Infiammato dal suo zelo apostolico e avendo compreso la missione della Chiesa, San Giuseppe Allamano si interessò al mondo intero. Sentì l'urgenza di portare il Vangelo fino ai confini della terra. Nella sua osservazione, c'erano così tante organizzazioni sponsorizzate dalla Chiesa che si dedicavano alla carità, ma nessuna era dedicata alla missione.

Per porre rimedio alla situazione, dopo una lunga preparazione spirituale accompagnata da ostacoli e sfide, il 29 gennaio 1901 fondò la congregazione dei Missionari della Consolata per padri e fratelli.

Nella formazione iniziale, il Fondatore aveva previsto che, mentre i padri si sarebbero fatti carico del lavoro pastorale, i fratelli sarebbero stati responsabili nella creazione di strutture al servizio della missione. Coadiutori della missione. Il lavoro fatto dai fratelli, fino ad oggi, parla dell’importanza dei fratelli nella missione.

Fratel Vincenzo Clerici

20241210Vincenzo1Durante il ritiro annuale dei missionari della Consolata a Modjo, ho avuto modo di interagire con Fratel Vincenzo Clerici, che ha 84 anni, e che è l'unico Fratello della Consolata rimasto in Etiopia. Era mia intenzione cercare di capire la sua storia come fratello nella Consolata.

Nato in Italia nel 1940, Fratel Vincenzo ha conseguito la laurea in fisica presso l’università di Torino, ed in seguito ha lavorato come insegnante in un istituto tecnico.

Fratel Vincenzo confessa che il cammino che lo ha portato ad essere fratello della Consolata è stato in un certo senso speciale. All'inizio si recò in missione in Kenya come giovane laico. Il termine volontario non era in uso allora. I giovani dall'Italia si trasferivano nei paesi del terzo mondo (come venivano chiamati allora) per fare un'esperienza lì. La sua prima esperienza missionaria è stata con i missionari della Consolata.

Tornato in Italia, fece parte di un gruppo di quattro giovani che ogni mese andavano alla Casa Madre dei missionari della Consolata. Lì, erano accompagnati da Padre Giuseppe Caffaratto che fungeva da loro animatore. Arrivò il momento che i suoi amici furono inviati in Amazzonia (Brasile), e invece lui fu mandato in Kenya.

Quando arrivò in Kenya, ci fu quello che lui definì un "Boom" delle scuole. Padre Giovanni De Marchi che era già in Kenya lo incoraggiò a imparare l'inglese. Quindi dovette recarsi in Inghilterra, dove trovò un lavoro per sostenersi e vi rimase per un anno mentre seguiva il suo corso di Inglese. Tornato in Kenya dopo il corso, fu inviato alla missione di Mugoiri vicino a Murang'a, dove lavorò come insegnante nella scuola secondaria di Mugoiri.

Da giovane laico, dovette sostenersi economicamente da solo. Fu così che padre Cesare Facchinello, responsabile della missione Mugoiri, fece in modo che la scuola gli pagasse uno stipendio. La metà andava alla missione per il suo vitto e alloggio, e l’altra metà per le sue necessità personali. In seguito fu trasferito a Sagana dove incontrò cinque fratelli della Consolata tra cui Fratel Sandro e Fratel Adriano. Vivere con questi fratelli a Sagana, fare lo stesso lavoro, gli stessi orari, condividere le loro esperienze di vita insieme lo aiutò a fare il passo decisivo di diventare fratello religioso.

In seguito alla sua decisione, fu ammesso al Postulato a Sagana e poi inviato alla Certosa di Pesio per il suo Noviziato dall’allora superiore generale Padre Giuseppe Inverardi. Qui, si unì al gruppo di altri novizi, lui l'unico fratello. Dopo il suo noviziato, fu rimandato a Sagana come Fratello della Consolata.

