La visita è una componente della nostra esperienza umana, un fatto antropologico che assume caratteristiche particolari in ogni tempo e luogo, a seconda delle culture, dei popoli e delle società, diventando così un fatto culturale.
Nella Bibbia Dio è spesso presentato come colui che visita e consola il suo popolo con buone notizie di liberazione e di pace. Gesù è la migliore espressione della visita di Dio all'umanità, e dopo di lui seguono le visite dei suoi discepoli missionari, inviati fino ai confini della terra e alla fine dei tempi.
Anche nel Vicariato di Puerto Leguízamo Solano, nei territori amazzonici del Caquetá e Putumayo (Colombia) e ai confini con l'Ecuador e il Perù, la visita è una parte importante dell’impegno pastorale di Mons. Joaquín Pinzón e tutti i missionari che lo accompagnano, fa parte della loro quotidianità missionaria.
Il giovane seminarista Alfredo Cortés ha voluto raccontare la visita a Puerto Refugio, territorio indigena ed ancestrale del Putumayo, per mezzo di tre doni –tre sacramenti– che sono stati motivo di festa per la comunità cristiana di questo territorio: il battesimo, la comunione e la cresima.
Il dono del battesimo che è frutto della fede. "Sono stati celebrati tre battesimi e, per mezzo di questo sacramento, tre vite che sono state consacrate a Dio. I genitori sono incoraggiati a continuare i progetti di Colui che ha voluto abitare nei loro piccoli cuori".
Il dono della comunione che consolida la comunità. "Dieci erano coloro che diventavano una cosa sola con Gesù ricevendo il suo Corpo e il suo Sangue. Dopo la messa anche la tavola è stata imbandita e tutti abbiamo assaportato una grande zuppa patronale che ha sottolineato la comunione e il vissuto comunitario".
Il dono dello Spirito che anima l'impegno della vita cristiana. "Cinque giovani indigeni hanno ricevuto la pienezza dello Spirito Santo. Monsignor Joaquín li ha ascoltato la loro testimonianza e confermato la loro fede per mezzo dell'olio santo che inumidisce la fronte di chi vuole seguire da vicino il Signore".
Monsignor Joaquín ha presieduto la celebrazione di questi tre doni e sacramenti ed è stato accompagnato all'altare dai padri Fernando e Alejandro, missionari dal volto amazzonico che accompagnano i processi di fede in questi territori che si affacciano sul fiume Putumayo.
Vogliamo sottolineare le parole del vescovo di Montreal (Canadà) che ha conferito un importante incarico pastorale a un nostro confratello missionario nella sua diocesi.
Cari collaboratori dell'Arcidiocesi di Montreal, sono lieto di annunciarvi che ho nominato padre Jean-Marie Bilwala Kabesa, IMC come Vicario episcopale per le comunità francofone dei quattro decanati occidentali della nostra diocesi.
Nelle ultime settimane il vescovo Marc Rivest, che ricopriva questo ruolo, ha dovuto lasciare l'incarico per essere più disponibile per la sua parrocchia.
Padre Jean-Marie Bilwala Kabesa è nato l'11 febbraio 1974 nella Repubblica Democratica del Congo (Kinshasa). Si è unito ai Missionari della Consolata nel 1993, ha emesso i voti religiosi nel 1999 a Maputo, in Mozambico, ed è stato ordinato sacerdote il 20 luglio 2003 a Kinshasa.
Padre Jean-Marie ha prestato servizio in Etiopia (2003-2010) come parroco di Wonji, una città semiarida dell'Etiopia centrale, coordinando progetti umanitari in collaborazione con il Catholic Relief Services. Ha lavorato a stretto contatto con gli agricoltori locali, seguendo la realizzazione di progetti di carattere sociale.
In Quebec, padre Jean-Marie è stato direttore del centro di animazione missionaria dei Missionari della Consolata "Hall Notre-Dame", direttore della rivista "Réveil Missionnaire" e animatore pastorale della scuola Augustin Roscelli.
