“Nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona. Alcune cose si possono imparare solo facendone esperienza. Non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti. La forte attrattiva di Gesù su chi lo incontrava dipendeva dalla verità della sua predicazione, ma l’efficacia di ciò che diceva era inscindibile dal suo sguardo, dai suoi atteggiamenti e persino dai suoi silenzi. Infatti, in Lui – il Logos incarnato – la Parola si è fatta Volto, il Dio invisibile si è lasciato vedere, sentire e toccare, come scrive lo stesso Giovanni (cfr. 1 Cv 1,1-3). La parola è efficace solo se si “vede”, solo se ti coinvolge in un’esperienza, in un dialogo. Per questo motivo il “vieni e vedi” era ed è essenziale” (Papa Francesco, Messaggio per la 55.ma Giornata Mondiale della Comunicazione, 2021).
Vivere è comunicare. "La vita di tutti è un matrimonio con le parole; camminiamo con loro dalla mattina alla sera; ci accompagnano come il nostro respiro; sono nostro respiro. Noi siamo le nostre parole" (G. Colombero, Dalle parole al dialogo).
La comunicazione è un bisogno vitale per l’uomo, ma spesso è anche una sofferenza, le parole possono creare disagio, incomprensioni e malintesi, soprattutto in contesti di comunità religiose multiculturali.
Le difficoltà del parlare e in genere del comunicare consistono, tra l’altro, nel fatto che quando comunichiamo noi non diciamo o non comunichiamo solo qualcosa, ma “ci diciamo”, “ci riveliamo”, dunque ci “sveliamo” e perciò dobbiamo sentire di avere un contesto in cui ci sappiamo accolti, di cui abbiamo fiducia, per poterci dire ed esprimere.
La responsabilità del parlare è la responsabilità stessa che abbiamo verso gli altri e verso la costruzione comune che con essi intendiamo attuare. È la responsabilità della comunità. Ha scritto Emmanuel Lévinas: “Il linguaggio è universale perché è il passaggio dall’individuale al generale, perché offre le cose mie ad altri. Parlare significa rendere il mondo comune, creare dei luoghi comuni”.
Se vogliamo creare una comunicazione autentica con una persona, se vogliamo davvero ascoltarla, non possiamo non farci accompagnare dalle nostre emozioni. E si comunica con le parole, ma anche con il corpo vivente, con lo sguardo e con il silenzio.
Se comunicare è indispensabile, allora occorre imparare a comunicare: un processo lento, non semplice, continuamente da riprendere e da verificare nei comportamenti quotidiani, evitando di cadere nella illusione - naturale e quasi ovvia - di pensarsi buoni comunicatori. Qualsiasi tipo di comunità sta in piedi se i suoi membri si accorgono che accanto a loro vi sono altre persone con le quali si entra necessariamente in contatto. Comunicare non è una tecnica ma un’arte che esige umiltà.
La vera comunicazione prevede la condivisione di ciò che si è, e L’ASCOLTO PROFONDO di ciò che l’altro è.
Ascoltare significa innanzitutto accettare in profondità di sacrificare ciò che ci pare sempre più prezioso: il tempo: per fermarsi, per incontrare, per rispettare i tempi dell’altro e accoglierlo nella vita.
Ascoltare significa, essere attenti, accogliere le parole di chi ci sta di fronte ma anche tentare di ascoltare il suo "non detto", ciò che egli sottintende o nasconde.
Ascoltare significa anche essere capaci di condividere domande e dubbi, di percorrere un cammino fianco a fianco. È farsi condurre dalla parola dell’altro là dove la parola conduce e ci permette di cogliere l’altro per quello che è e si narra, e non per quello che io credo che sia.
Ascoltare significa accogliere l’altro è permettere che le differenze si contaminino e perdano la loro assolutezza. Non si tratta solo di acquisire informazioni sull’altro, ma di aprirsi al “racconto” che l’altro in mille modi fa di sé stesso e della propria storia: così l’altro non abiterà più tra di noi ma in noi. Non si tratta solo di “ospitarlo”, di vivere sotto lo stesso tetto, ma di accoglierlo nel cuore e nella nostra vita!
