Circa cinquanta membri delle Direzioni generali di otto Istituti maschili e femminili esclusivamente missionari fondati in Italia –Missionari della Consolata, PIME, Saveriani e Saveriane, Comboniani e comboniane– si sono trovati per pregare insieme dal tre all'undici settembre, presso la Certosa di Pesio (Cuneo), nella regione Piemonte.
I partecipanti hanno riservato i primi cinque giorni agli Esercizi spirituali, centrati sul tema “L’acqua di Dio” e guidati da padre Paolo Tovo, missionario saveriano.
Tutti hanno riconosciuto che è stato un grande dono di Dio poter godere di questo tempo dedicato esclusivamente alla riflessione e alla preghiera in un luogo piacevole, tra montagne ricoperte da una fitta vegetazione dalle mille tonalità di verde, dove si poteva sentire, sia giorno che di notte, il rilassante rumore delle acque cristalline del piccolo torrente Pesio. È stata un’esperienza eccezionale di ascolto della Parola di Dio e di revisione della propria vita.
È stato anche un vero e proprio privilegio poter godere dell’ambiente naturale offerto dalla Certosa di Pesio – un edificio del XII secolo, nelle Alpi marittime, vicine al confine con la Provenza francese –, un’oasi straordinaria di silenzio e raccoglimento.
Le due giornate finali –il 9 e il 10 settembre– sono state per tutti un momento di formazione permanente e condivisione di esperienze sul tema globale della sostenibilità. Interessantissime e arricchenti sono state le riflessioni sul tema “Gestione nelle organizzazioni carismatiche”, offerte da Luigino Bruni e Mariagrazia Ardissone, ambedue professori ed esperti di economia e amministrazione.
"Vedi, ho buttato via l'orologio - mi fa, mostrandomi l'avambraccio sinistro - ho imparato dagli africani. Qui in Africa, si vive solo il presente, ma intensamente." Parola decisa, quella di padre Pierre, missionario.
In terra africana, infatti, non si è preoccupati del dopo, di ciò che viene in seguito, come da noi... e che ci fa esclamare: 'Presto, ho altro da fare!' Questo missionario, così, ha cambiato ritmo, ha cambiato campo. Quando incontra qualcuno prende tutto il tempo che serve, lasciando perdere il nostro gioiello al polso, l'orologio! Mi viene da sorridere al paragone, pensando quando - in vacanza nella mia terra veneta - mi presento alla porta di una parrocchia. "Scusami, stavo proprio uscendo!" mi fa a volte il prete e... scompare! Non prende neppure il tempo di estrarre l'agenda e fissarmi un appuntamento per un altro giorno, come succede all'estero. "Il Signore bussa alla nostra porta," direbbe sant'Agostino" ma noi siamo spesso fuori casa!" In Africa, invece, l'incontro - anche quello imprevisto, - è sacro. Oscar Wilde commenta: "Le cose vere della vita non si studiano nè si imparano, ma si incontrano".
Tempo fa, ascoltavo estasiato, padre Michel, in Marocco da anni, che mi confessa: "Dormo poco, sai, ma nella notte, quando mi sveglio, mi metto in ginocchio davanti all'armadio. Naturalmente, dopo averlo aperto: dentro c' è il Santissimo! " In un Paese dove la preghiera è costante e onnipresente, lo trovo per davvero un bell'esempio, per dire, di inculturazione. Qui, infatti, ti può sorprendere dietro un auto parcheggiata, qualcuno su un tappeto in preghiera... o il bigliettaio della stazione dei bus scomparso brevemente per lo stesso motivo.
Viviamo spesso al giorno d'oggi in uno spazio interculturale. Dove mondi differenti, modi di vivere diversi si incontrano, si scontrano, si osservano, si imitano o si intrecciano. "I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano" afferma giustamente una massima.
Ma quale è la regola d'oro per vivere in un mondo così complesso e plurale? Fare lo stesso lavoro delle api, suggeriva Antonio Perotti, grande esperto di sociologia. Di un viaggio, un incontro, un' idea differente, un'esperienza nuova... si coglie e si raccoglie il meglio. "Come le api fanno con i fiori, - concludeva - così io di tutto quello che incontro faccio il "mio" miele!" La differenza, in questo modo, arricchisce per davvero! "La nostra ricchezza è fatta dalla nostra diversità - spiegava il biologo francese Albert Jacquard - l’altro ci è prezioso nella misura in cui ci è diverso".
