C’è un pensiero –da qualche tempo mi è venuto in mente– che voglio condividere con voi e ha un po’ a che vedere con i miei 50 anni di sacerdozio che il prossimo mese di settembre celebrerò. Sono nato in un paese della provincia di Caldas in Colombia che era composto quasi nella sua totalità da cristiani cattolici, in una famiglia di persone molto devote educate, fin da piccole, nei principi della religione cattolica.
Era inevitabile che la mia formazione fosse eminentemente cattolica: sacramenti a suo dovuto tempo; battesimo, cresima, prima comunione e, in questo contesto, anche il desiderio di essere sacerdote e missionario. In una prospettiva di fede dovremmo dire che Dio ci ha quasi portato per mano, è intervenuto in modo determinante nella storia di ognuno di noi. Personalmente ho sempre considero un privilegio non solo essere un cristiano cattolico, ma anche essere un sacerdote missionario.
Ora mi chiedo, se invece di essere nato in Colombia e in America Latina fossi nato in India o in Pakistan, in Giappone o in Cina, come sarei in questo momento? Potrei essere musulmano, buddista, animista o confuciano? E se così fosse questo che significato avrebbe per me e per la mia vita? Forse, ma in tutt’altra prospettiva, direi lo stesso che ho appena affermato, che sarebbe un privilegio essere... e che anche lì Dio mi ha fatto diventare ciò che sono.
Sarà possibile che tutti quelli che appartengono ad altre culture ed altre religioni debbano essere in qualche modo infelici per il semplice fatto che io mi senta fortunato per essere nato in condizioni diverse e lontane?
Diciamo giustamente che la buona notizia di Gesù è così valida e buona che dovrebbe arrivare fino ai confini della terra in modo che tutti possano entrare a far parte dell'ovile della nostra comunità cristiana... eppure quella meta sembra ogni giorno più lontana per le concrete condizioni e possibilità della chiesa oggi. Ci sono milioni di persone che probabilmente non avranno la possibilità di ascoltarla la buona notizia di Gesù, o anche solo comprenderla. Cosa vorrà Dio per loro?
Ebbene, io penso che quello che Dio vuole è che siano brave persone, secondo le convinzioni che hanno, e che cerchino di vivere nel migliore modo possibile: in armonia, in pace, in unione, in solidarietà, in collaborazione e servizio. Molte religioni condividono fra di loro principi e orientamenti analoghi e propongono cammini di vita buona per i loro fedeli. Sono convinto che questo è ciò che Dio vuole per ogni essere umano.
Il lavoro missionario in questo senso cambia profondamente: bisogna lasciarsi alle spalle tanto proselitismo, smettere di qualificare i missionari in base al numero dei battesimi che hanno celebrato, dimenticare la massima del medioevo "extra ecclesiam nulla salus", fuori dalla Chiesa non c'è non salvezza.
Oggi il senso del nostro impegno missionario sarebbe certamente diverso. Nella nostra comunità IMC abbiamo alcune esperienze che ci possono guidare: il lavoro con gli indigeni Yanomami in Brasile dove non sono mai stati celebrati battesimi; quello delle missionarie della Consolata nei Paesi asiatici dove hanno aperto missioni con magre o incluso inesistenti comunità cristiane; quella che con loro stesse condividiamo in Mongolia dove la missione si è configurata come una testimonianza discreta, vicine alle persone, trattando di vivere come discepoli di Gesù Cristo.
Il dialogo religioso, interreligioso e spirituale potrebbero definire i nuovi orizzonti della missione. Vivere la misericordia cristiana con i più poveri sarebbe anche un aspetto importante del nostro stare in mezzo ai popoli non cristiani. E poi lasciare che lo Spirito di Dio faccia il resto.
Ci stiamo avvicinando a un nuovo Capitolo Generale e dobbiamo rivedere il senso del nostro carisma di fronte a queste sfide che appartengono propriamente alla sensibilità religiosa del nostro mondo moderno. L'ad gentes, come proposto da Giuseppe Allamano a suo tempo è stato molto puntuale, preciso e chiaro nei suoi destinatari che erano i non cristiani dei popoli dell'Africa. Circostanze successive ci hanno portato in America Latina, che era un continente già largamente evangelizzato.