Dal 2016 al 2019 è stato direttore diocesano delle Pontificie Opere Missionarie per l'arcidiocesi di Montreal.
Attualmente è ospite occasionale di Maria-Montréal, una radio cattolica in lingua italiana, membro del Consiglio di amministrazione delle Pontificie Opere Missionarie nel Canada francofono e, dal 2020, amministratore della parrocchia di Saint-Jean-Bosco dove continuerà a prestare servizio.
Oltre al baccellierato in filosofia e teologia (Pontificia Università Urbaniana), padre Jean-Marie ha conseguito un master in comunicazione e giornalismo (Daystar University, Kenya-USA) e un master in salute e spiritualità (Université de Montréal). Vorrei ringraziare padre Jean-Marie e augurargli ogni successo nel suo nuovo ruolo all'interno della nostra archidiocesi. Che Dio vi benedica, vi riempia della sua luce e vi custodisca nella sua pace.
*Christian Lépine è Arcivescovo di Montreal
Omelia della Santa Messa nella “Steppe Arena” (3 settembre)
«O Dio, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63,2). Questa stupenda invocazione accompagna il viaggio della nostra vita, in mezzo ai deserti che siamo chiamati ad attraversare. E proprio in questa terra arida ci raggiunge una buona notizia: nel nostro cammino non siamo soli; le nostre aridità non hanno il potere di rendere sterile per sempre la nostra vita; il grido della nostra sete non rimane inascoltato. Dio Padre ha mandato il suo Figlio a donarci l’acqua viva dello Spirito Santo per dissetare la nostra anima (cfr Gv 4,10). Tanti di voi sono abituati alla bellezza e alla fatica del camminare, azione che richiama un aspetto essenziale della spiritualità biblica, rappresentato dalla figura di Abramo e, più in generale, proprio del popolo d’Israele e di ogni discepolo del Signore: tutti, tutti noi infatti, siamo “nomadi di Dio”, pellegrini alla ricerca della felicità, viandanti assetati d’amore. Il deserto evocato dal salmista si riferisce, dunque, alla nostra vita: siamo noi quella terra arida che ha sete di un’acqua limpida, di un’acqua che disseta in profondità; è il nostro cuore che desidera scoprire il segreto della vera gioia, quella che anche in mezzo alle aridità esistenziali, può accompagnarci e sostenerci. Sì, ci portiamo dentro una sete inestinguibile di felicità; siamo alla ricerca di un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività che portiamo avanti ogni giorno; e soprattutto siamo assetati di amore, perché è solo l’amore che ci appaga davvero, che ci fa stare bene, che ci apre alla fiducia facendoci gustare la bellezza della vita. Cari fratelli e sorelle, la fede cristiana risponde a questa sete; la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati: no! Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi.
Questo è il contenuto della fede cristiana: Dio, che è amore, nel suo Figlio Gesù si è fatto vicino a te, a me, a tutti noi, desidera condividere la tua vita, le tue fatiche, i tuoi sogni, la tua sete di felicità. È vero, a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità. Queste parole, carissimi, richiamano la vostra storia: nei deserti della vita e nella fatica di essere una comunità piccola, il Signore non vi fa mancare l’acqua della sua Parola, specialmente attraverso i predicatori e i missionari che, unti dallo Spirito Santo, ne seminano la bellezza. E la Parola sempre, sempre ci riporta all’essenziale, all’essenziale della fede: lasciarsi amare da Dio per fare della nostra vita un’offerta d’amore. Perché solo l’amore ci disseta veramente. Non dimentichiamo: solo l’amore disseta veramente.
Questa è la verità che Gesù ci invita a scoprire, che Gesù vuole svelare a voi tutti, a questa terra di Mongolia: non serve essere grandi, ricchi o potenti per essere felici: no! Solo l’amore ci disseta il cuore, solo l’amore guarisce le nostre ferite, solo l’amore ci dà la vera gioia. E questa è la via che Gesù ci ha insegnato e ha aperto per noi.
