In Messico siamo giunti 15 anni fa con un progetto che era nato come una apertura voluta dal continente America e con una prima presenza di missionari tutti provenienti dalle regioni dell’America Latina. 

Eppure in questi anni anche la nostra presenza ha subito quella trasformazione in molti modi legata alla realtà di questo paese che, malgrado culturalmente sia molto più unito alla metà meridionale del continente, di fatto, per circostanze storiche e sociali, volge lo sguardo quasi esclusivamente verso il nord, verso La Frontiera, quella con le maiuscole. 

La frontiera del nord

Quasi impossibile da attraversare legalmente –lo è solo per pochi privilegiati– ci sono infiniti modi di farlo illegalmente e tanti messicani l’hanno fatto, tanti sognano di farlo, tanti lo faranno prossimamente assieme a una fiumana sempre più abbondante di umanità,  proveniente da tutte le parti del mondo, anche le più lontane, e tutti attratti dall’“American Dream”. 

Noi non viviamo a ridosso della frontiera eppure, anche fra le famiglie delle nostre parrocchie, tremila chilometri più a sud, non c’è quasi nessuno che non possa annoverare fra le parentele alcun “dreamer”.

Quando sono sbarcato in Messico circa quattro anni fa, io che il cuore l’avevo in Africa e quella era la mia prima esperienza americana, avevo tante domande che mi inquietavano e una era precisamente questa: “che ci facciamo noi con la Regione Nord America, con quelli lì che parlano quasi tutti inglese”. Oggi la risposta l’ho chiara ed è legata a questo che vi ho appena detto... il Messico, un territorio che è anche casa comune di culture numerose, significative, meticce... sembra avere il baricentro terribilmente spostato a nord e quasi tutto, non solo le persone, forse anche le idee, sembrano scivolare in quella direzione. La mobilità umana forse è la sfida missionaria che ci interpella oggi in questa enorme nazione e le sue rotte si incrociano anche con la nostra esigua geografia. Questo succede concretamente in Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, molto vicino alla frontiera sud, ma una delle prime città Messicane che i migranti toccano dopo aver attraversato non poche frontiere per arrivare fin qui.

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Le nostre presenze

In questo momento le nostre presenze sono due: una nello stato di Jalisco, a una quarantina di chilometri dalla capitale, Guadalajara, in un piccolo paese chiamato San Antonio Juanacaxtle e l’altra, ben duemila chilometri più a sud, nello stato di Chiapas, questa volta nella capitale Tuxtla Gutiérrez. 

A San Antonio ci occupiamo della pastorale di due settori che si sono popolati non tantissimi anni addietro: “Villas Andalucía” composta da circa novemila famiglie, e “El Faro” con mille famiglie. La popolazione è molto giovane e lo dice il numero dei ragazzi che frequentano la catechesi parrocchiale, tutti gli anni almeno 700. Le nostre strutture in questi due settori sono povere come povere le famiglie che hanno urbanizzato questi terreni negli ultimi 10 anni. La cappella è piccolina e il parco serve come spazio settimanale di catechesi ma in realtà la sfida maggiore non è legata all'essenzialità delle strutture parrocchiali ma alla fragilità e poca definizione dell’identità di questa comunità ancora troppo recente per considerarsi consolidata e matura. 

I problemi sono tantissimi: la droga e i cartelli del Narcotraffico, qui quello di “Jalisco Nueva Generación”, sempre in lotta con quello di Sinaloa per controllare territori e traffici. Oggi si preferisce chiamarlo “crimine organizzato” perché il traffico di stupefacenti è solo una parte della loro economia criminale: ci sono anche le armi e c’è, sempre più forte, il traffico di persone.

A Tuxtla Gutiérrez invece ci troviamo in una parrocchia urbana e in uno stato religiosamente molto tradizionalista e ben strutturato. Nelle parrocchie funzionano perfettamente le tre pastorali tradizionali: la liturgica, tipicamente la più significativa, legata alle multiple celebrazioni e tradizioni; la profetica –così è come si chiama la catechesi e l’educazione nella fede– e la pastorale sociale, attenta alle antiche e nuove povertà che interpellano l’identità cristiana dei nostri fedeli.

