“Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede!” (1 Cor 15)
“Apparendo agli Apostoli, dopo la risurrezione, Gesù diede loro il saluto della pace. Gran cosa la pace! Bisogna quindi che ci sia la pace con Dio, compiendo la sua volontà; con noi stessi, evitando le distrazioni, regolando le passioni e liberandoci dai desideri inutili; e con il prossimo, soprattutto accettandone i limiti e trattando tutti bene. La pace può stare anche con il sacrificio e con la tribolazione, mentre non può stare con il peccato. Chiedetela a nostro Signore, che è il Principe della pace.” Beato Giuseppe Allamano
“Dunque, il grido che caratterizza la Pasqua cristiana, l'annuncio «Cristo è risorto» (quello che i nostri fratelli ortodossi si scambiano come augurio nel tempo di Pasqua, rispondendo «Cristo è veramente risorto»), è anche l'ultima parola sulla storia impietosa del cosmo e su tutte le tragiche vicende imposte dalla crudeltà dell'uomo. Allora anche le catastrofi naturali ci spingono a far sì che la violenza che è nel cuore dell'uomo sia vinta da un senso più forte di compassione e di pietà.” Carlo Maria Martini
Carissimi Missionari, Missionarie, Laici e Laiche missionarie, Familiari, Benefattori, Amici e fratelli e sorelle tutti, con profonda emozione vi scrivo per dirvi che non c’è mattino più dolce del mattino di Pasqua, fatto di un’alba a lungo attesa, di una corsa trafelata, di un sepolcro vuoto, di un annuncio sconvolgente che passa di bocca in bocca e, prima ancora, di cuore in cuore: Cristo è risorto, è veramente risorto!
Quel sogno che l’uomo da sempre ha cullato e mai potuto realizzare è diventato realtà: la morte è stata sconfitta grazie al sacrificio dell’unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo, nel quale anche noi per grazia siamo diventati figli di Dio. La morte è stata vinta in Gesù e aspetta di essere vinta in ciascuno dei suoi fratelli e delle sue sorelle.
Con il cuore grondante di gioia desidero chiedere al Signore per ciascuno di noi la grazia di entrare in questo mistero di luce o nella luce di questo mistero, accogliendo nella nostra vita l’annuncio della Pasqua e facendone il cardine della nostra testimonianza tra le case degli uomini, in mezzo alle opere e ai giorni della nostra gente, spesso così affaccendata ma pur sempre alla ricerca di Luce nella notte che turba l’esistenza.
Che questa Pasqua ci aiuti ad essere testimoni instancabili della prossimità di Dio Padre verso i suoi figli più poveri, e che le nostre comunità e il nostro Istituto diventino autentica accoglienza in cui nella ferialità della vita si fa esperienza di speranza e di condivisione, promuovendo e animando concreti segni di carità evangelica. Vorrei che il nostro Istituto vivesse e agisse a partire dalla risurrezione di Cristo.
A tal proposito, desidero far mie alcune espressioni di un autore a me molto caro: «A partire dalla risurrezione di Cristo può spirare un vento nuovo e purificante per il mondo d’oggi. Se due uomini credessero realmente a ciò e, nel loro agire sulla terra, si facessero muovere da questa fede, molte cose cambierebbero. Vivere a partire dalla risurrezione: questo significa Pasqua» (D. Bonhoeffer, A E. Bethge 27 marzo 1944).
Con questi sentimenti di profondo affetto e amore per ciascuno di voi, auguro a tutti di vivere la gioia sconvolgente della Pasqua. Il Crocifisso risorto continui a sedurre i nostri cuori perché possiamo continuare a spendere la nostra vita nel mondo e nella Chiesa nella misura del dono totale di sé.
Buona e Santa Pasqua a tutti! A tutti e a ciascuno: coraggio e avanti in Domino!
* Stefano Carmerlengo è Superiore Generale
Cari fratelli e sorelle!
Queste parole appartengono all’ultimo colloquio di Gesù Risorto con i suoi discepoli, prima di ascendere al Cielo, come descritto negli Atti degli Apostoli: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (1,8). E questo è anche il tema della Giornata Missionaria Mondiale 2022, che come sempre ci aiuta a vivere il fatto che la Chiesa è per sua natura missionaria.
Fermiamoci su queste tre espressioni-chiave che riassumono i tre fondamenti della vita e della missione dei discepoli: «Mi sarete testimoni», «fino ai confini della terra» e «riceverete la forza dallo Spirito Santo».
È il punto centrale, il cuore dell’insegnamento di Gesù ai discepoli in vista della loro missione nel mondo. Tutti i discepoli saranno testimoni di Gesù grazie allo Spirito Santo che riceveranno: saranno costituiti tali per grazia. Ovunque vadano, dovunque siano. L'identità della Chiesa è evangelizzare.
La forma plurale sottolinea il carattere comunitario-ecclesiale della chiamata missionaria dei discepoli. Ogni battezzato è chiamato alla missione nella Chiesa e su mandato della Chiesa: la missione perciò si fa insieme, non individualmente, in comunione con la comunità ecclesiale e non per propria iniziativa. Non a caso il Signore Gesù ha mandato i suoi discepoli in missione a due a due; la testimonianza dei cristiani a Cristo ha un carattere soprattutto comunitario. Da qui l’importanza essenziale della presenza di una comunità, anche piccola, nel portare avanti la missione.