La comunicazione più riuscita è quella in cui si osserva IL SILENZIO che è la condizione perché avvenga l’incontro e vi sia l’ascolto. Allora è urgente per aumentare la qualità della comunicazione riscoprire la necessità del silenzio, la sua ricchezza, poiché solo chi ama il silenzio e lo cerca, è capace di parlare, di ascoltare e di stare in ascolto. Il silenzio diventa quindi il contenuto segreto delle parole che importano, che lasciano il segno nella vita dell'altro che ascolta.
Solo quando nasce dall’ascolto e dal silenzio la parola è sana e costruisce fraternità, diversamente la parola è inutile se non dannosa.
PAROLA CHIARA. La parola deve trasmettere in modo chiaro e immediatamente comprensibile un contenuto. Questa è anche parola diretta, rivolta all’interlocutore cui è destinata e non bisbigliata dietro le spalle o detta a uno perché l’intenda un altro. È una buona regola generale: preferibilmente non parlare del fratello, ma al fratello.
PAROLA DA CUSTODIRE. Naturalmente la cosa funziona anche in senso inverso, non solo come capacità di rivolgere la parola al diretto interessato, ma anche di custodire la parola affidata dall’altro. Chi ascolta riceve dunque in consegna non una parola qualsiasi, ma un fratello che in qualche modo si è affidato a lui.
PAROLA FRUTTO D'ESPERIENZA. Un’altra dimensione della parola autentica è quella dell’esperienza: la parola dovrebbe essere la fedele traduzione dell’esperienza di vita, come un narrativo di ciò che la persona ha realmente sperimentato e che ha toccato in profondità la sua vita. Certo, la parola è uno strumento insufficiente per condensare in sé la ricchezza di certi eventi ed esperienze di vita, per questo la parola è umile, non pretende “dire” tutto dell’evento, ma in qualche maniera lo traduce, lo trascrive e lo fa intuire.
PAROLA NON MORMORAZIONE. La parola può diventare luogo di misericordia o di possibile violenza, prevaricazione, arroganza. I richiami di papa Francesco all'uso sobrio e intelligente e caritatevole e rispettoso della parola ormai non si contano più. Lui parla di terrorismo delle chiacchiere. Una comunità può essere distrutta dalle parole al vento, dalle parole cattive, dalle parole insincere, menzognere e doppie. Il lamento è un linguaggio che non edifica: a volte è una chiamata alla complicità; altre volte contribuisce a creare gruppi che si fanno portatori di una contro-verità, di una lettura alternativa di ciò che avviene.
Con quasi 10 milioni di ettari, la riserva indigena dello stato del Roraima, con una popolazione di poco superiore ai 25 mila abitanti, sta vivendo una crisi senza precedenti, come ci raccontano quelle persone che da anni vivono e lavorano per la difesa dei diritti dei Popoli e della foresta pluviale che è la loro casa. In tutto questo dramma è molto evidente la colpevole negligenza dell'ultimo governo federale presieduto dal ex presidente Jair Bolsonaro (2019 al 2022).
L'estrazione dell'oro dal suolo o dai sedimenti dei corsi d'acqua, effettuata con tecniche manuali o con macchinari pesanti, è favorita da vere e proprie organizzazioni criminali ed è stata la causa principale della crisi umanitaria che ha svigorito le comunità Yanomami.
Uno studio condotto dalla University of South Alabama degli Stati Uniti rivela che la quasi totalità delle miniere illegali ( ben il 95%) si concentra in tre territori indigeni: Kayapó, Munduruku e Yanomami, che sono le zone più colpite da questa attività.
Non è complicato capire che, se queste riserve sono abbandonate a se stesse, com’è successo in questi ultimi anni, si impone chi ha più risorse, appoggi e forze.
L’abbondanza dei giacimenti di tutta la conca amazzonica ha quindi investito le popolazioni più deboli: favorita dai poteri economici, dalle élite locali e dall'aumento del prezzo dell'oro sul mercato internazionale l’estrazione illegale (garimpo) ha avuto la meglio. Grazie all’appoggio del precedente governo è stato perfino presentato in Parlamento un progetto di legge, poi dichiarato incostituzionale, per regolamentare e promuovere l'estrazione mineraria nei territori indigeni.