Ma per entrare in un mondo fatto di tante differenze, per arricchirsi in fondo dell'altro, quali sono le chiavi?
La prima è l'ascolto. Il decentrarsi. Uscire da sè e dal proprio mondo. Prestare attenzione a ciò che è unico nella vita degli altri. "Ricordando sempre che tu sei unico, - sottolinea qualcuno - esattamente come tutti gli altri!" . Si diventa persone migliori facendo proprie le conoscenze, i risultati, le conquiste degli altri che si incontrano quotidianamente.
Altra chiave è lo stupore. Cioè rimanere nell'immobilità, come in attesa, in suspense, senza ombra di condanna di fronte alla diversità dell'altro. Attitudine questa che gli antichi chiamavano "epochè" sospensione del giudizio. Sorprendersi, stupirsi, è iniziare a capire. "Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, - ripeteva Pablo Picasso, immerso nel mondo dei colori - cogli l’occasione per comprendere".
Altra ancora, l'arte della curiosità. A lungo considerata un comportamento negativo la curiosità è oggi sinonimo di cammino intelligente, di un sentimento che non si arresta davanti al reale, ma guarda le cose diversamente. Come un rabdomante che cerca la sorgente d'acqua, la curiosità cerca il senso sotterraneo, il "perchè" di un comportamento, di una tradizione differente o di un gesto. Per questo essa è tolleranza, apertura alla diversità.
La curiosità semina dubbi. E il dubbio porta alla certezza, compresa quella che si esprime attraverso una grande scoperta scientifica. L'unico modo, così, per andare a fondo delle cose oltre l'apparenza è interrogarsi: cosa, come, perché, quando, quanto, in che senso..."La curiosità e i problemi sono gli allenatori del pensiero". (M.Trevisan)
Infine, una chiave importante è sempre provare qualcosa di nuovo. Essere aperti ad altri punti di vista, assaporare cibi differenti, esotici, accogliere opinioni diverse dalle proprie, accettare che una risposta inaspettata possa rivelarsi preziosa. Essere, infine, disposti a cambiare la vostra stessa idea o atteggiamento. Se necessario.
In tutto questo una grande umiltà, lo spirito del dialogo, il gusto del raccontarsi sanno essere alleati formidabili. Per entrare in una nuova, promettente dinamica: la cultura dell’integrazione, "il rendere normale domani quel che ieri era impossibile".
* Renato Zilio è missionario scalabriniano, lavora in Marocco ed è autorie di "Dio attende alla frontiera" (ed. EMI)
Padre Stefano Camerlengo è superiore generale dei Missionari della Consolata da 12 anni e ha fatto parte della Direzione Generale da 18. In questi giorni si celebrerà il Capitolo Generale che, fra le altre cose, dovrebbe nominare il suo successore. Nelle prossime quattro settimane il sito ospiterà alcuni sui interventi nei quali ricorderà alcune tappe significative della sua storia e riflessioni sul suo lungo mandato. Parlando del futuro della comunità che ha accompagnato da anni ha sintetizzato il suo atteggiamento carico di speranza dicendo: “il meglio sta ancora per venite”.
In Repubblica democratica del Congo, o meglio in Zaire, come si chiamava allora, ho fatto la mia prima esperienza di missione, come diacono. Questo percorso è stato così positivo, e grande era il legame con la gente, che ho chiesto di essere ordinato sacerdote in mezzo a loro. La comunità nella quale avevo lavorato, mi aveva accettato come figlio: era la «mia nuova famiglia».
Dopo l’ordinazione, passai un periodo di missione in Italia, nell’animazione missionaria e nell’accoglienza dei migranti, per tornare poi finalmente in Congo.
Qui ho fatto diverse attività. Ho vissuto in foresta, condividendo la mia vocazione con la gente dei villaggi più sperduti. Ho prestato servizio nella formazione dei giovani missionari e, infine, sono stato responsabile del gruppo dei missionari che lavoravano a Kinshasa, la gigantesca e brulicante capitale.