Dopo il capitolo del 1999 e nei capitoli successivi, abbiamo visto come gli orizzonti del nostro annuncio si sono progressivamente allargati verso altri areopaghi, accogliendo e coprendo tante situazioni umane di povertà. La domanda “ma cosa dobbiamo fare” ci ha accompagnato da allora in tutti i successivi capitoli generali e si è presentata nuovamente anche nella preparazione di questo che è prossimo a celebrarsi.
Bisognerà forse ritornare ad un ad gentes più delimitato come quello che proponeva il Fondatore ai suoi primi missionari oppure dobbiamo continuare a guardare con attenzione e speranza i segni dello Spirito che indicheranno i luoghi dove oggi noi siamo chiamati a seminare la speranza cristiana?
Nel documento di lavoro del Capitolo diciamo che il Beato Allamano, se fosse vivo, si impegnerebbe anche lui sulla strada del discernimento per dare indicazioni per continuare a spendersi nella missione ad gentes.
Reinterpretare il pensiero del Fondatore secondo questo mondo che ci interpella è forse la cosa più importante che dobbiamo fare nella nostra assemblea capitolare. E poi rivitalizzare la nostra vocazione, la nostra testimonianza, il nostro ministero è anche garanzia di fecondità e occasione per formulare proposte attraenti per i giovani ai quali dobbiamo offrire un progetto con novità e futuro.
Sono molto fiducioso che il capitolo faccia passi in questa direzione e la mia speranza è che, giungendo alle conclusioni finali del nuovo capitolo, si possano scoprire modi rinnovati per continuare a testimoniare Cristo nella missione.
*Orlando Hoyos è Missionario della Consolata, lavora a Bogotá (Colombia) e ha partecipato al corso dei Missionari con 50 anni di ordinazione e professione religiosa appena da poco concluso a Roma.
Da anni i Missionari della Consolata lavorano con la popolazione che poco a poco ha colonizzato la parte occidentale della grande foresta amazzonica, a ridosso della cordigliera delle Ande.
Dopo qualche decennio per molti di loro le pendici scoscese delle montagne che limitavano la foresta sono ormai un ricordo lontano perché la colonizzazione si è estesa più in profondità e il diboscamento, l’allevamento estensivo del bestiame, le povere coltivazione per il sostengo quotidiano, il veleno del narcotraffico ci parlano di una vita difficile, complicata, sotto tanti punti di vista violenta, fatta di fragili equilibri che si possono spezzare in qualsiasi momento.
Fatta eccezione degli indigeni, la maggior parte delle persone che vivono in questi territori inospitali sono arrivati qui quasi per caso, e per caso o per mancanza di altre alternative ci sono rimasti. Come fare chiesa con questi che sono i nostri cristiani? È un po’ la domanda alla quale cerca di rispondere il seguente documentario.
* Padre Angelo Casadei è parroco di Solano, al centro dell'area amazzonica del Caquetá (Colombia)
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». (At 1,1-11)
Secondo il racconto di Luca, le ultime parole del Risorto, prima della sua Ascensione alla destra del Padre, sono: “sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, in Samaria e fino ai confini della terra” (Atti 1,8). A prima vista questa frase sembra voler indicare una semplice attività ma in realtà contiene tutto il programma di evangelizzazione di tutto il libro degli Atti degli Apostoli. Vediamolo più da vicino.
La frase cita quattro termini geografici: "Gerusalemme", "Giudea", "Samaria" e "fino ai confini della terra" ma, come è normale nella Bibbia, dietro le parole ci sono contenuti più profondi, un intero messaggio di fede. La prima cosa che appare in questi quattro luoghi geografici è il simbolismo numerico: il numero "quattro" simboleggia normalmente nella Bibbia la totalità della terra e dell'universo. Ma poi qui quei quattro nomi esprimono un movimento espansivo, una traiettoria che avanza da un punto di partenza, che è Gerusalemme, verso una meta che è la parte più remota del mondo conosciuto.
