Sorge in una delle strade più affollate di Lourdes, nei pressi del Santuario mariano che ogni anno attira sé milioni di pellegrini da tutto il mondo : è il "Point Mission" delle Pontificie Opere Missionarie (POM) francesi, inaugurato la scorsa settimana con la benedizione dell’Arcivescovo Celestino Migliore, Nunzio Apostolico in Francia.
I pellegrini saranno accolti dai volontari delle POM e da missionari, sacerdoti, religiose, religiosi, laici in missione, di diverse nazionalità, da marzo a ottobre 2024. È un'occasione per i pellegrini e i visitatori di passaggio di scoprire cos'è la missione oggi e come tutti possono essere missionari, attraverso gli incontri con testimoni missionari, ascoltando il racconto di chi dedica la propria vita all’opera missionaria della Chiesa.
"Lourdes e la missione hanno molti punti di comune” ha spiegato padre Michel Daubanes, rettore del Santuario di Nostra Signora di Lourdes, presente all’inaugurazione. "Il messaggio della Vergine Maria a Bernadette – ha ricordato padre Michel - si indirizza a tutti i pellegrini del mondo, e avere un “punto” dove si parla della missione a tutti coloro che si fanno pellegrini da vicino o anche da molto lontano è un’opportunità importante affinché ognuno si senta coinvolto e partecipe nella missione evangelizzatrice della Chiesa".
Con questa presenza in un luogo gremito di gente ed in mezzo ad attività commerciali (Boulevard de la Grotte, 65) le POM francesi desiderano sensibilizzare i pellegrini alla missione Universale, far conoscere più da vicino la natura e le iniziative delle Pontificie Opere Missionarie, invitando ciascuno a sostenere le necessità della missione con la preghiera e le offerte.
"È una scelta audace – spiega Georges Delrieu, segretario generale delle POM francesi - quella di installare questo “Point Mission” in un luogo di passaggio di pellegrini, visitatori e turisti. Mentre si appressano al santuario, pensiamo che molte persone potranno rimanere colpite da questa singolare presenza tra i negozi di oggetti di devozione. Potremo così dialogare con loro sulla missione universale e ricordare la vocazione missionaria di ogni battezzato. Il nostro sogno è che questo “Point Mission” diventi un luogo missionario nel cuore di Lourdes, per chiamare tutti alla missione!"
Presenti all’inaugurazione una rappresentanza di Vescovi della Conferenza episcopale francese tra cui Mons. Denis Jachiet, vescovo di Belfort-Montbéliard, che ha ricordato come oggi la missione sia dappertutto “sia ad gentes che inter gentes, intesa come incontro di culture che si fa qui come altrove e nel quale avviene l’annuncio di Gesù Cristo”. Mons. Dominique Blanchet, Vescovo di Créteil, ha sottolineato l’attualità della figura di Pauline Jaricot, fondatrice della Pontificia Opera della Propagazione della Fede, proclamata Beata il 22 maggio 2022.
Fonte: Agenzia Fides
Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.
I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.
La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone. Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.
Parrocchia Maria Speranza Nostra a Torino
Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.
Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.
Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.
Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.
Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.
Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.
La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.
La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.
Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.
Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.
Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».
Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità IMC che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, padre Nicholas, padre Samuel Kabiru, keniano, e padre Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».
Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».
Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».
In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».
Volantini del gruppo di mutuo aiuto Narcotici anonimi formato da almeno 40 persone.
Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.
Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.
Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.
Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.
Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.
Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».
L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni, che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.
Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.
Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.
Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».
Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.
Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».
Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».
A 50 metri dalla parrocchia, le strutture abbandonate della ex Gondrand in via di abbattimento dopo l'ultimo sgombero dei giovani senza tetto del novembre 2023
Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.
«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.
Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».
«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».
Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».
Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».
Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».
Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma IMC in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come IMC, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».
* Luca Lorusso è giornalista della rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: Missioni Consolata, Marzo 2024 (www.rivistamissioniconsolata.it)
Nel cuore dell’Allamano, fin da quando era giovane, Giuseppe di Nazareth occupò un posto privilegiato, subito dopo Gesù e Maria. Portando lo stesso nome, la festa liturgi ca del 19 marzo di ogni anno diventava un’occasione ricorrente per sviluppare la conoscenza e il rapporto con il suo protettore personale. Non dimenticò mai che, durante la sua permanenza a Valdocco, Don Bosco lo aveva invitato a prega re S. Giuseppe per due speciali intenzioni: «Quando ero an cora in collegio Don Bosco mi diceva sempre di domandare a S. Giuseppe la salute e l’aiuto negli studi».
Si avvicina la festa di San Giuseppe. Le parole del Beato Allamano ci aiutino a viverla bene. Auguri a tutti coloro che ne portano il nome.
(Padre Piero Trabucco, IMC, Casa Natale dell'Allamano)
Un viaggio nella savana africana dove la dolcezza delle caramelle diventa la chiave che apre le porte alla connessione umana e alla gioia inaspettata.
Nel cuore di Wamba, dove il sole accarezza la terra con il suo calore, i nostri piedi si muovevano sul terreno rossiccio. Padre Ansoni Camacho Cruz ed io, guidati da Isac un giovane della parrocchia, visitavamo le comunità attraverso percorsi serpeggianti che collegavano le case. La nostra missione era semplice: condividere la dolcezza, non solo con le parole, ma anche con gesti concreti.