L’esperienza in Congo è stata per me un grande dono di Dio. Ho vissuto momenti difficili per la situazione travagliata del paese. Ho sentito forte dentro di me il senso d’impotenza. La missione è anche questo: ti trovi a vivere situazioni nelle quali non hai potere su niente e devi condividere anche questa «inutilità». La missione è stata per me soprattutto «condivisione della debolezza». I pigmei dicono: «Lo scoiattolo è piccolo, però non è schiavo dell’elefante!». Questo per me è il Vangelo: la forza debole dei poveri.
Poi ci sono esperienze bellissime, autentiche gocce di speranza che ti permettono di andare avanti, anche quando il cammino si fa troppo complicato. Come durante la guerra in Congo, quando ho dovuto abbandonare la missione, scappare con altri abitanti del quartiere, perché ci hanno informato che stavano per bombardare la zona. È un esodo di tristezza, di abbandono, di pianto. Ho vissuto con la gente sulla strada per tre giorni, sfollati. Finiti i bombardamenti ero pronto a tornare a vedere cosa era successo alla missione. Mi alzai, e allora, come per incanto, anche la gente si mise in piedi e decide di rientrare con me. Il missionario come vero pastore che in nome di Gesù riunisce, indica il cammino, marcia con la sua gente, da forza. Una cordata di fraternità e speranza!
Queste esperienze di vita missionaria mi hanno marcato profondamente e me le porto dentro ancora oggi, in tutti i servizi che sono chiamato a svolgere. In particolare, posso riassumere tre idee-forza che non mi abbandonano mai.
1. Dobbiamo essere «degni» della missione, non dobbiamo aspettarci il ringraziamento della gente per la nostra presenza. Siamo noi che dobbiamo ringraziare perché ci accettano tra loro.
2. Nella missione è sempre di più quello che ricevi rispetto a quello che riesci a dare. Alla fine, ti trovi a essere sempre in debito, sia con la gente che con Dio Padre.
3. Se vuoi vivere e condividere la tua vita con gli ultimi e i poveri, devi accettarli per quello che sono e non come tu li vorresti; questo è l’inizio di ogni servizio e di ogni cambiamento.
Durante la prima guerra del Congo, novembre 1996 – maggio 1997, ero vice superiore regionale e direttore del nostro seminario filosofico a Kinshasa. Tenevo i contatti tra la Direzione generale a Roma e cercavo notizie sui nostri confratelli nell’Est del paese, dove i ribelli tutsi Banyamulenge, appoggiati da rwandesi e ugandesi, combattevano le truppe di Mobutu. Questi fu poi rovesciato da questi eserciti arrivati a Kinshasa nel maggio del 1997.
Le telefonate con Roma avevano tenori del tipo: «Le comunicazioni con i nostri missionari dell’Alto Zaire (Isiro, Doruma e Wamba) sono interrotte. I militari zairesi (l’esercito regolare di Mobutu), fuggendo dai ribelli Banyamulenge, saccheggiano quello che trovano sul loro passaggio. A Isiro per ora hanno confiscato le macchine, con la scusa di mantenere l’ordine nella zona.
È arrivato a Kinshasa il penultimo volo da Isiro con 180 persone a bordo. Con loro c’è anche il nostro fratel Angelo Bruno. Gli è stato consigliato di ritirarsi perché era continuamente sotto pressione. Essendo meccanico, infatti, i militari zairesi ricorrevano notte e giorno a lui per farsi aggiustare i mezzi. Era andato per qualche giorno nella missione di Neisu e ora si trova a Kinshasa, in attesa di rientrare in Italia. Il vescovo di Isiro, e i missionari, si sono organizzati per nascondersi nella foresta. Hanno identificato alcuni posti e vi stanno portando tutto ciò possa servire per la sopravvivenza.
A Kinshasa si è costituto un Consiglio dei religiosi, per valutare di giorno in giorno la situazione e prendere eventuali provvedimenti. Inoltre, io sono in permanente contatto con il Nunzio e con le autorità ecclesiali».