Anche noi, fratelli e sorelle, allora ascoltiamo la parola che il Signore dice a Pietro: «Va’ dietro a me» (Mt 16,23), vale a dire: diventa mio discepolo, fai la stessa strada che faccio io e non pensare più secondo il mondo. Allora, con la grazia di Cristo e dello Spirito Santo, potremo camminare sulla via dell’amore. Anche quando amare significa rinnegare sé stessi, lottare contro gli egoismi personali e mondani, correre il rischio di vivere la fraternità.
Padre Sergio Tesio, Missionario della Consolata piemontese, nato a Moretta (Cuneo) nel 1947, fra pochi giorni celebrerà 50 anni di ordinazione sacerdotale. Era il 9 settembre del 1973 quando venne ordinato da Mons. Carlo Re e ricevette la prima destinazione missionaria per il Venezuela dove giunse nel 1978. Oggi, dopo essere passato anche dalla Colombia e dalla Spagna è in Italia, nella comunità dei Missionari della Consolata di Olbia. Pensando a questi cinquant’anni, ci lascia queste semplici riflessioni.
Mi sono sentito felice e realizzato nelle missioni del Venezuela e della Colombia dove ho lavorato: gli agricoltori delle Ande (La Puerta), gli Afroamericani di Barlovento e di Cartagena, gli indigeni della Guajira sono stati i miei compagni di viaggio. Ho lasciato tra queste popolazioni un pezzo del mio cuore.
Queste persone sempre mi hanno considerato come parte della loro comunità e della loro famiglia. Io mi sono sentito come un figlio e sono sempre stato bene fra di loro... tra queste persone umili e semplici ho sperimentato un incredibile ambiente di solidarietà, ospitalità e semplicità: condividono il poco che hanno e non manca mai un sorriso, una parola o un aiuto. Mi è costato di più il viaggio di ritorno in Europa che quello di andata in Venezuela.
Vivere la missione significa vivere la fraternità tra noi e con la gente del luogo, condividere il dono della fede e della vita; nel nostro impegno mai dobbiamo lasciare fuori la comunità e i poveri che sono sempre i protagonisti.
Io sono riconoscente al Signore per il dono della vocazione missionaria e per tutte le esperienze vissute fino ad oggi: è un qualcosa che fa star bene e rende felice la tua vita. certamente non sono mancate delle difficoltà e queste sono un po’ un prezzo da pagare, ma anche quelle ti mantengono sveglio, ti fanno riflettere, rompono l’abitudine del “si è sempre fatto così”. In questo modo continui a sperimentare come Dio continua a seminare germi di speranza e di consolazione.
Oggi sto vivendo la mia consacrazione missionaria in Italia. Il missionario che ritorna lo fa per ricordare alla Chiesa che non è chiesa se non sente e vive la scintilla della missione; per invitare tutti, credenti e non credenti, a fare del mondo la casa dell’umanità, la casa comune, la famiglia universale dei figli di Dio; per raccontare, in modo particolare ai giovani che vale la pena spendersi per gli altri. È un programma stupendo.
Voglio offrire cinque semplici consigli a colui che desidera vivere la vita cristiana in stile missionario:
1. Cerca di avere un cuore grande, come quello di Gesù: un cuore che abbraccia chi viene da fuori, il diverso, il migrante, il lontano; un cuore che valorizza chi è avanti negli anni e ha speso le sue forze per il bene comune e adesso magari ha bisogno del tuo aiuto.
2. Mantieniti informato su ciò che capita vicino e lontano da te. Leggi e sostieni la stampa missionaria, le riviste che ti offrono notizie di prima mano da un mondo solo apparentemente lontano. Dobbiamo vincere l’indifferenza e mai applicare il proverbio “occhio che non vede, cuore che non sente”.
3. Fai tuo uno stile di vita fuori serie, austero e sobrio, rispettando il creato, la casa comune, la nostra terra, perché sprecare è rubare.
4. Fai parte e sostieni quelle organizzazioni, come Caritas e Medici senza frontiere, che promuovono la dignità delle persone e il bene comune. Ricorda che l’unione fa la forza.