A GERUSALEMME. Il punto di riferimento, che Luca impiega per organizzare eventi all'interno delle due parti della sua opera, è Gerusalemme. Nella prima parte, il Vangelo, è di grande importanza il viaggio di Gesù e dei suoi discepoli verso Gerusalemme (Lc 9,51-19,28). Nella seconda parte, il Libro degli Atti, l'evangelizzazione è descritta come un cammino da Gerusalemme fino ai confini della terra con la finalità di testimoniare il Risorto. La Città Santa ha per Luca un grande valore rappresentativo, perché per secoli è stata il simbolo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma poi è anche la città nella quale è avvenuta la morte e la risurrezione di Gesù che è l'evento centrale della storia della salvezza. Questa buona notizia deve raggiungere da lì tutti gli angoli del mondo. Nel libro degli Atti i capitoli da 1 a 8 raccontano della formazione della prima comunità a Gerusalemme.
IN TUTTA LA GIUDEA... E IN SAMARIA. La Giudea è la regione in cui si trova Gerusalemme è il primo passo nell'espansione della Buona Novella. Da un punto di vista sociale e religioso, la Giudea rappresenta gli ebrei fedeli, che hanno atteso per secoli la venuta del Messia. In Atti 8,1 ci viene dato avviso di questo primo passo nella diffusione del Vangelo, quando si dice che "tutti, tranne gli apostoli, erano sparsi per le regioni della Giudea e della Samaria". Ma nella prima espansione del vangelo c’è anche la Samaria. Come conseguenza della sua storia e della sua collocazione geografica la regione della Samaria era guardata con disprezzo dagli ebrei, I Samaritani erano considerati fuorilegge, quasi come non ebrei e sotto tanti punti di vista emarginati (cf Gv 4). La causa di tutto la poca fedeltà alla purezza della legge e dell’Alleanza. Nel racconto degli Atti, l'evangelizzazione attraverso la Samaria occupa i capitoli da 8 a 11. Qui compaiono personaggi molto significativi come Filippo (cap 8) che lo spirito manda ad evangelizzare e battezzare il primo pagano che appare nel libro degli atti, un funzionario della regina dell’Etiopia, Candace. Termina questo segmento con la conversione del centurione Cornelio, il primo pagano che riceve lo Spirito Santo e il battesimo (prima lo Spirito e poi il battesimo per mano di Pietro). Sempre in questa sezione inizia la sua attività Paolo, il grande annunciatore del Vangelo ai non ebrei.
FINO AI CONFINI DELLA TERRA. Poi la Buona Notizia di Gesù arriva fino ad Antiochia, lasciando così i confini della Palestina. Fu lì che i discepoli di Gesù cominciarono a chiamarsi cristiani. L'evangelizzazione ad Antiochia occupa i capitoli 11 e 12. I capitoli da 13 a 15 descrivono l'evangelizzazione di Cipro e dell'Asia Minore; dal 15 al 21 quella della Grecia e gli ultimi capitoli del libro (dal 21 al 28) sono dedicati a raccontarci il processo giudiziario seguito contro Paolo e che lo porterà a Roma, capitale dell'Impero. Per un abitante della Palestina in quel momento, raggiungere Roma era come raggiungere la fine del mondo, perché ciò che accadeva a Roma aveva ripercussioni su tutto l'Impero, che era equivalente al mondo allora conosciuto. Si è compiuto il disegno voluto dal Risorto, che deve continuare a compiersi finché durerà questo mondo. Il programma missionario, quindi, si riflette chiaramente nel seguente schema, che struttura il libro: Introduzione (Atti 1,1-11); la Chiesa di Gerusalemme (Atti 1,12-5,42); da Gerusalemme ad Antiochia (Atti 6,1-12,25); da Antiochia a Roma (Atti 13,1-28,31).
