza stancarti. Ho, però, da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ravvediti!” (Ap. 2,3ss). Con altre parole il profeta Osea rimprovera il popolo di Israele: “Il vostro amore è come nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce” (6,4).

E’ il rischio di servire la causa del Regno con grande generosità e dedizione, ma lasciando annebbiare il rapporto personale con Gesù, senza accorgerci togliamo gli occhi da Lui, come sorgente e fine della missione, e così piano piano iniziamo ad affondare. Il primato non è più la persona di Cristo, il suo amore, ma il servizio a lui. E’ chiaro che i due aspetti sono inseparabili, ma la distinzione è fondamentale, perché solo l’amore di Cristo riempie la vita, rendendoci testimoni del suo amore. Il servizio, il lavoro, le attività che facciamo, nella misura in cui non sgorgano da una comunione di fede e di amore con Lui, diventano aride perdendo il profumo del Vangelo.

Spesso ci chiediamo perché la missione? È una domanda giusta ma interrogarsi troppo sul perché della missione può significare che non è più evidente l’esperienza dell’incontro con Cristo, che sta alla radice di ogni tensione missionaria. Quando si affievolisce la tensione, si amplificano le tensioni. 

Il papa Francesco lo sottolinea con molta forza: “Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo ‘discepoli’ e ‘missionari’, ma che siamo sempre ‘discepoli-missionari’. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41)” (EG 120). 

Dobbiamo recuperare l’innamoramento a Gesù Cristo, come l’investimento totale della nostra vita, perché il Signore non può essere ridotto ad una frangia, un’appendice al panneggio della nostra esistenza. L’amore per Cristo se non ha il marchio della totalità, è ambiguo. Il part-time, il servizio a ore con Cristo non è ammissibile.

Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, metterlo al centro della nostra vita.

Discepoli come nei vangeli

Nei sinottici, la conversione al Regno s’incarna nella radicalità di un lasciare tutto (lavoro, beni, relazioni originarie, famiglia) per seguire Gesù (cfr. Mc 1,16-20; 2,13-14), per stare con lui nell’itineranza missionaria (cfr. Mc 3, 13-19), per causa sua e per causa del Vangelo (cfr. Mc 10,28-30). Questo tipo di sequela qualifica in maniera eminente il gruppo dei Dodici (cfr. Mc 3, 14) ed il Risorto afferma che soltanto ritornando alle sorgenti dell’incontro con lui e della chiamata che ha fatto di noi dei discepoli-missionari potremmo sperimentare la potenza della sua resurrezione nella nostra vita: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,7). La Galilea di una quotidianità in cui ci siamo sentiti guardati, amati e chiamati dalla sua Parola, dalla sua presenza, dal suo passaggio (Pasqua!) nel cuore della nostra vita così com’era, così com’è. 

Il Quarto Vangelo usa un linguaggio diverso. Non basta “convertirsi”: è necessario nascere dall’alto, rinascere (cfr. Gv 3). Non è più sufficiente un “andare dietro”: occorre un’intimità maggiore, una radicalità diversa. Bisogna rimanere in, “vivere dentro” (cfr. Gv 15;17). La novità della sequela è una vita nuova, l’inabitazione trinitaria: “noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23)! Paolo direbbe: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20; cfr. Fil 1, 21)! 

Il coraggio di cambiare

Stiamo vivendo questo cammino quaresimale nel quale la liturgia ci invita a cammini di conversione. Ma se abbiamo già vissuto e sperimentato la Quaresima negli anni precedenti, è necessario convertirsi e pentirsi di nuovo?

Secondo il Vangelo di Marco, Giovanni Battista predicò un battesimo di pentimento (metanoia) per il perdono dei peccati. Etimologicamente questo termine significa cambio di giudizio di modo in intendere (Meta: oltre, Nous: intelletto, mente). Nel contesto biblico, ci si aspetta che questo cambiamento di mente porti a un cambiamento generale nella condotta e nel comportamento della persona. La Quaresima è allora un tempo offerto da Dio per mezzo della Chiesa che ci permette, se ci accorgiamo di aver smarrito la strada, tornare sui nostri passi per riprendere il cammino che porta all’incontro del Padre. Quindi la metanoia è un atteggiamento permanente di chi è alla costante ricerca di Dio e della sua volontà.