5. Interrogati sul tu futuro. Tante donne e uomini si sentono felici e realizzati nella vita cristiana e nell’impegno missionario... non puoi esserlo anche tu?
“Muovemmo i primi passi nella missione in Mongolia con una certa emozione e anche commozione. Il 10 luglio del 1992 entrammo in punta di piedi in un Paese sconosciuto, forti solo della compagnia di Cristo Gesù, che invocavamo a ogni nostro passo del nostro cammino”. Il racconto di padre Gilbert Sales, oggi sessantenne sacerdote e missionario filippino della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) – anche definita dei “missionari di Scheut”, dal nome della località belga dove fu avviata – ritorna agli esordi della presenza cattolica che riprese agli inizi degli anni ’90, e che l’imminente visita apostolica di Papa Francesco nel vasto Paese dell’Asia centrale (1-4 settembre) vede, in trent’anni, cresciuta fino a 1.500 battezzati, e consolidata con parrocchie, scuole, opere educative e sociali.
Il missionario racconta all’Agenzia Fides il “nuovo inizio” della presenza cristiana in Mongolia: “Ci sentivamo come alieni, in una terra in cui non conoscevamo né la lingua, nè alcuna persona. Ma la fede non ci è mai mancata. Eravamo certi della presenza di Gesù tra noi e abbiamo sempre confidato che tutto sarebbe andato per il meglio: il Signore avrebbe aperto le porte cui bussavamo e ci avrebbe condotto per mano in quella steppa fredda e sterminata che vedevamo attorno a noi. Il Signore mi aveva condotto lì, come dice al Profeta, con due confratelli. Oggi posso testimoniare che davvero Dio ha aperto tutte le porte, ci ha donato la sua grazia e il suo amore che è stato fecondo in terra mongola e ha fatto rinascere la Chiesa”.
Il cristianesimo, nella sua versione nestoriana, giunse in Asia centrale, Mongolia e Cina già nel VII secolo ed ebbe una significativa influenza tra i mongoli nel corso del medioevo. Dopo scossoni e varie vicende storico-politiche, nell’epoca del comunismo di matrice sovietica, era sparita ogni esperienza di fede cristiana, e nel Paese non c’erano chiese né fedeli. “Arrivare lì e seminare nuovamente il Vangelo, con semplicità, pazienza e carità, è stato un momento straordinario, una esperienza che resterà nel mio cuore per sempre”, dice oggi il missionario filippino. Con padre Gilbert Sales, gli altri due pionieri erano i confratelli del Cicm Robert Goessens, belga, e l’altro missionario filippino Wenceslao Padilla, che diverrà poi il primo Prefetto apostolico della Mongolia, deceduto nel 2018.
La presenza dei tre missionari che nel 1992 giunsero in Mongolia era il primo passo di quelle che essi stessi chiamarono “una rinascita”. Il contesto politico internazionale era mutato, con la caduta del muro di Berlino, e il nuovo governo di Ulaanbaatar mostrò il desiderio di riallacciare i rapporti con la Santa Sede, che si disse disposta a instaurare relazioni diplomatiche, con l’accordo contestuale di poter inviare missionari nel Paese. “Quando la Santa Sede manifestò la volontà di avviare una missione in Mongolia, rispondemmo con entusiasmo: ci sembrò una nuova opportunità e una nuova chiamata di Dio: infatti già nei primi anni del ‘900 i missionari Cicm intendevano aprire una comunità in Mongolia”, progetto poi abbandonato a causa della guerra. “Allora trentenne, ero appena stato ordinato sacerdote e diedi la mia disponibilità non senza alcuni timori, ma confidando nel Signore Gesù. Lui mi chiamava a una missione speciale”, ricorda padre Gilbert.
Scelti i tre missionari per avviare la comunità, dopo un periodo di conoscenza reciproca e di formazione a Taiwan, i tre pionieri partirono per l’avventura missionaria alla volta di Ulaanbaatar tra speranze e incognite che segnano ogni nuova opera.