La strada di 10 km che conduce al territorio Yanomami appare oggi come una ferita aperta nel cuore della foresta. La deforestazione, l'inquinamento senza precedenti e gli enormi crateri aperti che squarciano la terra hanno conseguenze drastiche sulla vita, la cultura, la spiritualità e la salute fisica delle popolazioni autoctone.
In un'intervista, padre Corrado Dalmonego IMC, che sta conducendo una ricerca di dottorato sull'impatto dell'attività estrattiva nel territorio indigena, ha dichiarato: "I centri sanitari hanno esaurito i medicinali di base come il diprone, il paracetamolo e i farmaci per il trattamento della malaria. Di conseguenza, più di 500 bambini sono morti per malattie curabili. A questo si aggiunge che il garimpo illegale non solo ha danneggiato la salute degli indigeni ma ha anche sconvolto la vita familiare, spingendo molte donne alla prostituzione o i giovani alla migrazione verso le periferie povere della città dove sono spesso vittime della tossicodipendenza e della miseria”.
Non c’è dubbio. Coloro che si addentrano nella foresta hanno atteggiamenti predatori nei confronti delle ricchezze naturali; i facili guadagni sono sempre realizzati a spese della vita della foresta e delle persone che la abitano e sanno vivere in armonia con essa.
Per padre Bob Mulega, 34 anni, missionario della Consolata di origine ugandese e nel Catrimani dal 2019, anche le manovalanze minerarie sono a loro volta vittime di un sistema di sfruttamento: "noi sappiamo che nelle miniere le condizioni di vita sono terribili e coloro che vi lavorano sono i più poveri, senza terra e senza altre opportunità”. Gli fa eco Gilmara Fernandes, leader cattolica e membro del Consiglio indigeno missionario di Roraima (Cimi) che dice: "i veri responsabili della tragedia mineraria non sono coloro che stanno nelle miniere ma quelli che forniscono logistica, manutenzione, cibo e finanziamenti senza i quali il garimpo diventa una impresa impossibile. I lavoratori delle miniere sono solo la punta di un iceberg che va molto più in profondità; sono i poteri occulti, spesso vere e proprie imprese criminali sostenute da politici conniventi, quelle che devono essere ritenute responsabili e assicurate alla giustizia”.
Quando nel 1993, quasi trent’anni fa, è stata espulsa dalle terre indigene una prima ondata di garimpeiros questi hanno potuto diventare agricoltori, ottenendo l'accesso alla terra e partecipando a progetti di riforma agraria. Oggi è tutto più difficile continua Gilmara: “con l'arrivo della soia, il valore della terra è aumentato considerevolmente e la maggior parte della terra in Roraima è concentrata nelle mani di politici, uomini d'affari, grandi produttori di soia, e diventa impossibile comprarla. Come potranno questi lavoratori illegali mantenere le loro famiglie? Se il governo non pensa a soluzioni per loro... saranno probabilmente riciclati in altre attività illecite o in nuove frontiere del garimpo”.
Suor Mery Agnes, MC, visita una comunità Yanomami.
I missionari della Consolata che vivono con gli Yanomami nella regione del Catrimani da più di 50 anni conoscono quello che le telecamere non possono vedere e ciò che si muove dietro le quinte. Per padre Mulega, gli Yanomami sono una società strutturata e fortemente ancorata alle loro credenze e alla loro forma di concepire la vita e la creazione. Tutto è ben costruito: l'ora di mangiare, le regole per vivere bene in società, la cura della natura, il posto delle donne e dei bambini, il ruolo degli uomini... questo mondo merita il massimo rispetto.
Il padre Mulega si appella alla società affinché non veda gli indigeni come dei poveri disgraziati ma come un popolo originario che condivide con tutti diritti, doveri, dignità e bisogni. "Non dimentichiamoci che loro sono persone degne, e non una popolazione che vive rinchiusa in una riserva ed è oggetto di studi. A loro bisogna offrire politiche di salute pubblica ed educazione basate sulla loro lingua. Difendere la selva è difenderne la vita, la casa e luogo sacro per tutti loro".