Ai discepoli è chiesto di vivere la loro vita personale in chiave di missione: sono inviati da Gesù al mondo non solo per fare la missione, ma anche e soprattutto per vivere la missione a loro affidata; non solo per dare testimonianza, ma anche e soprattutto per essere testimoni di Cristo. I missionari di Cristo non sono inviati a comunicare sé stessi, a mostrare le loro qualità e capacità persuasive o le loro doti manageriali. Hanno, invece l'altissimo onore di offrire Cristo, in parole e azioni, annunciando a tutti la Buona Notizia della sua salvezza con gioia e franchezza, come i primi apostoli.
Perciò il vero testimone è il “martire”, colui che dà la vita per Cristo, ricambiando il dono che Lui ci ha fatto di Sé stesso. «La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più» (Evangelii gaudium, 264).
Infine, a proposito della testimonianza cristiana, rimane sempre valida l’osservazione di San Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii nuntiandi, 41). Perciò è fondamentale, per la trasmissione della fede, la testimonianza di vita evangelica dei cristiani.
Nell'evangelizzazione, perciò, l'esempio di vita cristiana e l'annuncio di Cristo vanno insieme. L'uno serve all'altro. Sono i due polmoni con cui deve respirare ogni comunità per essere missionaria. Esorto pertanto tutti a riprendere il coraggio, la franchezza, quella parresia dei primi cristiani, per testimoniare Cristo con parole e opere, in ogni ambiente di vita.
Esortando i discepoli a essere i suoi testimoni, il Signore risorto annuncia dove essi sono inviati: «A Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Emerge ben chiaro qui il carattere universale della missione dei discepoli. Si mette in risalto il movimento geografico "centrifugo", quasi a cerchi concentrici, da Gerusalemme, considerata dalla tradizione giudaica come centro del mondo, alla Giudea e alla Samaria, e fino "all'estremità della terra". Esso ci dà una bellissima immagine della Chiesa "in uscita" per compiere la sua vocazione di testimoniare Cristo Signore, orientata dalla Provvidenza divina mediante le concrete circostanze della vita.
L’indicazione “fino ai confini della terra” dovrà interrogare i discepoli di Gesù di ogni tempo e li dovrà spingere sempre ad andare oltre i luoghi consueti per portare la testimonianza di Lui. Malgrado tutte le agevolazioni dovute ai progressi della modernità, esistono ancora oggi zone geografiche in cui non sono ancora arrivati i missionari testimoni di Cristo con la Buona Notizia del suo amore. D’altra parte, non ci sarà nessuna realtà umana estranea all’attenzione dei discepoli di Cristo nella loro missione. La Chiesa di Cristo era, è e sarà sempre “in uscita” verso i nuovi orizzonti geografici, sociali, esistenziali, verso i luoghi e le situazioni umane “di confine”, per rendere testimonianza di Cristo e del suo amore a tutti gli uomini e le donne di ogni popolo, cultura, stato sociale.
Annunciando ai discepoli la loro missione di essere suoi testimoni, Cristo risorto ha promesso anche la grazia per una così grande responsabilità: «Riceverete la forza dello Spirito Santo e di me sarete testimoni» (At 1,8).
(Il giorno di pentecoste comincia) l'era dell'evangelizzazione del mondo da parte dei discepoli di Gesù, che erano prima deboli, paurosi, chiusi. Lo Spirito Santo li ha fortificati, ha dato loro coraggio e sapienza per testimoniare Cristo davanti a tutti.
Come «nessuno può dire: "Gesù è Signore", se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3), così nessun cristiano potrà dare testimonianza piena e genuina di Cristo Signore senza l'ispirazione e l'aiuto dello Spirito. Perciò ogni discepolo missionario di Cristo è chiamato a riconoscere l'importanza fondamentale dell'agire dello Spirito, a vivere con Lui nel quotidiano e a ricevere costantemente forza e ispirazione da Lui.
Cari fratelli e sorelle, continuo a sognare la Chiesa tutta missionaria e una nuova stagione dell’azione missionaria delle comunità cristiane. E ripeto l’auspicio di Mosè per il popolo di Dio in cammino: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!» (Nm 11,29). Sì, fossimo tutti noi nella Chiesa ciò che già siamo in virtù del battesimo: profeti, testimoni, missionari del Signore! Con la forza dello Spirito Santo e fino agli estremi confini della terra. Maria, Regina delle missioni, prega per noi!
Alcune riflessioni di Mons. Roberto Repole, l’arcivescovo di Torino e teologo, in dialogo con la biblista Rosanna Virgili nel Festival della Missione di Milano, a proposito del tema della fraternità.
Per troppo tempo noi abbiamo creduto che dei paesi cristiani portassero il vangelo a dei paesi non cristiani, quasi che i primi non avessero bisogno del vangelo e il bisogno ce l'avessero solo gli altri.