O ancora: « Le comunicazioni via radio con Neisu e Wamba sono interrotte. Le informazioni che si ricevono sono incerte, tuttavia siamo sicuri che la città di Isiro è stata saccheggiata dai militari di Mobutu. Tutte le case dei religiosi sono state depredate, inclusa la nostra casa regionale e il vescovado».
In quei frenetici giorni di dicembre 1996 e gennaio 1997, la guerra imperversava ad Est e temevamo per la sorte dei confratelli. Altri miei resoconti di quei giorni: «Dal 29 dicembre mi sono potuto mettere in comunicazione via radio con i nostri confratelli di Neisu. Hanno confermato il saccheggio della missione perpetrato durante la notte del 25 dicembre. Silvio Gullino e Rombaut Ngaba sono riusciti a scappare in foresta, dove si erano rifugiati gli altri dei nostri e le suore di Brentana.
Le comunicazioni con Wamba sono invece più difficili. I Comboniani di Kisangani fanno il ponte radio tra Kinshasa e Wamba. Sappiamo così che in nostri missionari sono rifugiati in foresta».
La Direzione generale era molto preoccupata anche per la situazione di Kinshasa, dove i ribelli sarebbero poi arrivati. In capitale eravamo in sette missionari e quindici seminaristi del seminario teologico, molti dei quali non zairesi. Io restavo in stretto contatto con le ambasciate per un eventuale piano di abbandono del paese.
I ribelli, appoggiati dagli eserciti rwandese e ugandese, arrivarono a Kinshasa a maggio. Deposero Mobutu, che aveva governato il paese per 27 anni. Al suo posto insediarono Laurent-Désiré Kabila, già guerrigliero in lotta contro il regime da molto tempo. Gli serviva avere un congolese come capo di stato, per nascondere l’occupazione straniera.
Kabila però cercò rapidamente di sbarazzarsi degli alleati stranieri, troppo scomodi, perché interessati alle enormi risorse minerarie del paese. Di qui il tentativo di colpo di stato e il tragico bagno di sangue del 2 agosto 1998.
Iniziò così la Seconda guerra del Congo (1998-2003), detta anche «Guerra mondiale africana», a causa del numero di eserciti e milizie coinvolte.
In quel periodo mi trovai a gestire situazioni che non avrei mai immaginato.
Ciò che mi spaventava in quei momenti era la rabbia della gente. La guerra trasforma le persone facendo emergere la loro parte peggiore. In quei giorni, se prendevano un ribelle (miliziano o soldato straniero, ugandese o rwandese), non c’era possibilità di salvezza per lui, lo bruciavano vivo: un copertone intorno al collo, un po’ di benzina e un fiammifero.
In queste situazioni di psicosi collettiva, dove si giunge addirittura a misurare il naso della gente per decidere se è un ribelle ugandese oppure no, si perde il senso dell’umanità, e non c’è più niente che possa trattenere dall’assassinare il conoscente, il vicino, l’amico, anche per un minimo sospetto.
Nell’agosto del 1998 i ribelli erano arrivati in città per conquistarla. Noi siamo rimasti per quasi una settimana alla mercé di tremila soldati nemici, che avevano invaso la nostra collina (sulla quale si trovava il seminario e altre case di congregazioni). I militari regolari di Laurent-Désiré Kabila, visto il numero degli invasori, erano fuggiti a fondovalle, e laggiù avevano organizzato la difesa della città. Hanno continuato a sparare per tre giorni senza sosta e noi eravamo tutti chiusi in casa.
Gli ugandesi avevano bisogno di mangiare e qualcuno era ferito, così hanno iniziato a visitare i conventi e le fattorie. Sono venuti anche da noi, ci hanno detto di stare tranquilli, che ce l’avevano solo con Kabila. Parlavano swahili e anche io me cavo con questa lingua: grazie a Dio, altrimenti sarei morto!
La gente del quartiere era terrorizzata e nessuno sapeva cosa fare, allora abbiamo cominciato ad accoglierla, per rimanere un po’ uniti. C’erano sbandati e molti bambini soli perché i papà erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati. Avevano fame, e abbiamo organizzato un’accoglienza e preparato del riso e altro cibo che rimaneva nelle scorte del seminario. Era poco quello che avevamo, e lo abbiamo condiviso con la gente.