In questo contesto, appare fondamentale una conversione dello sguardo e del cuore che permette un incontro autentico con la popolazione indigena. Un rapporto di colonizzazione, da qualsiasi parte provenga –dal governo, dai proprietari terrieri o perfino da organizzazioni che sono al servizio delle comunità indigene–, non farà altro che aumentare i danni. Il genocidio e l'etnocidio, che oggi è alla luce del sole, continueranno.
* Rosinha Martins è Missionaria scalabriniana e giornalista. FONTE
L'unità nella diversità è una cosa lodevole. Ogni volta che si parla di “unità nella diversità” si cerca di trasmettere l’idea che, anche se spesso siamo molto diversi, possiamo comunque stare insieme e trattare di raggiungere un obbiettivo comune. È un altro modo per dire che la diversità di idee, visioni del mondo e prospettive non significa necessariamente inimicizia o rivalità. Quando non c'è diversità, possiamo metterci d'accordo molto velocemente su ogni tipo di questione ma solo perché la pensiamo allo stesso modo. Ma sai qual è il lato negativo di tutto questo? Quando non ci sono punti di vista divergenti, non c'è nemmeno crescita o progresso; la mancanza di punti di vista divergenti può sembrare inizialmente gradevole, ma prima o poi le persone si annoiano per la monotonia e perdono interesse per una unità insipida: se non viene introdotta una visione divergente si corre il pericolo che l’intera costruzione crolli.
Nel nostro Istituto, quando si parla del Beato Giuseppe Allamano e di Mons. Perlo, c'è un disagio che attraversa la mente della maggior parte dei missionari. Non è infatti un segreto che i due avessero modi molto diversi di vedere le cose, ma credo che a prescindere dalle loro differenze di personalità, carattere e modo di fare le cose, la loro unità era evidente nel desiderio di vedere crescere un Istituto migliore e più forte. Non so se sei d'accordo oppure no, ma io sarei dell’idea di chiamare Mons. Perlo il “soldato dimenticato” del nostro Istituto. Nella mia responsabilità come formatore in alcune occasione gli studenti mi hanno chiesto: “perché diamo tanto credito al padre Allamano per l'Istituto quando in verità quando si parla di missione l'unico di cui sentiamo parlare è di Mons. Perlo?” Non chiedermi come ho risposto alla loro preoccupazione e lasciamo questo tema per un’altra occasione. Per adesso voglio solo spiegare perché chiamo Mons. Perlo in questo modo. Lo chiamo “Soldato” perché la sua combattività a favore della missione è fuori discussione; e lo considero “dimenticato” perché molto spesso non ricordato, ignorato e trascurato. Nella vita di Mons. Perlo mi sembra che bisogna riconoscere alcuni aspetti che sono importanti.
In primo luogo, anche se la decisione di fondare un Istituto Missionario è legata al carisma di Giuseppe Allamano, lui sapeva che la sua salute non gli avrebbe permesso di andare in missione; aveva bisogno di bisogno di qualcuno forte che andasse ad aprire le missioni in Africa; detto in termini “militari” il padre Allamano aveva bisogno di qualcuno che andasse in trincea. Padre Perlo fu tra i primi quattro missionari che Giuseppe Allamano ha inviato nelle trincee della missione ed è stato un pioniere nel nostro primo approccio a una concreta realtà di missione. Il pioniere è una persona che crea un percorso, è un innovatore, uno che assicura che le cose funzionino con le buone o con le cattive. Un pioniere è qualcosa di simile alle fondamenta che in una casa né sono visibili né sono belle come le pareti esterne, ma senza di loro nessun edificio può sostenersi. I primi quattro missionari che hanno aperto la missione a Tuthu sono autentici pionieri; nonostante le loro debolezze sono grandi uomini degni di ammirazione. Sfortunatamente nella nostra narrazione il loro credito sembra svanire.