Ciò che importa è ricevere lo Spirito Santo, la forza dell'amore che sosterrà i passi dei credenti nel loro arduo cammino e manterrà accesa nel loro cuore, di generazione in generazione, la fiaccola della fede. Gli angeli inviano i discepoli ad annunciare a tutto il mondo il suo Nome e il suo Vangelo e a raggiungere il cielo camminando sulle vie del Signore sulla terra, facendolo conoscere a tutti e raccogliendo i fratelli per andare insieme a Dio e per salire insieme in alto, in cielo. Questo deve essere il nostro impegno: desiderare di ascendere e di prendere il largo da tutte le strettezze del male, di elevarci con animo libero con la forza dello Spirito Santo che ci è dato e come sospinti da questa brezza leggera per essere uniti nel suo Nome e ascoltare la sua Parola, per crescere nella fede e operare nella carità, annunziando agli altri in modo credibile il regno di Dio.
Tutto il libro degli Atti descrive lo sviluppo della missione che Gesù ha lasciato ai discepoli con l’assistenza dello Spirito. Che presenza ha, nella tua vita, lo Spirito Santo? Sai testimoniare la tua fede cristiana nel tuo ambiente? Come chiesa cosa dovremmo fare per non rimanere a “guardare il cielo”? A che pagani portare la Buona Notizia? Come?
Ti preghiamo, Signore, questa Parola che abbiamo ascoltato trafigga anche il nostro cuore e susciti in noi un sincero desiderio di conversione, per essere interiormente rinnovati e vivere immersi nel Signore Gesù Cristo, nel mistero della sua Chiesa, in quella comunione d'amore che continuamente lo Spirito Santo crea e alimenta.
Fa’ che, dimentichi di noi stessi, possiamo essere totalmente donati agli altri in letizia e semplicità di cuore. Amen.
Prima del 2016 la nostra era una vita normale, come quella di altri cristiani. Abbiamo lavorato per mantenerci e crescere i nostri due figli e abbiamo vissuto nella felicità e anche nella difficoltà che quotidianamente trovavamo. Partecipavamo alla vita della comunità cristiana: negli Incontri Matrimoniali, nel gruppo di Studio della Bibbia, nei servizi alla parrocchia e così via.
Nel 2004 avevamo conosciuto i Missionari della Consolata e con loro abbiamo partecipato ad alcuni viaggi in missione che per noi sono state esperienze davvero toccanti, scoprire Dio vivo e presente nella vita dei missionari e nella vita delle comunità che loro servivano. Poco tempo dopo il rientro dall’ultimo viaggio in missione Rosa, nell’eucaristia in parrocchia, ha sentito fortemente il desiderio di partire, la presenza di Gesù che diceva “vai”! In seguito ci siamo consultati con i padri della Consolata per capire se si trattasse di un desiderio mosso dallo Spirito Santo oppure no.
In giugno 2018 siamo partiti per la Tanzania. Avevamo un sogno: stabilire relazioni positive con ogni persona che avremmo incontrato. Al’inizio pero la gioia provata è stata di breve durata. Abbiamo sperimentato delle difficoltà comprensibili per l’impatto con l’ambiente ma anche difficoltà di comunicazione con la comunità. In quei momenti, correvamo davanti all’Eucarestia, ci lamentavamo e pregavamo: ne tornavamo confortati e con la voglia di superare le avversità. Abbiamo capito che non eravamo lì per fare la nostra volontà, ma eravamo stati mandati e saremmo dovuti tornare, solo a missione compiuta.
Ci siamo sentiti scortati nella preghiera da tanti amici, sacerdoti e suore; la loro solidarietà si è fatta concreta ogni volta che ci inviavano ciò di cui avevamo bisogno, nella mostra fragilità. È cosi che ci siamo sentiti amati anche da Dio e mamma Consolata.
Evidentemente abbiamo trovato anche molto altro: ambienti naturali belli, studenti e persone che ci hanno accolto in modo affabile e generoso, l’essere liberi da incombenze e preoccupazioni. Grazie a tutto questo abbiamo potuto raggiungere la fine del contratto e siamo tornati in Corea in Gennaio 2022.