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Fratel Vincenzo con il gruppo dei Missionari della Consolata in Etiopia. Foto: Edgar Nyangiya

Dopo la sua prima esperienza come fratello a Sagana, Fratel Vincenzo fu destinato all'Etiopia dove lavorò per sette anni prima di essere richiamato a Langata in Kenya, una comunità di fratelli dove lavorò come formatore. Dopo due anni fu inviato nuovamente in Etiopia. Da allora, ha sempre vissuto e lavorato in Etiopia come fratello.

I suoi primi anni di vita come Fratello

Fr. Vincenzo ricorda che i fratelli all’inizio si impegnavano nell'apprendere  nuove conoscenze tecniche. Camminavano assieme e si aiutavano a vicenda.  Si applicavano con passione ai compiti assegnati, sia che si trattasse di falegnameria, muratura, meccanica e altro. Ricorda come Fratel Mario Bernardi ebbe una grande influenza su di lui. Fratel Mario nonostante il suo impegno nella falegnameria, trovava tempo anche per le attività  pastorali. Secondo lui, Fratel Mario è stato determinante nella vita dei fratelli in Kenya, con il suo continuo incoraggiamento.

In Etiopia, i fratelli lavoravano con passione nelle missioni e nelle scuole tecniche. Ad esempio, ricorda la scuola tecnica di Meki dove era stato assegnato. Oltre a insegnare, si assicurava che le forniture (materiali per la falegnameria, la lavorazione dei metalli, ecc.) fossero sempre disponibili. Ricorda di aver lavorato con Padre Michele Brizio (di buona memoria) che era il direttore e lui era il suo vice. In seguito, la scuola tecnica fu consegnata alla prefettura locale.

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In quel tempo i fratelli erano spinti dalla passione per la missione e dall'amore per il lavoro che stavano svolgendo. Non solo utilizzavano le loro conoscenze e competenze tecniche, ma si impegnavano anche nel lavoro pastorale. Ha ancora bei ricordi di quando fu inviato nella missione di Gambo, quando andava a visitare le famiglie cristiane e i lebbrosi della missione, pregando con loro e dando loro conforto.

Diminuzione del numero di fratelli IMC

Ho chiesto la sua opinione sul motivo della diminuzione dei fratelli IMC. All’inizio sembrava immerso nei suoi pensieri, poi ha sottolineato come la maggior parte dei fratelli è in età avanzata e in tanti sono morti, e d'altra parte che sono pochi coloro che aspirano a diventare fratelli.

Ha inoltre osservato come la società ha contribuito notevolmente alla diminuzione di questa vocazione, nel senso che, ciò che i fratelli facevano come specialisti qualificati, ora ci sono molte persone che sono qualificate nello stesso campo. Ma non ritiene che questa sia la vera ragione. Ha tristemente osservato come alcuni fratelli ritengono che i sacerdoti siano contrari alla vocazione di fratello, e che alcuni sacerdoti incoraggeranno i giovani a farsi sacerdoti piuttosto che incoraggiarli alla vocazione ad essere fratello.

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I partecipanti al corso G50 presso la casa del Fondatore a Castelnuovo don Bosco. Foto: Orlando Hoyos

Il suo incoraggiamento

Fratel Vincenzo è fermamente convinto che la vocazione alla fratellanza sia ancora molto buona e nobile, che serve molte persone nella società in moltissimi campi diversi. Tuttavia, a causa delle competenze e della professionalità coinvolte in questa vocazione, scoraggia l'aspetto dei giovani che preferiscono il denaro al servizio che offrono all'umanità. Questa avidità di denaro e posizioni ha reso il mondo simile a un gioco di combattimento per la sopravvivenza.

Per avere più vocazioni, egli consiglia che noi come famiglia della Consolata (fratelli, sacerdoti, suore e missionari laici) dovremmo incoraggiare e motivare i giovani in formazione. Si dovrebbe propagandare di più questa vocazione ad essere fratello e mostrare ai giovani che questa vocazione è ancora rilevante nella Chiesa, così facendo da rendere apprezzabile questa  vocazione ai giovani in formazione.