In secondo luogo, da buon “soldato” il padre Perlo era molto esigente nel compiere il suo dovere. Quando le persone sono dure con gli altri ma indulgenti e morbide con se stesse li chiamiamo dittatori ma padre Perlo non era così: era duro con gli altri, ma lo era soprattutto con se stesso. Forse avrebbe dovuto capire che non tutti erano forti come lui ma qualsiasi leader ti dirà che se sei un pioniere e le persone devono dipendere dalla tua direzione per la crescita e il progresso, la morbidezza è una debolezza. Quando nella mente dei tuoi seguaci si insinua l’idea che un progetto “è difficile per non dire impossibile”, questo è morto in partenza. La stessa cosa è successa con Giovanni Marco e San Paolo; quando questo iniziò a mostrare rallentamenti mentre accompagnava San Paolo nel suo secondo viaggio missionario, questi lo congedò e scelse Sila come suo compagno di viaggio (cf. Atti 15,37-39). Padre Perlo era un bulldozer come San Paolo, entrambi uomini dal carattere forte. Era necessario esserlo se l'Istituto doveva prendere forma e impiantarsi tra le popolazioni Kikuyu e Meru in Kenya, una terra nella quale il padre Allamano non ha mai messo piede.
In terzo luogo spero che tu sia d’accordo con me sul fatto che le idee senza azioni sono inutili. È vero anche che senza una buona idea non si può fare nulla, ma abbiamo mai pensato a cosa sarebbe successo con le buone idee del padre Allamano se non avessero trovato una brava persona per metterle in atto? Cosa sarebbe successo se i quattro missionari pionieri fossero stati dei deboli che non potevano sostenere nessuna idea? Ti dirò io cosa sarebbe successo: i cento ventidue anni di esistenza dell'Istituto sarebbero nel migliore dei casi pochi anni, nel peggiore solo pochi mesi. Se le idee di Giuseppe Allamano non si fossero incarnate nel carisma del padre Perlo, oggi il Fondatore sarebbe stato un altro padre Ortalda, l'uomo delle scuole apostoliche per la formazione dei missionari, morto nel 1880 frustrato dopo il fallimento dei suoi progetti. Senza l’impegno del padre Perlo il progetto dell’Allamano sarebbe rimasto solo un’idea. Lui era pratico e pragmatico fino il fondo ed è buono ricordare che poi è anche diventato il fondatore di un fiorentissimo istituto religioso femminile in Kenya: le Suore dell'Immacolata!
Insomma, non è mia intenzione elevare padre Perlo sopra il nostro Fondatore. Come hanno notato più volte i miei studenti, quando si parla di missione, si parla di padre Perlo e non potremmo parlare dell’Istituto Missioni Consolata, nei suoi primi passi in Africa, senza fare riferimento a Lui. Giuseppe Allamano ha fatto molto nel gestire tutto da Torino ma l'uomo che aveva gli stivali per terra era padre Perlo e i suoi primi compagni. La sua influenza non può essere sottovalutata dato perché, anche se andò inizialmente in missione come economo del gruppo, in breve tempo ne fu il superiore. Ogni impresa che l'Istituto conseguì in quegli anni fu da lui intrapresa o da lui ispirata: è l'uomo che ha dovuto sopportare le punture delle spietate zanzare africane; l'uomo che ha attraversato i fiumi prima di costruirvi ponti; l'uomo che ha dato forma a quello che oggi chiamiamo con orgoglio IMC. Le sue impronte segnano la grande storia del nostro Istituto missionario.
Non sorprende che il padre Allamano lo abbia rispettato per quanto fosse difficile assecondarlo. Quelli che sono abbastanza onesti ti diranno che i due erano complementari: l’Allamano rappresenta lo stile religioso dell'Istituto e invece Perlo ne rappresenta quello missionario; era pregevole il suo desiderio di vedere predicato il vangelo ovunque, immediatamente e con qualunque mezzo a disposizione. Pensando alla cattiva immagine che abbiamo di lui nell’istituto vale la pena citare un detto swahili: "Mnyonge muue lakini haki yake mpe" (anche se devi uccidere l'uomo debole, almeno riconosci il suo diritto). Sarebbe come dire che, indipendentemente dai molti punti che potresti avere contro una certa persona, almeno devi riconoscere ed apprezzare ciò che di positivo c’è in lui. A questo missionario, “soldato dimenticato”, dovremmo essere assolutamente grati e come persone riconoscenti, credo che sia giunto il tempo per noi, come Istituto, di fare qualcosa per ricordarlo... magari anche una statua, ma è una mia opinione.