In questi mesi, da febbraio a aprile 2023 siamo stati a Roma, ospiti nella Casa Generalizia, con l’intenzione di studiare italiano. Ne abbiamo sentito il bisogno perché e la madre lingua del nostro Istituto e in qualche modo anche della chiesa cattolica; nella nostra esperienza in missione abbiamo avuto la visita di tante persone che parlavano italiano e con le quali non riuscivamo a comunicare. Certamente tre mesi non è un tempo sufficiente ma speriamo che possa essere un aiuto per le prossime missioni.
Ci siamo trovati molto bene nella casa generalizia con i nostri padri e fratelli. È stato un grande onore per noi stare con loro e ci hanno sempre dimostrato una grande accoglienza e molto amore che certamente viene da Dio. Che bello poi aver condivido il nostro tempo con due gruppi di missionari che sono passati da Roma in questi mesi per la loro formazione permanente. I missionari con 25 anni di ordinazione e quelli con 50 anni. In loro e nella vita dei membri della comunità abbiamo visto la bellezza della vita del missionario consacrata a Dio e al servizio della comunità.
Con voi abbiamo celebrato la Pasqua di Gesù risorto e in qualche modo anche noi abbiamo sperimentato la risurrezione e siamo tutti stati guariti dall’amore di Dio. Adesso, possiamo ripartire con nuova forza e speranza. Siamo venuti qui per studiare l’italiano ma il Signore ha arricchito questo tempo di nuovi e grandi doni. Grazie a tutti voi.
Dopo il nostro ritorno abbiamo in mente un piccolo progetto editoriale. Normalmente i cattolici della Corea non sanno che ci sono missionari laici all’estero e a noi sembra importante cominciare a condividere la nostra esperienza. Spesso nel 2022 siamo stati chiamati a dare testimonianza della nostra esperienza in Tanzania. Vorremmo rendere questa testimonianza un po’ più consistente per mezzo di questo libro per il quale vorremmo attingere dai nostri diari di missione.
Vorremmo anche praticare un po’ di più l’italiano con i padri che ci sono in Corea, sono tanti i documenti della chiesa cattolica in Italiano.
Non sappiamo ancora quando avremo l’opportunità di tornare in missione. Siamo disposti ad andare ovunque Dio voglia. Pregherete per noi per favore. Ci vediamo nella preghiera. Grazie di nuovo.
*Rosa e Thomas Kang sono missionari laici della Consolata coreani.
Per “partire senza indugio” e ritornare sulle strade dell’umanità dove svolgiamo il nostro servizio missionario proponiamo dieci atteggiamenti missionari che esprimono lo stile del Beato Allamano a cui ispirarci continuamente.
Le proposte dell’Allamano sono sempre esigenti, conformi alla radicalità del vangelo. Egli è comprensivo della debolezza umana, pronto a capire, perdonare, incoraggiare ad «andare avanti», ma non sopporta la mediocrità. La missione esige impegno totale e perpetuo. Essa, secondo l’idea dell’Allamano codificata dalle Costituzioni, «deve permeare la nostra spiritualità, guidare le scelte, qualificare la formazione e le attività apostoliche, orientare totalmente l’esistenza».
L’Allamano vuole missionari coraggiosi, energici, generosi.
L’Allamano chiede che i missionari siano qualificati. Ne è tanto convinto da ricorrere a espressioni insolite sulle sue labbra: «Dobbiamo essere tutti di prima classe. Qui voglio solo roba scelta, vasi ripieni di liquore prelibato». Per la missione, prima attività della chiesa, si deve dare il meglio. È convinto che, più del numero, valga la qualità: meglio pochi, ma in gamba, capaci di fare per molti. Non pensa a superdotati. «Non abbiamo bisogno di aquile, ma di buone e ferme volontà».
Oggi la qualificazione è fondamentale perché la missione ad gentes ci spinge sulle frontiere e abitare in situazioni-limite. Il missionario si deve confrontare con la globalizzazione economica, la devastazione del Pianeta, la crisi ambientale, la corsa agli armamenti, il pensiero postmoderno, la mobilità umana, il dramma dei rifugiati e la multiculturalità, i movimenti religiosi, il numero crescente di battezzati che hanno perso il senso della fede e appartenenza alla chiesa, la secolarizzazione di un mondo che pretende costruirsi su basi che prescindono da Dio e dai principi morali. Ciò richiede evangelizzatori preparati, capaci di far leva sugli aspetti positivi di fenomeni in gran parte negativi.