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Fratel Vincenzo ha sottolineato come tutti i professi dovrebbero riconoscere e apprezzare la bellezza della vita comunitaria e della fratellanza propria della vocazione a fratello. Con le sue parole conferma che "certamente la vocazione a fratello non ti rende ricco, ma ci sono più vantaggi e gioia nell'essere un fratello rispetto ai pochi svantaggi che accompagnano questa vocazione".

Fratel Vincenzo ha concluso dicendo che, nonostante la sua età, si sente ancora più realizzato e felice come fratello religioso e non ha rimpianti nel continuare a seguire questa vocazione. Se potesse tornare giovane e avere la possibilità di scegliere, sceglierebbe ancora di essere un fratello religioso della Consolata.

Attualmente, il fratello lavora nella missione di Modjo assieme altri membri della comunità.

* Padre Edgar Nyangiya, IMC, missionario in Etiopia.

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 Chiesa nella missione di Modjo in Etiopia

Un sì per sempre. Sei giovani missionari della Consolata, provenienti dal Kenya, Uganda e Colombia, si apprestano a vivere due momenti fondamentali del loro cammino vocazionale. Il 6 dicembre 2024, nella chiesa di Corpus Domini a Porta Pia, emetteranno i voti perpetui, consacrando per sempre la loro vita a Dio e alla missione.

Il giorno successivo, il 7 dicembre, saranno ordinati diaconi da Monsignor Ignazio Sanna durante una celebrazione che si terrà alle ore 10:30 presso la parrocchia Natività di Maria a Roma-Bravetta. Saranno giornate di grande gioia e significato per la famiglia dei Missionari della Consolata e per l’intera Chiesa. 

I voti perpetui rappresentano uno dei momenti più solenni e significativi nella vita di un missionario. Questi sei giovani consacreranno la loro vita a Dio, abbracciando con totale dedizione i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. In particolare, nella famiglia dei Missionari della Consolata, i voti perpetui sono un atto di amore e di fiducia, un sì definitivo alla missione universale di portare il messaggio del Vangelo ai popoli di ogni cultura e nazione. Questo impegno non è solo una scelta personale, ma anche un dono alla Chiesa, che si arricchisce della testimonianza di uomini e donne pronti a vivere per gli altri, specialmente per gli ultimi e i più bisognosi.

Il diaconato: una vita di servizio

Il giorno seguente, l’ordinazione diaconale segnerà un ulteriore passo nel loro cammino vocazionale. Il diaconato, infatti, è un ministero di servizio che richiama profondamente la missione stessa di Cristo, che "non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45). Come diaconi, i sei missionari saranno chiamati a proclamare il Vangelo, assistere il popolo di Dio nei sacramenti e testimoniare la carità cristiana attraverso un servizio concreto alle comunità che saranno loro affidate.

Questo ministero, seppur transitorio prima dell’ordinazione sacerdotale, è un momento fondamentale per comprendere e vivere il cuore della missione. I diaconi sono chiamati a essere segni visibili di Cristo servo, impegnati nel servizio alla Parola, all’altare e alla carità.

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Una chiamata universale alla missione

La provenienza internazionale dei giovani missionari – dal Kenya, Uganda e Colombia – sottolinea la natura universale della vocazione missionaria. I Missionari della Consolata, seguendo l’eredità di San Giuseppe Allamano, loro Fondatore, si dedicano all’annuncio del Vangelo nelle periferie del mondo, superando confini culturali, geografici e linguistici. La loro testimonianza di vita è un richiamo alla bellezza di una Chiesa missionaria, chiamata a essere segno di speranza per l’umanità.

Questi momenti di grazia ci ricordano l’importanza della preghiera e del sostegno della comunità cristiana. La Chiesa si unisce in gioia per celebrare questi passi fondamentali nel cammino vocazionale di questi giovani. Possano il loro sì essere luce per il mondo e strumento di pace e amore, secondo la missione che Cristo stesso ci ha affidato.