“Il missionario è chiamato a vivere e testimoniare una comunione che valorizza la diversità con un atteggiamento di kènosi di sé stesso, per fare spazio all’altro. Per il missionario il dialogo è un atteggiamento fondamentale, mentre il rispetto delle persone e delle culture diventa per lui un orizzonte operativo” (XI Capitolo Generale 17.2).
“La vita è arte dell’incontro. Le culture si ammalano quando diventano autoreferenziali, quando perdono la curiosità e l’apertura all’altro. Quando escludono invece di integrare. Che vantaggio abbiamo a farci guardiani di frontiere, invece che custodi dei nostri fratelli? La domanda che Dio ci ripete è quella: “Dov’è tuo fratello?” (cfr Gen 4,9). (Papa Francesco, Inaugurazione dello spazio espositivo permanente della biblioteca Vaticana, 5 novembre 2021)
È urgente formarci e formare per incontrare parole capaci di creare comunione con le persone diverse da sé. È indispensabile formarci e formare al rispetto per il ‘diverso’, con la capacità di ascoltare e prendere in considerazione i punti di vista dell’altro diverso da sé.
C’è un modo sbagliato di avvicinarsi a un’altra cultura ed è chiamato acculturazione. Esso porta ad assorbire ogni cosa dell’ambiente in cui ci si trova smarrendo la propria identità e le proprie radici.
Il corretto approccio interculturale invece porta ad essere protagonisti e a sperimentare positivamente la possibilità di cambiamento per cui si sceglie cosa prendere e cosa lasciare di sè e dell’altro. Questo chiede di sapersi fondare sulla propria identità umana e sulla propria storia personale per sentirsi alla pari con gli altri, parte della stessa specie umana. Allora si potrà credere nel valore della diversità dell’altro, valorizzando la propria cultura come quella altrui. Solo partendo da qui, si può accettare di avvicinarsi all’altro, tollerando l’incertezza, rispettando il suo sistema di valori, mettendosi nei suoi panni per vedere le cose da punti di vista differenti.
Quando scopriamo che la nostra identità come quella degli altri è il risultato di molteplici appartenenze e che nelle nostre origini e nel nostro percorso di vita convergono diversi influssi, allora si crea un rapporto differente con gli altri e nei confini fra noi e loro si creano dei varchi e cerchi di appartenenze diversificati e mobili.
La visione che il Concilio Vaticano II ha della chiesa è trinitaria, sacramentale/eucaristica e comunionale. La chiesa è "popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo" (LG17); citando S. Cipriano la si definisce "un popolo adunato dall'unità del Padre e del Figlio e dello Spirito santo" (LG 4). È definita come “comunità di comunione”, unità delle diversità, che si forma grazie alle diversità. Nella Lumen Gentium troviamo perciò i fondamenti necessari al tema dell’interculturalità, per promuovere la comunione dentro e fuori della chiesa.
Papa Francesco nella Evangelii Gaudium non fa che sviluppare gli stessi concetti, ma usando un linguaggio ancora più esplicito e attuale.
“La Chiesa è un popolo dai molti volti, ciascuno dei quali ha la propria cultura, la propria storia, che sa sviluppare con legittima autonomia…il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato (EG 116).
Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa(...). L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa. Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore. (EG 117)
Dobbiamo imparare a distinguere entre assimilazione, fusione e pluralismo culturale. L'assimilazione si produce quando un gruppo maggioritario tende a inglobare il più piccolo facendo in modo che esso rinunci alla sua differenza per assumere in toto le norme e le modalità del gruppo più grande.
La fusione si produce quando si diverse culture sono mescolate in modo tale che ne risulti un prodotto migliore. Si parte dal fatto che ogni diversità ha delle ricchezze e che queste non sono così incompatibili da impedire la fusione. Entrambe le modalità annullano le differenze in nome di una supposta superiorità.
Invece il pluralismo culturale mantiene le differenze e valorizza ciascuna di esse come possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo. Questa è però la più difficile da applicare perché bisogna saper organizzare nella propria vita continuamente un confronto con punti di vista e abitudini diversi dai propri e che la società stessa adegui le sue strutture alle esigenze e caratteristiche delle diverse culture.