La qualificazione è soprattutto profondità della vita spirituale. Il missionario è una persona attiva, che però pone a fondamento la ricerca di Dio. L’Allamano afferma: «Prima santi e poi missionari». È un «prima» riferito a tanti aspetti: preghiera, consacrazione religiosa, studio, pratica delle virtù umane e cristiane, impegno in ogni campo. Per far conoscere il Signore, per annunciarlo, occorre avere con Lui un rapporto personale; e per questo ci vuole la capacità di adorarlo, di coltivare giorno dopo giorno l’amicizia con Lui, mediante il colloquio cuore a cuore nella preghiera, specialmente nell’adorazione silenziosa.
Per essere missionari ci vuole una marcia in più, o (se si vuole usare una delle parole più frequenti nell’Allamano) «uno spirito».
Che cosa egli intenda è detto bene nel documento preparatorio al X Capitolo generale dei missionari della Consolata: «Egli parla di spirito di povertà, spirito di obbedienza, spirito di sacrificio, spirito di preghiera, spirito di silenzio, spirito di umanità, spirito di fede, spirito di lavoro, spirito di distacco, spirito di carità. Spirito è una realtà che penetra, regge e nobilita altre. È profondità, intensità. È intuizione. È l’opposto di ogni formalismo. È totalità. È verità, soprattutto nell’essere missionari. È andare all’essenza delle cose. È farle bene». «Voi - dice l’Allamano - dovete avere lo spirito dei missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole, nelle opere».
La missione non è un’attività individuale, secondo criteri personali. È azione di chiesa in spirito di comunione, «in unità di intenti». Questa è una intuizione fondamentale, un principio basilare, un’idea fissa. Si tratta di uno «spirito di famiglia» o «spirito di corpo», che per l’Allamano è il segreto di riuscita, l’obiettivo da realizzare ad ogni costo. Nel lavoro missionario l’unità è la condizione «più necessaria» e «più importante», senza la quale si rischia di lavorare invano.
La comunione tra i missionari diventa anche metodo di lavoro, estendendosi ai collaboratori, ai catechisti e ai membri più sensibili delle comunità cristiane. Si esprime all’interno e all’esterno: essere tutti per uno e uno per tutti. La missione perciò si fa insieme, non individualmente, in comunione con la comunità e non per propria iniziativa. E se anche c’è qualcuno che in qualche situazione molto particolare porta avanti la missione evangelizzatrice da solo, egli la compie e dovrà compierla sempre in comunione con la Chiesa che lo ha mandato.
Proprio perché pensa sempre alla missione nell’unità, Giuseppe Allamano si adopera di coinvolgere anche le comunità cristiane, iniziando da quanti frequentano il santuario della Consolata di Torino, cui è rettore. La sua opera non sarebbe riuscita senza tale partecipazione.
Oggi è maturata una visione teologica che fa meglio comprendere l’impegno di ogni comunità cristiana nell’annuncio del vangelo. Il battesimo conferisce il diritto-dovere di impegnarsi, sia come singoli sia in associazioni, perché l’annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più nelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (cfr. Redemptoris missio, 71).
Questa collaborazione, espressa in varie forme nell’ambito dell’istituto dell’Allamano, ha aperto ai laici nuove vie d’impegno nei paesi di missione come in Italia.
I missionari portano il «lieto annuncio». Devono farlo stando dalla parte di chi ha più bisogno di essere sollevato, colmato di gioia, anche alleviando mali fisici e morali causati da malattia, emarginazione, povertà, ignoranza. L’Allamano raccomanda di «stare con la gente», andare a trovarla dove vive. È l’espressione del cuore compassionevole di Dio che diventa consolazione. È un programma iscritto nel nome stesso che i missionari portano: quello della «Consolata». Sul modello di Maria sollecita del bene dell’umanità, la missione tende a instaurare il regno di Dio, che è amore, bontà, misericordia. Le Costituzioni dell’Istituto hanno accolto tale istanza, proponendo di «essere presenti tra la gente con cui lavoriamo in modo semplice e fraterno, con contatti personali e con attenzione ai loro problemi e necessità concrete».