* Fratel Adolphe Mulengezi, IMC, studia Comunicazioni Sociali a Roma.

Sono passati 60 anni dalla fondazione della diocesi di Marsabit avvenuta il 25 novembre del 1964, sotto la guida del vescovo Mons. Carlo Cavallera, missionario della Consolata.

Per questa occasione giubilare la chiesa di Marsabit insieme a tanti amici, venuti da vicino e da lontano, in una giornata piovosa (segno di benedizione), il 23 novembre 2024, si è radunata attorno al suo pastore, il vescovo Mons. Peter Kihara per ringraziare a Dio per le grandi cose che il Signore ha fatto e continua a fare nella storia di questa chiesa e in questo angolo del nord Kenya detto anche the Northern Frontier District.

La liturgia ben curata e animata con canti, balli e danze fatte da piccoli e grandi, si è svolta nel piazzale della Cattedrale sotto un grande tendone montato per l’occasione. La partecipazione attiva di tutti ha reso la ceremonia tutta particolare.

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Mons. Antony Muheria, arcivescovo di Nyeri, ha presieduto la concelebrazione insieme a Mons. Peter Kihara vescovo di Marsabit, Mons. Peter Makau vescovo di Isiolo, Mons. Antony Ireri Mukobo vescovo emerito di Isiolo, Mons. Hieronymus Joya, vescovo di Maralal, Mons. Norman King’oo, vescovo di Machakos, Mons. Virgilio Pante, vescovo emerito di Maralal ed il vescovo emerito di Nyeri, Mons. Peter J. Kairo.

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Alla celebrazione hanno partecipato anche l'intera Direzione Generale dei Missionari della Consolata che si trova nel Kenya per il Consiglio di novembre, la Direzione Regionale IMC del Kenya-Uganda e circa 70 sacerdoti, diverse religiose e religiosi.

Pur celebrando 60 anni di fondazione della diocesi, va ricordato che in questo territorio, i semi del Vangelo e la presenza del cristianesimo risalgono ad anni più lontani, perché già nel 1914, quando i missionari cattolici arrivavano a Moyale, vi trovarono una cappella dei protestanti evangelici ed in seguito anche la presenza della Chiesa cattolica.

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Mons. Peter Kihara il terzo vescovo alla guida della chiesa di Marsabit.

“Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (Sal 116, 12-13). “Rendiamo grazie al Signore per le cose grandi che Lui ha fatto per noi”, ha sottolineato nel suo discorso Mons. Peter Kihara il terzo Pastore alla guida della chiesa di Marsabit, da ormai diciotto anni. “È un momento di gioia e di gratitudine al Signore, del grazie ai giganti nello Spirito: i missionari e missionarie di varie congregazioni e Fidei Donum, i catechisti, i benefattori e laici impegnati a vivere la loro fede”.

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I frutti che oggi si vedono e raccolgono vengono dai sacrifici, dalla dedizione e zelo missionario di tantissime persone. Tra tutti questi, vanno ricordati in particolare, i laici Paolo Valle che la provvidenza aveva mandato a Marsabit (nel 1948) ed Elias M’Ategi. Essi sono “considerati i fondatori provvidenziali della Chiesa cattolica” a Marsabit. Erano i responsabili della preghiera e della catechesi nell’unica cappella di Marsabit. In seguito, arrivarono anche i missionari Carlo Andrione, Paolo Tablino e Bartolomeo Venturino.

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Marsabit come diocesi, nasce nel 25 novembre del 1964, staccandosi dalla diocesi di Nyeri. Mons. Carlo Cavallera, che era vescovo di Nyeri, assunse la nuova diocesi portando con sé alcuni missionari della Consolata.