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La consolazione dell’ascolto e la missione

Come missionari abbiamo sempre scelto di stare accanto alle persone così come le abbiamo conosciute e così come le troviamo. Le famiglie vivono unite ma spesso solcate da ferite nascoste che sanguinano e fanno soffrire, legate a violenza, povertà, soprusi e un atavico maschilismo. Alcuni dei nostri missionari hanno fatto la scelta di formarsi come psicologi per dare qualità all’ascolto delle persone, una forma concreta di consolazione che ci è stata chiesta quasi fin da subito.

Poi c’è la chiesa, quando venimmo in Messico uno dei motivi era anche quello vocazionale e di fatto alcune diocesi hanno una gran abbondanza di clero... eppure –paradossalmente direi in questo paese con tanti migranti– la missione non c’è, non si sente, non si vuole, si fa fatica pensare di poter portare oltre confine il proprio impegno credente, in paesi lontani, in culture nuove, senza la consolazione della famiglia riunita così ben rappresentata, nelle sue radici profonde, dagli altari del giorno dei morti. Quella è una sfida che non abbiamo ancora finito di raccogliere anche se possiamo già annoverare due missionari di origine messicano, uno in Italia –tra l’altro il primo missionario di origine indigena del continente americano– e l’altro in Kenya. Per il prossimo futuro il discernimento ci porta a guardare alla fiumana anonima che ci raggiunge e prosegue nel suo lento, spesso pericoloso ma irrinunciabile pellegrinaggio verso la Frontiera, quella con la “F” maiuscola. 

Il 9 agosto 2022, giorno in cui ho festeggiato un quarto di secolo di servizio sacerdotale e missionario, ho ricevuto una lettera piena di gratitudine da parte del Superiore Generale, nostro fratello maggiore. Il mio cuore si è riempito di gioia e ho fatto un viaggio emotivo nella mia vita, scoprendo quanto sia stata bella questa vocazione che ho abbracciato ormai tanti anni fa. Non sono solo un sacerdote, sono un sacerdote missionario della Consolata, chiamato a esercitare questa vocazione in un modo molto particolare, donando frammenti di consolazione nel mondo. Permettetemi di condividere con voi alcune delle gioie che il Signore mi ha fatto sperimentare in questi anni.

Il mio ministero è in qualche modo nato sotto la speciale protezione di due Sante entrambe di nome Teresa. Sono stato ordinato il 9 agosto 1997, festa di Santa Teresa Benedetta della Croce che in quell’anno era beata e sarebbe stata canonizzata l’anno successivo. Due mesi dopo ero a Roma e il 19 ottobre 1997 ho partecipato alla messa nella quale il papa Govanni Paolo II ha dichiarato dottore della chiesa Santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni. Quella sera stessa ho preso il volo Alitalia con destino Caracas (Venezuela) dove ho vissuto tutti i successivi anni di missione.

Il mio ministero è stato influenzato in modo significativo da Santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein come si chiamava prima della conversione e la sua entrata nella vita religiosa; la sua esperienza e il suo insegnamento sull'empatia hanno dato un tocco molto particolare al mio incontro con Dio e con gli esseri umani. "Da colui che tiene la mano di Dio sgorgano torrenti di acqua vivificante, e allo stesso tempo sviluppa una misteriosa attrazione. Senza volerlo, deve diventare una guida per gli altri e generare e conquistare figli e figlie per il Regno di Dio". Così diceva Edith Stein, dopo la sua conversione al cristianesimo. Io ho scoperto i suoi scritti tre anni dopo la mia ordinazione, e ho scoperto che la sua vita era una fonte di acqua vivificante per molti. Da lì ho deciso che anche la mia vita sarebbe stata una fonte di vita per le persone che avrei incontrato. La mia unione con Dio mi ha reso una fonte di consolazione per molti e mi ha fatto sentire la consolazione di Dio attraverso la relazione fraterna con gli altri. Il tema dell'intersoggettività è diventato una pratica di vicinanza nella mia vita. Essere missionario della Consolata, appartenere a questa famiglia interculturale è una delle migliori esperienze di empatia e intersoggettività che ho vissuto e ringrazio Dio per questa vocazione che ho sperimentato all'interno della Famiglia della Consolata.