Sotto il vasto cielo africano, portavamo sacchi di caramelle, piccoli tesori avvolti in carte colorate. Mano a mano che avanzavamo, fermavamo la macchina, e consegnavamo questi piccoli doni, con la sorpresa che dietro ogni bambino ce n'erano tanti altri che apparivano all'improvviso. Si avvicinavano a noi con stupore, gioia, timidezza e innocenza, il tutto mescolato al caldo sussurro del vento. Un grande sorriso si disegnava sui loro volti quando aperta una caramella la mettevano in bocca e poi correvano a condividere il loro inatteso regalo con gli adulti, che non se lo aspettavano.
Ogni caramella donata era una promessa: "Tu conti. La tua gioia conta, la tua cultura conta".
Questi sono regali a sorpresa e la gioia dei bimbi e degli adulti è una moneta più preziosa di qualsiasi altra. Perché in questi effimeri scambi, scopriamo la vera essenza del donare: non nell'aspettativa, ma nel puro piacere del sorprendere un altro essere umano. In mezzo alla savana africana, dove tutto trascorre con la sua lenta normalità, senza troppa fretta a differenza della grande città, arriva un regalo inaspettato.
Proseguiamo il nostro viaggio e i paesaggi sconosciuti diventano compagni. Un cenno del capo, una mano alzata, una fotografia scattata, un sorriso condiviso, una benedizione sussurrata; tutto tessuto nella trama del nostro incontro. La savana ci ha abbracciati, sussurrandoci segreti di resistenza al caldo implacabile e di saggezza ancestrale presente nelle persone. E in questa immensità, abbiamo trovato la connessione: un ponte tra mondi, fattoi non di mattoni, ma di umanità condivisa.
Arriviamo a conoscere una piccola Mañata (casa tradizionale Samburu), un luogo in mezzo alle montagne, con animali appena nati e uomini Samburu che ci guardano da lontano. Salutiamo la signora e i bambini della casa, e dopo un po' arrivano gli uomini e ci invitano a prendere il Chai. Accettiamo l’invito anche un pò incuriositi di poter assaggiare il latte di cammello. Isac ci porta in cucina, dove in termos tradizionali c'era del latte con un sapore particolare, più dolce e viscoso del latte di mucca. È stato un nuovo incontro con le tradizioni del luogo, il tutto unito in una porzione di esperienza culturale condivisa nella missione.
Ogni caramella donata era una promessa: "Tu conti. La tua gioia conta, la tua cultura conta". Mentre ci preparavamo per tornare, sono apparse persone che dovevano andare a Wamba; con la massima gentilezza, abbiamo offerto loro il nostro trasporto. Mentre loro si accomodavano, noi camminavamo con padre Camacho, osservando la bella scena di come il nostro trasporto diventava una possibilità, di nuovo un regalo inaspettato per loro e per noi.
Le emozioni del viaggio non erano da meno. Isac superava con cautela i dislivelli della strada, e i salti provocavano risate, conversazioni che non capivamo perché la loro lingua era il Samburu, ma le loro emozioni erano come un caleidoscopio di gratitudine, simpatia e gioia. In quei momenti noi non eravamo più estranei di passaggio; eravamo possibilità, missione e un'esistenza condivisa.
Le risate dei bambini, lo scricchiolio degli involucri delle caramelle, il calore delle persone, la gratitudine, sono regali inaspettati che ci offre la missione, che ci offre l'andare incontro all'altro.
E così, caro lettore, ricordiamoci che a volte i regali più preziosi arrivano senza preavviso, avvolti non nella carta, ma nella magia degli incontri inaspettati. Nell'abbraccio di Wamba, abbiamo imparato che la gioia si moltiplica quando viene condivisa liberamente; una lezione impressa per sempre nel linguaggio dei sorrisi e nel sapore delle dolci sorprese.
* Francisco Martinez è Liaco Missionario della Consolata colombiano lavorando nel Kenya.
L’Istituto Missioni Consolata è nato dal desiderio del Beato Giuseppe Allamano di aprire missioni in Etiopia, dove voleva inviare i suoi missionari da Torino in Italia. Ma il suo desiderio si è realizzato solo nel 1913, quando venne affidato all’Istituto parte del Vicariato di Oromo, eretto in Prefettura Apostolica il 28 gennaio 1913 con il nome di Kaffa Meridionale. Il primo Prefetto Apostolico, Mons. Gaudenzio Barlassina, IMC, fu eletto il 6 maggio 1913, ma raggiunse Addis Abeba, la capitale del paese verso la fine del 1916 e dovette attendere circa un anno prima di poter entrare nel territorio della sua missione.
Nel 1941, con la fine dell’esperienza coloniale italiana, anche i missionari della Consolata vennero espulsi dal paese. Nel 1970 l’Istituto ritorna in Etiopia assumendo la cura spirituale de alcune missioni del Vicariato di Harrar.
Attualmente lavorano nel paese 17 missionari della Consolata in cinque distinti missioni nella capitale Addis Abeba, nel Vicariato di Meki e nel Vicariato di Nekemte. Svolgono essenzialmente una missione fatta di evangelizzazione e promozione umana, come disiderava il Fondatore. Questo è ciò che ci spiega il Padre Marco Marini, IMC, in un'intervista rilasciata al Segretariato per la Comunicazione a Roma prima di tornare ad Addis Abeba, dove lavora.
Vedi il video realizzato da Fratel Adolphe Mulengezi