Dopo tre giorni, è arrivata la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato la nostra zona, allora la gente ha cominciato a fuggire all’impazzata verso il fondovalle.
Il tutto è avvenuto in maniera precipitosa, senza avere la possibilità di pianificare niente. Ho preso uno zainetto con quattro documenti dentro e niente altro, né cibo, né biancheria e siamo andati con la gente. C’era una fiumana di persone che scendeva la collina, ciascuno si tirava dietro i bambini, una pentola, due stracci… altro che esodo!
Dovevamo attraversare i posti di blocco militari e ogni volta mi hanno minacciato e molestato più degli altri. Poi non so cosa sia successo, ma mi sono ritrovato in ginocchio sulla strada con un mitra puntato alla testa. Ce l’avevano coi i bianchi (i soldati regolari): «Voi preti avete aperto le chiese, avete accolto i ribelli ...». In effetti erano entrati anche nelle nostre chiese, ma quando ti trovi tremila soldati armati, cosa fai? A quel punto rimasi muto d’incredulità, di stordimento, di paura. E poi mi è entrata una grande pace. Non so quanto sono rimasto in quella posizione, un minuto o un’eternità. So solo che quando ho riaperto gli occhi non ho visto più nessuno e allora ho rincorso la gente e ho continuato il mio esodo, sentendomi… risorto!
Tre giorni dopo, era domenica, quando il bombardamento è cessato, c’è stato un momento molto toccante. La gente mi si avvicinava per dirmi: «Grazie padre, perché sei rimasto con noi» e tante altre parole di amicizia e solidarietà. E poi i confratelli che mi cercavano, insomma è stato bellissimo reincontrarci.
Lunedì mattina, ho preso il coraggio a due mani e ho deciso di tornare alla casa. Mi sono messo in cammino con i tre seminaristi e alcuni amici e, come per miracolo, la gente in massa si è accodata camminando dietro di noi. Più salivamo la collina e più la processione si ingrossava. Se il venerdì la nostra era stata una discesa drammatica, il lunedì è stato un rientro glorioso, pieno di speranza.
Non è facile oggi, nel mondo attuale, guidare un istituto internazionale come il nostro. Saper leggere il segno dei tempi a livello mondiale ed essere profetici per il futuro. Più che certezze, in effetti, mi porto dietro dei desideri.
1. Che tutto sia fatto in nome della missione, in altre parole, che si possa mettere la missione sempre e comunque al primo posto.
2. Che ogni decisione, anche se dolorosa, sia presa nel rispetto delle persone, sia dei missionari, sia della gente locale.
3. Che coloro che camminano con più fatica siano i nostri «preferiti».
4. Che si impari a essere più positivi che negativi, sempre e comunque portatori di speranza in mezzo a tanta disperazione.
Il ruolo del missionario oggi è cambiato, perché la società, la chiesa, il mondo sono cambiati e stanno vivendo un profondo processo di trasformazione.
Il missionario deve essere un «ponte» tra le culture e, soprattutto, tra chiesa e società in mutazione. Una società con la quale la nostra azione deve confrontarsi, che non deve essere vista come la «bestia» da combattere, ma come realtà da capire e luogo «dello spirito», dove Dio parla ancora a uomini e donne.
Un altro servizio che vedo per il missionario oggi è quello di richiamare l’attenzione sulla presenza, spesso volutamente dimenticata, di coloro che rimangono ai margini della società e, talvolta, anche della nostra chiesa. Il missionario deve mantenere viva l’attenzione all’altro.
Infine, un aspetto che mi sembra importante per il missionario moderno è il suo impegno a proporre cammini di speranza, lavorando in rete con tutti quelli che cercano di costruire un mondo migliore.
Grazie per la pazienza nel leggermi, grazie per il dono grande della missione e della gente. Mi auguro che con questo scritto possa aiutare a guardare all’altro come un fratello, una sorella, in cammino con me, con te sulle strade della vita!
A tutti e ad ognuno: coraggio e avanti in Domino!