Santa Benedetta, senza essere andata in missione, ha scoperto che: "Per i cristiani non ci sono estranei. Il nostro prossimo è chiunque sia alla nostra portata e abbia bisogno di noi". Che bello essere missionario della Consolata e scoprire nelle missioni che nessuno è straniero e che siamo tutti uguali! Che gioia incontrare tanti fratelli e sorelle di colori e culture diverse, ed esserlo con tante persone in missione! Gli indigeni Warao, in un modo molto speciale, mi hanno insegnato che essere missionario, che per loro è come essere fratello, figlio, amico e padre è un modo molto concreto di costruire il Regno di Dio. La parola più usata nelle relazioni Warao è “maraisa” che significa letteralmente “l'altro me stesso”. Il Regno di Dio si costruisce forgiando sentimenti di intersoggettività; consolare è costruire comunità in cui tutti si sentano fratelli e sorelle. Quant’è bella e quanto difficile questa missione; la nostra missione è molto particolare all'interno della Chiesa!

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Poi Dio mi ha messo nel mio cuore un amore molto speciale per gli indigeni. In questi 25 anni di servizio missionario ho scoperto che all'interno della vocazione della Consolata c’è un'altra vocazione particolare: quella di essere apostolo e fratello degli indigeni. Quando vivi con un popolo e questo ti adotta, le sue gioie e le sue sofferenze diventano la tua stessa esperienza.

Quanto ammiro i grandi missionari che hanno speso la loro vita per gli indigeni: Bruno del Piero, Gaetano Mazzoleni, Giuseppe Frizzi, Carlo Zaquini, Ezio Roattino, Antonio Bonanomi, e la lista continua! È stato un privilegio seguire le orme di questi uomini illustri, costruttori del Regno di Dio tra gli indigeni.

Questi 25 anni sono passati troppo in fretta, ma sento ancora la stessa gioia che si è impossessata di me il giorno della mia ordinazione e il giorno in cui sono partito per il Venezuela. Ringrazio Dio per questa bella esperienza che mi ha permesso di essere suo collaboratore nella costruzione del Regno. Ringrazio la mia famiglia per tutto il sostegno che mi ha dato nel mio servizio sacerdotale-missionario. Ringrazio la mia parrocchia, Aluor, e il mio gruppo giovanile "Fish Grupo", per aver alimentato la mia vocazione. Ringrazio il Venezuela, il Paese in cui ho vissuto la maggior parte della mia vita e, in modo molto particolare, i Warao per avermi insegnato a costruire il Regno di Dio partendo dalla semplicità. Alla mia famiglia di 30 anni, la Consolata, un grazie speciale, a tutti i missionari con cui ho condiviso vita e missione. Conto sulle vostre preghiere e benedizioni.

 

Sono Efrenny Estefanía Chirinos, Missionaria Laica della Consolata. Ho sentito il mio cuore ardere, da quando ho preso coscienza di essere una figlia prediletta di Dio che mi ama, mi chiama e mi manda. È stato un tempo di grazia quello che mi ha permesso di scoprire me stessa parlando, leggendo ma soprattutto incontrando la persona di Gesù; è Lui che mi ha messa in cammino come missionaria. 

Sono arrivata alla terra del popolo Warao poco più di un anno fa con il cuore in fiamme e i piedi sulla strada. Dopo l'incontro con Gesù, vivo questa esperienza tra i miei fratelli e sorelle Warao, nel Delta Amacuro, in particolare a Tucupita (Venezuela). Tra di loro ho scoperto che non è tanto quello che posso dare, ma che è molto di più quello che ricevo: la vicinanza, il contatto, l'innocenza, il sorriso, la gioia dei più piccoli –i primi del Signore che hanno sempre un gesto di generosità e di vicinanza condividendo perfino quello che non hanno–.