“Per farci coraggio, ogni giorno leggevamo il passo evangelico in cui Gesù dice ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono con loro’. Ci aiutava a farci forza, a essere certi, in ogni momento, della sua Provvidenza”, riferisce. “Va detto che ricevemmo la massima assistenza e cortesia dal governo mongolo. Vennero perfino ad accoglierci all’aeroporto con tutti gli onori. Grazie all’aiuto e alla mediazione di un funzionario che parlava francese (comunicare era una sfida), riuscimmo ad affittare un piccolo appartamento dove ci stabilimmo”.
Il primo passo per inserirsi nel Paese, come avviene per ogni opera missionaria, fu studiare la lingua locale, “un idioma ostico fato di suoni non facili da pronunciare. Sorridevamo provando a emulare quei suoni, ma non ci arrendevamo”, ricorda. I missionari si tuffano nello studio della lingua mongola, frequentando l’Università nella capitale e intanto, gradualmente, tramite solo il passaparola, si sparge la voce della loro presenza e della possibilità di celebrare i Sacramenti propri della fede cattolica nel Paese.
“Celebravamo la messa in una stanza della casa, adibita a cappella. Iniziarono a frequentarla alcuni ambasciatori di fede cattolica e alcuni membri del personale delle ambasciate occidentali, che portarono con loro alcune persone locali, incuriosite. Fu quella la prima forma di evangelizzazione, una missione eucaristica: Gesù si dona all’umanità e offriva se stesso anche ai mongoli”, nota p. Sales. La missione procedeva grazie a contatti informali e a chi rispondeva all’invito “vieni e vedi”. “Accoglievamo tutti con il sorriso e con tanta gioia. La gente veniva a parlarci chiedendoci della ragione della nostra fede, e facendo più domande proprio su Gesù. Vedevamo i primi mongoli partecipare alla messa. Non ci è mai mancata la fiducia in Dio, che ogni giorno ci manifestava il suo amore e agiva toccando i cuori”, rimarca il missionario.
I tre missionari cominciano lentamente a inserirsi in un contesto del tutto nuovo, ad avere le prime relazioni umane e instaurare legami di amicizia con persone locali, ma anche a stabilire contatti con le istituzioni civili, sociali e culturali. Mettono a disposizione le loro competenze e risorse e padre Gilbert Sales ben presto, se da un lato è studente di lingua mongola, dall’altro tiene un corso di lingua inglese all’Università, insegnando a giovani mongoli.
In questa cornice nasceranno le prime opere sociali avviate dalla piccola comunità cattolica. Prosegue p. Gilbert: “Vedevo molti ragazzi per le strade, da soli. I colleghi di Università mi spiegarono che erano i ragazzi di strada di Ulaanbaatar, che vivevano di espedienti e, nella stagione fredda (con temperature di 40 gradi sotto zero), si rifugiavano nelle fogne, dove passano i condotti del riscaldamento”. Gilbert volle andare a scovarli proprio in quelle loro grigie e maleodoranti dimore di cemento, trovandovi annidati ragazzi tra gli 8 e i 15 anni, “alcolizzati, violenti, malati e vulnerabili, in situazione di promiscuità sessuale”. “Mi feci forza – racconta – il cuore mi scoppiava di compassione verso quei piccoli, dei rifiuti umani. Tornai a trovarli portando con me del cibo. Tornai ancora diverse volte e ogni volta era un momento più bello. Intravidi perfino qualche accenno di un sorriso”. Il missionario, con gesti gratuiti di tenerezza e gentilezza “del tutto sconosciuti a quei ragazzi, maltrattati e disprezzati dalla società”, guadagna pian piano la loro fiducia e cerca di strapparli a quella vita da scarti umani.