Per un corretto approccio all’interculturalità bisogna agire prima di tutto a livello cognitivo. Questo consiste nell’avere più informazioni sugli altri, imparare ad avvicinarsi, aprire e mantenere contatti, gestire conflitti, tollerare incertezze, mettersi nei panni degli altri, imparare a vedere le cose da punti di vista differenti. Ma oltre alla conoscenza e allo scambio reciproco bisogna attivare anche la dimensione dell’empatia e dell’apertura affettiva che va a contrastare ogni forma di discriminazione.
Conoscere le proprie emozioni e farsi conoscere: Non si vive in un clima interculturale solo perché ci si scambia qualche informazione su chi si è e da dove si viene, seppure in una benevolenza preziosa. Il decentramento è necessario per una percezione più completa della propria identità culturale, il punto di vista dell’altro è come la quarta parete della nostra identità di cui non disponiamo e non abbiamo il monopolio. Si tratta non solo di parlare all’altro, ma anche di ascoltarlo e di ascoltare la sua narrazione su di noi.
Il cammino di scoperta delle differenze può essere scandito da stupore e imbarazzo di fronte a manifestazioni diverse da quelle a cui siamo abituati, ricerca sui motivi di certe pratiche diverse dalla nostra, esplorazione di punti di vista diversi. Possono così aprirsi orizzonti nuovi, nuove domande, conoscenze più approfondite. Collocarci fuori dal contesto consueto può provocare un disorientamento iniziale ed è un attacco al pensiero egocentrico, ma è enorme occasione di dialogo.
"Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!». Ma il Signore gli rispose: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?". (Giona 4,9-11)
Il profeta Giona che è modello del missionario che anche oggi è chiamato ad uscire da sé stesso, dai pregiudizi, dalle proprie chiusure, per attraversare le città e i villaggi, abitare le periferie esistenziali per annunciare la misericordia di Dio.
L'orizzonte urbano, ben rappresentato da Ninive, è il nuovo contesto globale con cui la missione della Chiesa, la vita cristiana e la fede in Dio debbono fare i conti, la riscoperta delle periferie e delle loro contraddizioni quali ambienti da cui partire per un nuovo modello di spiritualità e di evangelizzazione. La città è anche un ambito multiculturale dove si può osservare un tessuto connettivo di gruppi di persone provenienti da altri Paesi che condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali e spesso in città invisibili.
“Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso”. (EG. 71)
La missione oggi ci spinge ad attraversare le zone marginali, le periferie del degrado, dove sono moltissimi i "non cittadini", i "cittadini a metà" o gli "avanzi urbani" e frequentare le solitudini, delle città ghetto, dove le case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare. "Dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione … non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città." (RM. 37b)
La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a programmare la nostra vita e fare progetti pastorali, secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. Ma i cambiamenti non devono farci paura perché appartengono profondamente al dinamismo della missione. Quando ci avviciniamo alla figura dell’Allamano vediamo che lui sa per esperienza personale che la fondazione stessa dell'Istituto è un’idea nuova su una realtà statica. Avrebbe potuto fare riferimenti a parametri consueti, ai modelli di missione già esistenti, e a ciò che i grandi maestri insegnavano. Invece l’Allamano vive la fondazione in stato di ricerca, vuole quindi che la sua opera si identifichi con l'insorgere di nuove idee. Intuisce che il "solito", l'abitudinario, il sicuro del passato, sono destinati a mutare soprattutto grazie alla capacità di lasciarsi interpellare dalla novità dentro il presente e la semplice evidenza dei fatti.
Cosa fa l’Allamano per immettere idee nuove nel dinamismo di crescita dell’opera a cui aveva dato vita? Lui è anche discepolo degli eventi, dei popoli e dei suoi missionari. Questa primordiale intuizione di sé e della sua opera quali discepoli della missione rende l'Allamano ricettivo al divenire della storia con la quale saprà camminare e crescere.
È vero che l’Allamano non mise mai piede in Africa, ma accettò come componente della identità della sua opera l'ideale e il modo di viverlo di chi faceva missione sul campo.
Sorprendente ed unica la sua capacità di trasformare in carisma la missione vissuta, in perfetta armonia con la sua vocazione di mettersi a servizio di chi voleva fare missione. Per questo stabilì con i suoi una corrispondenza costante e l'obbligo di affidare il quotidiano alla carta dei diari che egli considerava fonte per imparare e formare.