Padre Stefano in occasione della inaugurazione del Polo Culturale Cultures and Mission di Torino. Foto Marco Bello
I Missionari della Consolata hanno iniziato a Roma il XIV Capitolo Generale. L'incontro si svolge dal 22 maggio al 25 giugno con la partecipazione della Direzione Generale, i Superiori e i Delegati delle tredici circoscrizioni di Africa, Asia, America ed Europa. Il tema centrale dell'incontro è: "Mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra" (At 1,8) come consacrati per la missione ad gentes.
Il Superiore Generale, Padre Stefano Camerlengo, inaugurando il capitolo, ha detto rivolgendosi ai capitolari: “questo è un momento profetico e visionario per affrontare le sfide del mondo di oggi, dove insieme possiamo essere più fedeli al nostro carisma, segnando il nostro comune impegno per la missione ad gentes”. Padre Stefano ha invitato tutti a lasciarsi “guidare dallo Spirito del Risorto”, simboleggiato dalla luce del cero pasquale, che illumina il cammino dei discepoli missionari per essere “una Chiesa in uscita”.
Al XIV Capitolo Generale partecipano 41 missionari: 24 africani, 9 europei, 6 latinoamericani e 2 asiatici, in rappresentanza di 13 circoscrizioni. La diversità della provenienza dei partecipanti a questo Capitolo mostra il volto multiculturale dell’Istituto con le sue relative dinamiche interculturali. I rappresentanti hanno diversi volti e storie, ma tutti sono identificati con il Carisma lasciatoci dal Fondatore, il b. Giuseppe Allamano:"consacrati per la missione ad gentes per tutta la vita". Questo è un segno di speranza.
Il cammino di preparazione al XIV Capitolo Generale ha seguito un percorso ispirato alla pratica della sinodalità. È iniziato più di un anno fa con il documento preparatorio inviato a tutti i missionari e alle comunità. L'ispirazione biblica tratta dal libro dell'Apocalisse ci ha invitato ad ascoltare "ciò che lo Spirito dice oggi all'Istituto". Con le risposte e i contributi la Commissione precapitolare e la Direzione generale hanno preparato il documento dei Lineamenta che ha sviluppato due nuclei tematici: a) Identità e Carisma: bere alla propria fonte; b) Missione: un Istituto in uscita.
Con i contributi dello studio dei Lineamenta, è stato preparato l'Instrumentum Laboris per il XIV Capitolo Generale. I temi principali sono: il missionario nella comunità (identità e carisma); un Istituto in uscita (la nostra missione ad gentes); organizzazione ed economia per la missione.
Celebrato ogni sei anni, il Capitolo Generale è un momento di grazia in cui l’Istituto si ferma a riflettere sulla vita e sulla missione ad gentes. Oltre all'elezione del Superiore Generale e del suo Consiglio, è l'occasione anche per valutare il cammino percorso, prendere decisioni sull'organizzazione e proiettare il futuro con creatività e rinnovato slancio missionario.
Coi suoi 122 anni di storia, l'Istituto dei Missionari della Consolata è oggi una Congregazione multiculturale e internazionale che conta 906 missionari provenienti da 30 paesi, che vivono in 231 comunità in 29 paesi in Africa, America, Asia ed Europa.
«Diamo le ali ai missionari» è la parola d'ordine di don Paolo Gariglio, oggi 93enne, e dei suoi amici. Lui ci racconta la nascita della sua peculiare vocazione all’aviazione: “avevo 12 anni e un amico del “Gino Lisa”, l’Aero Club torinese, mi fece sedere sul traliccio dell'aliantino, un trabiccolo trainato da una vecchia Balilla: si elevava a 15 metri e planava in 30 secondi. Io ero un passeggero clandestino ma fu il giorno della mia maxi-felicità: avevo provato il volo. Volevo andare oltre le nubi, con in mano la cloche di un aeroplano vero”.
Don Paolo Gariglio, nel libro «Missionari con le ali» (Effatà, 2015) racconta la straordinaria avventura. Un volumetto dedicato a padre Aurelio Cannizzaro, missionario in Polinesia, «mio primo allievo pilota nel 1958-60 e poi capo della squadriglia dei piloti missionari Saveriani».