Ricordiamo che seguire Cristo vuol dire andare là dove Egli è andato; caricare su di sé, come buon Samaritano, il ferito che incontriamo lungo la strada; andare in cerca della pecora smarrita. Essere, come Gesù, vicini alla gente; condividere le loro gioie e i loro dolori; mostrare, con il nostro amore, il volto paterno di Dio e la carezza materna della Chiesa. Che nessuno mai ci senta lontani, distaccati, chiusi e perciò sterili.
Non è difficile scorgere l’intima correlazione tra la consolazione-liberazione-promozione e la missione. Dio, che ha visto la miseria del suo popolo e ha ascoltato il grido di aiuto, ha inviato Mosè a liberarlo dall’oppressione (cfr. Es 3, 7-11). Chiaramente la consolazione-liberazione è missione divina, dono del Cristo salvatore. A noi è stato affidato il ministero di portarlo a tutti - si legge nel documento preparatorio al X Capitolo generale -. Senza difficoltà si può riconoscere che, nel nostro metodo di lavoro, evangelizzazione e promozione umana si sono sempre accordate. L’insegnamento del fondatore su questo è esplicito e frequente. E prese posizione per difendere questo suo principio... Noi dobbiamo assumere la condizione della gente e apprezzare i suoi valori. Le nostre certezze e pretese di superiorità, la nostra supposta e indiscussa dignità da salvaguardare si oppongono a una metodologia di comunione.
L'Allamano è ricettivo al divenire della storia con la quale saprà camminare e crescere e della missionarietà vissuta dei missionari alla scuola dei quali egli stesso si formò. Egli che non mise mai piede in Africa, accettò come componente della identità della sua opera l'ideale e il modo di viverlo di chi faceva missione sul campo. Trasformava in carisma la missione vissuta, in perfetta armonia con la sua vocazione di mettersi a servizio di chi voleva fare missione. Per questo stabilì con i suoi missionari una corrispondenza costante e l'obbligo di affidare il quotidiano alla carta dei diari che egli considerava fonte per imparare e formare.
La missione rendeva tutti discepoli perché nella sua imprevedibilità sconvolgeva i pregiudizi culturali e le protezioni sociali costruite negli anni della preparazione.
Questo insegna a mettersi in ascolto della realtà, a superare l’autoreferenzialità, a vivere la “docibilitas” che è la disposizione interna di chi ha imparato a imparare, ad accogliere, a obbedire, a rendere cioè ogni istante della propria vita un tempo di grazia, tempo che Dio ha assunto per mettersi in un atteggiamento di formazione continua come se tutta la vita fosse un’unica stagione, quella del tempo di Dio.
L'Allamano conduce l'Istituto a cogliere l'insorgere delle novità che si affermano. Egli sa per esperienza personale che la fondazione stessa dell'Istituto è un’idea nuova su una realtà ecclesiale statica. Vuole quindi che la sua opera sopravviva e si identifichi con l'insorgere di nuove idee, nuove intelligenze, ossia con ogni nuova capacità di leggere la novità dentro il presente e la semplice evidenza dei fatti. Intuisce che il "solito", l'abitudinario, il sicuro del passato, anche di quello che tale sarà appena si guardi in prospettiva il presente, sono destinati a mutare e forse anche a scomparire.
Non può essere che così perché "l'andare oltre" per l'Istituto voluto dall'Allamano non è la conseguenza di un compito ultimato, di un lavoro compiuto interamente. L'apertura è un parametro di controllo dell'autenticità dell'Istituto che dalla sua storia ha imparato non solo ad interrogarsi sul valore di quanto sta facendo, ma a contemplare l'oltre verso cui deve protendersi.
Il punto al quale i missionari sono giunti nelle realtà e nei contesti in cui operano non può essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che contenutistico.