Per il nostro Istituto, questo tempo che stiamo vivendo prima del XIV Capitolo generale è una meravigliosa opportunità per vivere un'esperienza di metanoia. Siamo invitati ad "ascoltare con attenzione ciò che lo Spirito dice al nostro Istituto per riscoprire la bellezza e l'entusiasmo della missione ad gentes"; la nostra ultima Conferenza Regionale ci chiama ad "avere il coraggio di cambiare"; siamo consapevoli che la società sta cambiando, che il modo di percepire e di agire nella missione sta cambiando, che il nostro Istituto sta cambiando, e dobbiamo saper dare risposte tempestive e pertinenti a questi cambiamenti secondo il nostro carisma e l'eredità del Beato Allamano. 

Il Vangelo è la ragione di questo cambiamento di intenti e di opinioni: su ciò che pensiamo di Dio e su come ci avviciniamo a quel Mistero, sulla legge, sulla giustizia e sul perdono, sul modo in cui intendiamo e agiamo la missione... la predicazione principale di Gesù e dei discepoli non era solo "chiedete scusa per i vostri peccati" ma era "pensate in modo nuovo" alle vostre relazioni con Dio e con i fratelli e sorelle. 

Anche l’Istituto, nel XIV Capitolo generale, ci invita a guardare al futuro con grande speranza e a sognare che questa metanoia generi cose buone per ciascuno di noi e per tutta la comunità.

Vogliamo sognare missionari impegnati nella vocazione ad gentes che abbiamo ricevuto, senza paura di accettare le sfide di oggi e con il coraggio di andare oltre le frontiere geografiche ed esistenziali.

Ci porta a credere che saremo missionari convinti della nostra spiritualità della Consolazione, cioè capaci di amare e servire tutti senza distinzione di razza o condizione; missionari sensibili al dolore e con un cuore misericordioso per i più lontani e impoveriti della società.

Missionari che percorrono il cammino di santità che il beato Allamano ha voluto per ciascuno di noi.

Missionari pronti a costruire insieme, consapevoli che la via della Chiesa è quella sinodale e che i cambiamenti e le trasformazioni non dipendono da pochi, ma dallo sforzo e dall'impegno di tutti.

Missionari solidali fra di loro; con sufficiente tolleranza per comprendere chi sbaglia e accettare chi la pensa diversamente; capaci di condividere la "propria" economia con chi si trova in situazioni più avverse, generando così condizioni di maggiore fraternità tra noi.

Anche questa quaresima è tempo di misericordia per il nostro Istituto, come ci ricordava la stessa liturgia il giorno del Mercoledì della ceneri: "Ascoltate! Metanoia (convertitevi) e credete al Vangelo".

* Juan Pablo de los Rios è Superiore Provinciale della Colombia.

Noi del gruppo di rinnovamento G25, siamo grati al Signore e a chi ha reso possibile questa opportunità unica di formazione.

Nella nostra VITA PERSONALE ci impegniamo:

1. a essere pazienti, umili, misericordiosi e comprensivi;

2. a essere più attivi, coinvolgenti ed amorevoli, accogliendo il dono e la ricchezza delle altre persone, per essere felici di rendere felici gli altri;

3. a conoscere ancora di più noi stessi, disposti a comprendere i cambiamenti per trasformarli in opportunità di crescita, e ad accettare le nostre fragilità e difetti per essere così sempre pronti a intraprendere nuovi cammini.

Nel nostro IMPEGNO MISSIONARIO vogliamo:

1. seguire Cristo, costi quel che costi, mettendo la Parola di Dio al centro della nostra vita;

2. essere vigili nella vita missionaria avendo a cuore e valorizzando la vita fraterna nella comunità, in particolare impegnandoci a valorizzare e sostenere i confratelli più giovani con i quali lavoreremo.

3. essere dinamici nella nostra vocazione e spiritualità, membri attivi della nostra famiglia Consolata e autentici missionari secondo la volontà del beato Giuseppe Allamano, nostro Fondatore.

4. mostrare a chiunque ci incontri il bel volto e l'identità della nostra Congregazione

20230307G25B

Affidiamo questo nostro impegno alla nostra amorevole Madre Maria Consolata e chiediamo ai Beati Giuseppe Allamano e Carlo Acutis, protettore annuale, di aiutarci a realizzarlo nel cammino della Missione.

Roma 27 febbraio 2023

* Il gruppo G25 sono i Missionari della Consolata che hanno partecipato al corso di rinnovamento tenuto a Roma nel mese di Febbraio 2023

«…Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo…» (2Cor 4, 8-10).