Noi dobbiamo andare più in profondità: non solo abbiamo a volte portato il vangelo con uno stile violento, per cui alla fine non abbiamo portato il vangelo, ma ci siamo anche illusi che il vangelo riguardasse solo degli altri come se i recettori della missione fossero altri e non più noi. Qui c'è una provocazione molto seria. In che misura possiamo dire di essere veramente evangelizzati e soprattutto possiamo pensare che l'evangelizzazione sia qualcosa di statico, avvenuto una volta e poi non avremmo più bisogno di evangelizzazione e neppure di conversione.
Ricordo il teologo Ives Congar che, nei lavori conciliari, disse qualcosa di molto vero: "c'è sempre una parte di noi non evangelizzata". Forse oggi dovremmo prendere confidenza con il fatto che l'europa cristiana non lo è più nemmeno numericamente. Milano e Torino... sono città di missione. Occorre ritornare ad offrire l'annuncio evangelico. Illudersi che viviamo in un contesto cristianizzato è precisamente questo: un'illusione.
Come cristiani abbiamo una certa difficoltà ad abitare lo spazio pubblico con la piena fiducia nel vangelo. È più facile vedere la nostra presenza pubblica spesso mettendo tra parentesi alcune delle cose fondamentali che ci identificano; invece la grande sfida è la capacità di fare del vangelo anche una proposta per la vita e le nostre relazioni nel mondo civile.
Un filosofo francese, Marcel Gauchet, in un suo libro fa una interessante osservazione e dice che “le democrazie nascono come esito ultimo del processo di secolarizzazione dove si mette tra parentesi l’assoluto e il sacro e le società si costituiscono sulla base del consenso degli aderenti. Ma il loro paradosso è che nascono facendo fuori i valori assoluti ma senza qualcosa di sacro sembrano non sapere vivere”.
Per questo penso che non dobbiamo avere paura a portare nella vita civile i nostri valori e fare si che le comunità cristiane concorrano al buon funzionamento del sistema democratico che si basa sulla conoscenza delle identità paritaria degli uomini e delle donne. Ma come farlo?
Qui arriviamo a un punto particolarmente impegnativo precisamente perché abbiamo fatto fatica come chiesa ad abitare il contesto democratico e corriamo il pericolo di dire che lo facciamo solo offrendo valori condivisi da tutti. Ma noi abitiamo lo spazio pubblico semplicemente perché vogliamo essere alfieri di alcuni valori condivisi da tutti a prescindere del vangelo o perché crediamo che nel vangelo, che non viene da noi, ci sono dei valori che riteniamo umanizzanti per noi e anche per gli altri?
E quali sono i valori che vogliamo offrire? Sono soltanto il valore della vita o di una morte che non ci appartiene? ma la misericordia per esempio può essere negoziabile per noi cristiani? Io penso di no, se no togliamo qualcosa di fondamentale per il vangelo. Lo stesso, la possibilità di essere ricreati con il perdono? Può essere negoziabile?
La sfida che abbiamo è quella di portare delle ragioni che mostrino la forza umanizzante del vangelo e dei valori che lo compongono. Offrire ad altri che non si identificano con la fede cristiana la possibilità di riconoscere che questo fa bene all'umanità di tutti, credenti e non credenti.
Evidentemente offrire ragioni non può essere solo un fatto intelletualistico, per questo il valore della fraternità deve essere prima vissuta fra di noi. Se il perdono reciproco e la misericordia hanno senso nel nostro vivere comunitario... solo così abbiamo qualcosa da proporre per la vita comunitaria e democratica.
Probabilmente la risposta ce la da il cammino di sinodalità e di fraternità che ci propone Papa Francesco: se sappiamo prenderci cura uno dell'altro senza rivendicazioni, potremmo essere un piccolo segno nelle nostre società per costruire una fraternità più grande e una democrazia che faccia crescere la società con dinamismi più fraterni... potrebbe essere un apporto bello della chiesa alla società civile.
C’è un’immagine che appartiene ai padri della chiesa che mi sembra molto bella: “la chiesa è come quella tunica di Gesú crocefisso che non è tagliata ma è fatta di tantissimi colori: quelli di una umanità variata ma condivisa”. Quando la domenica andiamo a messa nel credo la prima cosa che professiamo della chiesa è la sua unità che non si rompe anche se è composta da uomini e donne provenienti da mondi e culture spesso molto diverse. Essere credenti e pensare di non avere a che fare con il mussulmano, con il diversamente credente, con l'ateo è non aver assimilato il DNA del cristianesimo e quando ci sono cristiani che pensano di difendere la loro identità tagliando ponti e non aprendosi al dialogo credo che abbiamo a che fare con cristiani con una identità molto debole.
Evidentemente la fraternità non è facile: vivere insieme ad altri ha la sua fatica. Per quello è bene ricordare che la fraternità è un dono, è un sogno ma anche un compito faticoso. Alla fine la sfida di una fraternità reale e appassionata è un cammino concreto di evangelizzazione e anche lo spazio giusto che, come cristiani, possiamo occupare in questo mondo per farlo crescere in umanità.
* Roberto Repole è vescovo di Torino e Susa
Nel video tutti i contenuti dell'intervista