“L’Allamano, leggendoli, veniva informato sulla vita che conducevano i suoi missionari giorno dopo giorno, anche nei minimi particolari. Leggendoli oggi, si ha l’impressione che quei missionari non volessero assolutamente rimanere distaccati dal loro Padre. Sapevano anche che lui leggeva qualche tratto ai giovani dell’Istituto per entusiasmarli, qualche parte veniva addirittura pubblicata sul bollettino “La Consolata” al fine di tenere vivo il contatto con la gente. Tutto ciò, però, era secondario. Il vero obiettivo dei diari, sia per l’Allamano che per i missionari, era che lui potesse essere informato di tutto e, pur rimanendo a Torino, fosse in grado di accompagnare i suoi figli nel loro difficile compito missionario. (P. Francesco Pavese)
Con questa capacità di ascoltare la missione vissuta, l'Allamano comprese che essa si alimentava di un altro elemento essenziale: l'impegno a "trasformare l'ambiente" che l'accoglieva e a "lasciarsi trasformare" dallo stesso. Per trasformare l’ambiente, il Kikuyu fu tante volte “scarpinato” da padri, suore e fratelli che impararono a guardare da vicino la gente che incontravano e ne rimasero totalmente coinvolti in rapporti umani e profondi.
Le scelte operative degli inizi, adottate dai missionari, potevano tutte ridursi ad un denominatore comune: stare con la gente, ad essa apparteneva il tempo, i soldi, le fatiche e le capacità personali del missionario. Le cure ai malati, scuole, catechismi e soprattutto, le quotidiane visite ai villaggi, facevano scomparire persino il bisogno della missione, intesa come residenza dei missionari. Fino a quando l'Allamano visse, ritornò sovente nelle lettere ai missionari sulla necessità di formare in questo modo l'ambiente. Detto da Lui “la trasformazione dell’ambiente” acquisiva il valore di paradigma.
Foto Kim Myeong Ho
La trasformazione dell'ambiente passava necessariamente attraverso la trasformazione del missionario stesso: testa e cuore compresi. Questo elemento di reciprocità diviene l’antidoto alla tendenza istintiva di chi partiva di aggrapparsi alle certezze di ciò che si aveva e si era per cui l'ideale pareva consistere nel riprodurre in missione un angolo della propria identità.
La trasformazione dell’ambiente invece risultava in un processo che destrutturava tutti e tutto, anche le cose più sacre. L'entrata in questo processo aveva un solo punto fermo di partenza: la realtà. Si trattava sempre di una realtà sconosciuta che imponeva al missionario di mettersi alla sua scuola: imparare a parlare, a mangiare, a gestire, a vestire e faticare in modo diverso da quello abituale.
Insomma, per trasformare l'ambiente bisognava divenirne parte accettandone i valori, i rischi, l'irrazionalità, la povertà e le tante sfaccettature rappresentate dalla diversità delle persone. E così i missionari umilmente cominciano ad assaporare il gusto di chiedere e ricevere dalla gente: la propria lingua, la propria giovialità, la propria fede, un'accoglienza senza interesse, una fiducia sincera. Si sentono oggetto di una infinita amorevole pazienza e scoprono che più importante di quello che danno e dicono è ciò che essi sono.
Se vogliamo convertire la nostra visione dobbiamo decentrarci perché ci deve stare a cuore Ninive! Perché i cambiamenti delle nostre parrocchie, dei gruppi ed uffici, avverranno solo dopo aver raccontato quali segni di grazia vediamo nelle "Ninive" di oggi e sul territorio e che cosa infiamma il nostro cuore di nuova comprensione dell'evangelo e di rinnovata responsabilità missionaria. Papa Francesco lo dice in questo modo: "non consumate troppo tempo e risorse a guardarvi addosso, a elaborare piani auto-centrati sui meccanismi interni, su funzionalità e competenze del proprio apparato. Guardate fuori, non guardatevi allo specchio. Rompete tutti gli specchi di casa" (Messaggio alla Pontificie Opere Missionarie, 21 maggio 2020)