“Se volete davvero farvi santi, l’Istituto ve ne dà i mezzi. Anche i limiti vostri e degli altri possono aiutarvi a conseguire il fine. Come afferma S. Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28). E voi siete precisamente di questi chiamati alla santità e a una santità singolare. Fate dunque che tutto, compresi i difetti vostri e altrui, cooperi al vostro bene.” (Così vi voglio, n. 2 p.38)

Di fronte ad un lutto che ci si abbatte addosso improvviso, ad una malattia grave, a una delusione in comunità spesso abbiamo il senso di essere travolti, spezzati, annientati dalle circostanze dolorose che la vita ci chiama a vivere e siamo come bloccati, in un’atmosfera di sospensione, dove nulla di ciò che ci è noto può farci da ancoraggio. Ci arrabbiamo, ci lamentiamo, cerchiamo in qualsiasi modo qualcosa o qualcuno che ci dia sollievo: esperienze che sembrano arrecarci sollievo, ma che in realtà ci stanno alienando da noi stessi e dalla nostra scelta vita.

Tutte esperienze queste che a volte ci immettono in una spirale regressiva tale da provocare, nei casi più seri, l’estremizzarsi della passività o dell’agitazione, o la scissione e il collasso. Il controllo e la gestione di noi stessi sono fuori di noi, affidati ad altro/i, mettendo in discussione anche ciò che è stato fondamentale nel guidare la nostra vita, compresa la relazione fondante con il Signore. 

Alla passività della rassegnazione, c’è un’altra possibilità: la resilienza. Dal latino resilire “rimbalzare”, adatto a definire quella proprietà di alcuni materiali, come i metalli, di assorbire un urto senza rompersi, riprendendo la forma originaria. La resilienza è l’attitudine a perseguire gli obiettivi, nonostante le sconfitte e gli inevitabili imprevisti che la vita riserva; è quella forza interiore che ci fa rialzare sempre, consapevoli che il traguardo è lì ad aspettarci; è a capacità di ristrutturare i fallimenti e vederli come esperienze di crescita; è vincere la paura del domani. Resiliente è chi ama la vita, chi affronta avversità, dolori o sventure senza fuggirli, ma anche senza auto-commiserarsi o disperarsi; è chi ha il coraggio di intraprendere una via anche se impervia e tortuosa, perché sa che è la scelta giusta per raggiungere i propri sogni. La resilienza non è una caratteristica di pochi, ma un potenziale di ogni essere umano e una caratteristica che può essere allenata e incrementata. La resilienza non è una condizione ma un processo: la si costruisce lottando.

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La resilienza vede nella fragilità il punto di partenza della via per la risalita. Inizia da lì, solo nell’accettazione dei propri limiti, si possono scoprire le risorse del nostro essere, solo affrontando la sofferenza, che possiamo imparare a conoscerla e di conseguenza dedicarci alla cura dell’Uomo che siamo noi, della nostra mente e del nostro corpo. Resilienti si diventa, ciò è possibile solo in una relazione significativa da cui nessuno è escluso, a priori, perché la resilienza non è una caratteristica dell’essere, non un esito, ma un processo, un atto di apprendimento, al quale possono contribuire e devono contribuire tutti.

La resilienza non va intesa tanto come qualcosa di immutabile, quanto come un processo di cambiamento: non si tratta di resistere a un evento negativo senza cadere, quanto piuttosto di cadere e poi rialzarsi, rigenerandosi. È molto di più. È il risultato dell’incontro tra la naturale capacità di rimettersi in gioco e contesti amicali e sociali che sostengano il rialzarsi e la ripresa. Perché da un tunnel quasi mai si esce da soli!

Il trucco è trasformare le avversità in opportunità, vedere il fallimento come occasione di apprendimento e tirare fuori il meglio da ogni situazione, consci che anche la qualità delle relazioni affettive e delle reti sociali hanno influenza positiva o negativa sulla capacità di adattamento alle situazioni avverse. Non ci sono destini già disegnati, situazioni personali che non possono cambiare, dipendenze che non possano essere vinte, ma solo vicende di persone che hanno trovato nuove strade di costruzione di sé.

Naturale compimento della resilienza è la speranza che scaturisce dal piacere di esistere anche quando nel presente manca il benessere, anche quando la vita fa sperimentare dolore malattie, perdite. La speranza presuppone fiducia nelle proprie e altrui risorse, si ciba di perseveranza e influisce positivamente sulla capacità di creare il proprio futuro. (1 Pt 3,15)

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