Ho sentito e sento la mano di Dio in tutto l'amore che vedo: nella ricchezza culturale dei popoli indigeni; nella bellezza di questa parte dell'Amazzonia con i suoi fiumi e i suoi tramonti. Da loro imparo come essere felici con poco perché per loro poco spesso è più sufficiente. 

Come missionaria per grazia di Dio, godo del dono di sentirmi inviata in questi luoghi dove magari pochi vogliono venire. Mi rallegra l’accompagnamento quotidiano di giovani, l’energia e la dedizione delle donne e delle madri. Ho capito che la chiamata per noi battezzati è permanente e l'esperienza di questo sogno missionario, che è diventato realtà, sarà in me tutti i giorni della mia vita. Voglio vivere le parole del nostro fondatore Giuseppe Allamano che diceva: "Siate missionari nella testa, sulle labbra e nel cuore". 

Continuo a sognare e a sforzarmi di essere una cristiana che, attraverso la Grazia dello Spirito Santo, vero protagonista della missione, possa sentirsi sempre di più innamorata di Gesù Misericordioso: il suo amore e il suo perdono –di cui faccio esperienza giorno dopo giorno– mi invitano ad essere fedele a questo mandato. 

Anche se no mancano le umane paure, il cuore batte di emozione e di gioia, lo sento ardere mosso dalla fiducia in un cammino che condivido con altre persone e con una comunità. Questo è un sogno; i sogni ci spingono e ci fanno camminare; i sogni ci rendono consapevoli che è necessario rispondere con un "sì" convinto alla chiamata missionaria che ci invita a portare ovunque l'amore e la consolazione ricevuti da Gesù stesso, cercando di adempiere al mandato di andare e fare discepoli fra tutti i popoli (cf. Matteo 28,19-20).

Incoraggio coloro che hanno nel cuore questo desiderio e questo ardore missionario a compiere questo passo. Gesù ci aspetta sulla sua barca, non abbiate paura, è il Signore che guida i nostri passi! Con il cuore grato per coloro che mi sostengono con le loro preghiere, voglio ricordare queste parole di Marta Arrias: "Se ti sei appassionata per Lui e hai promesso che lo avresti seguito sappi che la tua vita non sarà mai più la stessa. Fate le valigie per il futuro, mettete la vostra vita sulle spalle, il vostro sogno sotto il braccio e partite".

*Efrenny Estefanía Chirinos è una laica Missionaria della Consolata.

 

Al suono dei tamburi è iniziata la bella celebrazione eucaristica per il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale del nostro caro padre Chrispine Oduor. La celebrazione si è svolta nella parrocchia di Nostra Signora dell'Incarnazione, situata a Caucagua, nello Stato di Miranda (Venezuela), con una massiccia partecipazione dei villaggi di Tapipa, Panaquire e El Clavo, dove si trovano le tre parrocchie, e delle frazioni circostanti assistite pastoralmente dai Missionari della Consolata.

La colorata scenografia della chiesa, i costumi degli organizzatori, del coro, dei bambini e dei parrocchiani in generale, hanno dato un tocco speciale in cui si poteva apprezzare e percepire in ogni dettaglio l'unione dei continenti Africa e America in un unico sentimento: l'immensa gratitudine a Dio per il dono della vocazione sacerdotale e l'apprezzato per il lavoro di Padre Chrispine.

La celebrazione è stata presieduta dallo stesso festeggiato ed è stata accompagnata da tutti i missionari della Consolata presenti in Venezuela: loro si trovavano riuniti in Assemblea ed era più che opportuno chiudere l’importante evento comunitario con questa celebrazione nella quale si ricordava il meraviglioso dono del sacerdozio.

L'omelia è stata tenuta dal Vice Superiore, P. Rodrick Minja, che ha fatto un resoconto storico della vita di P. Chrispine, della sua infanzia, della sua famiglia, dei suoi studi, della sua chiamata e del suo servizio missionario in diversi luoghi.