Così prende forma la prima iniziativa socio-caritativa dei nuovi missionari: un centro per bambini di strada che, governato da padre Sales, fu avviato nel pianterreno di un edificio della capitale. E’ il “Verbist Care Center”, che aprirà ufficialmente i battenti come struttura assistenziale nel 1995. “Quei bambini iniziarono ad accogliere la nostra proposta di cambiare vita. Donammo loro cure, attenzioni, amore. Venivano da situazioni familiari segnate da alcolismo e violenza. Con noi cominciavano a recuperare la dimensione di piccoli indifesi e bisognosi di affetto”. Il Centro si attrezzò per fornire vitto, alloggio, cure mediche e un percorso scolastico che li conduceva a reinserirsi nella società. “Molti di quei ragazzi ora hanno completato gli studi universitari, lavorano stabilmente, sono padri di famiglia. Sono ancora in contatto con alcuni. Sono eternamente grati per quell’aiuto che fu per loro una svolta nella vita. Dico loro sempre di rendere insieme lode a Dio”, racconta p. Sales.
La testimonianza evangelica dei missionari attrae i cittadini mongoli: “Iniziammo a celebrare i primi battesimi. Ricordo ancora la commozione del primo battezzato, un ragazzo mongolo adottato da una coppia di cittadini inglesi cui venne dato il nome di Pietro. Cantammo insieme il magnificat: era un’opera di Dio che si compiva. Nei primi anni si formò così una comunità di una trentina di cattolici mongoli. Era davvero una piccola comunità di discepoli, con un tratto che ci distingueva: la gioia, la gioia di essere amati, salvati da Cristo e di portare il suo amore al prossimo”, ricorda.
Pian piano, grazie al sostegno della Santa Sede e di benefattori da tutto il mondo, la piccola Chiesa in Mongolia si arricchisce di opere ed esperienze pastorali e sociali, con la presenza di nuove comunità di religiosi e suore. “Wenceslao Padilla, che era il responsabile della missione, ebbe sin da subito uno sguardo universale e volle chiamare congregazioni da tutto il mondo, ognuna con il suo carisma, per contribuire alla missione nello sconfinato paese dell’Asia centrale. Molti ordini religiosi risposero positivamente e cominciarono così a giungere nuovi missionari, religiosi e suore dall’Asia, dall’Africa, dall’Europa e dall’America Latina che aiutarono a creare parrocchie, scuole tecniche, orfanotrofi, case per anziani, cliniche, rifugi per la violenza domestica e asili nido, spesso costituiti in periferie in cui mancavano i servizi di base, beneficiando soprattutto persone povere e famiglie indigenti”.
La missione compie passi avanti. “In una decina d’anni venne creato un Centro pastorale cattolico e poi fu costruita la prima chiesa, che è oggi la cattedrale di Ulaanbaatar, consacrata nel 2002. Il nostro vescovo Padilla (dal 2002 Prefetto apostolico) diceva che era necessario avere una struttura e una chiesa per dare al Paese, alle autorità civili e alla popolazione, l’idea di una presenza stabile e per dire: siamo qui in Mongolia e vogliamo restare, non siamo precari o passeggeri, vogliamo stare accanto a voi per sempre, come l’amore di Dio che non abbandona mai”, prosegue.
Fiorirà, poi, la prima vocazione al sacerdozio di un giovane mongolo e, nel frattempo, si organizza e si consolida l’opera di catechisti e volontari, si aprono parrocchie. Padre Gilbert Sales lascia la Mongolia nel 2005 – chiamato dalla sua congregazione un altro servizio, nelle Filippine – quando la comunità dei cattolici mongoli conta oltre 300 persone e la missione si va espandendo anche oltre la capitale Ulaanbaatar. Ora, in occasione della visita di Papa Francesco, torna nel Paese, con viva gratitudine. Potrà incontrare e riabbracciare tanti dei fedeli mongoli che lo ricordano con affetto. Alla comunità dove ha lasciato un pezzo del suo cuore dirà: “Andate avanti con pazienza. Lo Spirito soffia quando e dove e vuole e porta frutto. Lasciate spazio alla grazia di Dio perché possa guidare i vostri passi. Il Signore ha fatto e farà grandi cose: cantiamo insieme il magnificat”.