Nel 1958 nasceva il Centro internazionale di Aviazione e motorizzazione missionaria (Ciamm) con due scopi: formare al volo i missionari e le missionarie e aiutarli a procurarsi i vettori. L'Aero Club si schiera subito per avviare la Scuola di volo e accolse i primi preti mentre ci si rivolgeva alla Fiat e all'Aero Club d'Italia per reperire i primi finanziamenti. «Ottenni dalla diocesi l'uso di una parte del Seminario di via XX Settembre per ospitare gli allievi. Gli istruttori Ferruccio Vignoli e Mario Allesi accolsero le prime allieve che furono suore missionarie». Il 23 aprile 1961 il Ciamm è riconosciuto come personalità giuridica. «I primi missionari brevettati piloti e “pilotesse”, raggiunte le missioni, iniziarono l’apostolato con in mano una forza in più: saper volare sopra lande senza fine».
Gli artefici di questo progetto sono due: don Paolo Gariglio, allora viceparroco al Lingotto, e il generale dell’Aviazione militare Francesco Brach Papa. Don Paolo ha la passione per le due ali e nelle ore libere sfreccia nel cielo di Torino su un aereo da turismo con la scritta «Ronzino» sulla fusoliera. Loro due realizzano l’iniziativa pioneristica di dare le ali ai missionari. Il generale è entusiasta e, per finanziarla, scrive ai piloti d’Italia e agli appassionati di volo: «Basta gettare uno sguardo sul mappamondo per scoprire numerose e sterminate regioni. Se venissero costellate da una serie di piccole basi aeree, sarebbero facilmente coperte da una fitta maglia di veloci e tempestive rotte di missionari volanti».
Le prime allieve sono quattro suore Luigine di Alba: con il velo e l’abito nero lungo seguono con attenzione le lezioni e apprendono velocemente la navigazione aerea. Una di loro dopo il primo volo dichiara: «È più facile che guidare l’auto!». Alla fine del primo corso 21 missionari ottengono il brevetto di volo. Alcuni fanno lezione in Svizzera per allenarsi su velivoli Piper attrezzati con sci, per imparare ad atterrare su campi innevati, corti e accidentati. Durante una cerimonia –con il sindaco Amedeo Peyron e l’avvocato Gianni Agnelli– il cardinale arcivescovo Maurilio Fossati appunta sulle talari l’aquila d’oro. Due delle quattro suore partono per il Bangladesh, un viaggio avventuroso di parecchie settimane a bordo di una nave cargo. Una dichiarerà: «L’aereo ci servì per attraversare il Gange che nel tempo delle piogge, con i suoi rigagnoli, si allargava per 40 chilometri». Il seme rimase attivo e costituì un prezioso servizio per l'evangelizzazione.
Peccato che l'avventura del Ciamm dura solo pochi anni a causa dell’improvvida decisione di trasferirlo a Roma, nell'illusione che la capitale della cristianità favorisse il Centro. Non è così: senza la spinta e l’entusiasmo degli ideatori, l’iniziativa finisce per arenarsi.
L’Aviazione missionaria, comunque, prolifera in diverse regioni. I primi missionari-piloti della scuola torinese costruiscono decine di piccole piste in Africa, Amazzonia e Polinesia e istruiscono altri missionari che piloteranno aerei e idrovolanti. Tra coloro che hanno ottenuto il brevetto c’è il saveriano Siro Brunello: in Amazzonia nel 1964 trova missionari che operano con grande difficoltà: per spostarsi da un villaggio all’altro devono percorrere lunghi sentieri fangosi nella foresta e in canoa lungo i fiumi. La situazione cambia grazie al prete pilota. I missionari riescono a ottenere un «Piper» dall’Aero Club di Paranà, aereo piccolo, due posti stretti, il motore parte facendo roteare a mano l’elica ma svolge egregiamente la sua funzione. Racconta padre Siro: «Tra venti, piogge e la modesta potenza del motore del velivolo abbiamo vissuto qualche avventura».
*Articolo pubblicato in "La voce e il tempo", settimanale della diocesi di Torino.