Tra i tanti dettagli in suo onore –oltre alle danze e la festa dei bambini, le parole e le preghiere delle autorità presenti– è stato emozionante ascoltare e vedere i saluti di sua madre e dei suoi fratelli giunti per mezzo di una registrazione video. 

Dopo l’eucaristia ci siamo trovati per un delizioso pranzo presso il collegio “La Encarnación”, e abbiamo anche avuto la fortuna di essere accompagnati da Monsignor Tulio Ramírez, Vescovo di Guarenas. Poi è stato il momento degli eventi e delle espressioni culturali della comunità afro di questa città di Barlovento. Chrispine e a tutti i Missionari della Consolata, che con la loro testimonianza di vita sono diventati anche loro “barloventeños” (cittadini di questo paese), si sono visti attorniati dal calore e dall’affetto di tutti coloro che in questo modo hanno voluto ringraziare per l’esperienza di vita e di fede che i missionari, per mezzo della consolazione, condividono con questo popolo.

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Dopo qualche giorno dedicato alla spiritualità, la seconda parte dell'incontro dei Missionari della Consolata che lavorano in Asia è stata caratterizzata dalla Conferenza Regionale che si è svolta dal 15 al 18 ottobre 2023. In particolare il martedì 17 ottobre si è eletto il nuovo Superiore Regionale: P. Clement Kinyua Gachoka. Lui svolgerà il suo servizio insieme con coloro che già facevano parte del consiglio: P. Kyoung Ho (Pietro) Han, come Vice Superiore Regionale, e P. Dieudonné Mukadi come Consigliere. La conferenza si è conclusa la sera di mercoledì 18 ottobre con un intervento della Direzione Generale che ha sottolineato l'importanza del promuovere lo spirito di fraternità e l'impegno a favore della missione. In particolare p. James Lengarin, Superiore Generale, ha sottolineato l'unicità della regione asiatica e la necessità di una riflessione personale e comunitaria sulla nostra identità e missione ad gentes. 

Dopo la conferenza alcuni missionari sono ritornati nelle loro comunità e luoghi di lavoro ma il gruppo dei più giovani, con meno di dieci anni di ordinazione, si sono recati al Seminario Maggiore Cattolico di Taipei, dove hanno iniziato un incontro di formazione permanente di tre giorni. Si trattava di condividere le sfide che la missione dell'Asia offriva loro e pensare anche a possibili risposte, strategie e soluzioni.

In un primo momento abbiamo ascoltato le nuove esperienze di p. Matthews Odhiambo IMC, di p. Raphael dell'arcidiocesi di Taipei e di Augustine, un laico cristiano convertito dal buddismo. 

Sabato 21 ottobre è stata l'occasione di una gita di carattere culturale nella città di Taipei: abbiamo visitato il Tempio di Confucio; il Chiang Kai-shek Memorial Hall (costruito in onore di Kai Shek, lider nazionalista cinese e artefice dell'attuale -e conflittiva- "indipendenza" di Taiwan) e anche l'iconico edificio Taipei 101, il più alto di Taiwan e uno dei più alti al mondo.

Domenica 22 ottobre, giornata missionaria mondiale, abbiamo partecipato alla Messa con gli immigrati filippini a Zhongli, nella diocesi di Hsinchu. Con loro abbiamo celebrato questa domenica con respiro universale e il padre Kenneth Oriando nell'omelia ha detto: "Grazie al Battesimo, tutti siamo missionari; anche voi migranti dalle Filippine, dovete usare il dono della fede che avete ricevuto dallo Spirito Santo per testimoniare Cristo a Taiwan. Oggi, voi e noi sacerdoti siamo missionari a Taiwan". Il gruppo ha poi condiviso il pranzo con gli immigrati e sono ripartiti per la Corea e la Mongolia i missionari che lavorano là.

È stato un momento meraviglioso per pregare, pianificare, condividere, scherzare e sognare insieme come fratelli. Il salmista dice meglio: "Quanto è bello e piacevole quando i fratelli vivono insieme nell'unità!" (Salmo 133). Grazie a tutti.

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