Il Concilio Vaticano II ha avuto un ruolo determinante per la fioritura di questa diocesi, perché con l’Enciclica di Papa Pio XII, Fidei Donum, diverse chiese iniziarono ad inviare i loro missionari in queste zone. A Marsabit iniziarono ad arrivare i sacerdoti della diocesi di Alba (Italia), della diocesi di Augsburg in Germania, della diocesi di Murang’a in Kenya e dalle diocesi di Iasi e arcidiocesi di Bucarest tutti due in Romania. Questa presenza è stata anche arricchita da altri missionari, oltre a quelli della Consolata, che hanno dato forza nel lavoro di prima evangelizzazione, sono missionari Comboniani, Benedettini, Salesiani. In seguito, sono arrivate anche altre congregazioni. Il primo sacerdote diocesano è stato ordinato nel 1993. Attualmente ci sono 18 sacerdoti e 3 suore del posto.

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La diocesi di Marsabit è composta di 14 gruppi ed etnie differenti. Le più grandi sono quelle dei Turkana, dei Samburu, dei Rendile e dei Gabbra. Conta con 50.000 battezzati, 18 sacerdoti diocesani, 12 missionari Fidei Donum, 13 missionari di Istituti religiosi, 44 consacrate e 3 fratelli, tutti impegnati nelle 17 parrocchie e un’altra ancora che sarà aperta prossimamente. Sono poche parrocchie, ma molto lontane l’una dall’altra. Quella più lontana dista circa 400 km dalla sede vescovile, con strade deserte e sovente difficili da percorrere. Nonostante tutto però, la diocesi non si stanca mai di essere una presenza luminosa, dando vita e speranza, servendo la gente negli ambiti della educazione, della salute, della promozione umana e con precorsi di pace.

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Nell’occasione, la diocesi ha anche inaugurato e benedetto la nuova struttura del Segretariato diocesano e la residenza vescovile, un passo importante nello sviluppo della chiesa locale. Nell'ambito della celebrazione di questo anniversario giubilare, la chiesa locale sarà arricchita da quattro ordinazioni sacerdotali che avranno luogo nei prossimi giorni.

In questi 60 anni di storia, la diocesi è stata guidata da tre pastori, tutti missionari della Consolata. Il primo è stato vescovo Carlo Maria Cavallera (1964 - 1981), il vescovo Ambrose Ravassi (1981 - 2007) e l’attuale vescovo Peter Kihara.

* Padre Godfrey Msumange, IMC, missionario in Inghilterra.

Alcone foto della celebrazione (Foto: Martin Ndumia)

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 La presenza della Direzione Generale IMC

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La inaugurazione della nuova struttura del Segretariato diocesano e la residenza vescovile

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In occasione della Commemorazione dei nostri missionari e delle missionarie defunti, il 15 novembre 2024, la comunità della Casa Generalizia a Roma ha celebrato l’Eucaristia presieduta da padre Antonio Rovelli. All’inizio della S. Messa sono stati proclamati i nomi dei confratelli e delle consorelle scomparsi nell’anno scorso a cui abbiamo aggiunto padre Giuseppe Demarie, morto ieri sera e ricordato Laura, la mamma del nostro Card. Giorgio Marengo.

Pubblichiamo l’omelia tenuta da padre Antonio Rovelli nella messa.

La comunità sarà sempre formata dai vivi e dai defunti, né questo vincolo si scioglierà più, neppure in paradiso” (Così Vi Voglio n.84).

“Il ricordo dei nostri defunti deve diventare memoria viva della santità di tanti confratelli che hanno segnato la storia dell’Istituto, spendendo la vita per la gente, a volte fino al martirio, nei diversi contesti di missione, seguendo l’esempio, gli insegnamenti e le raccomandazioni del “Santo Rettore” della Consolata. Allora, facciamo memoria dell’esempio della “santità missionaria” dei nostri confratelli, affinché ci stimoli a portare avanti, con la stessa dedizione e zelo, il servizio alla missione.  Anche se non ci sono più, la luce della loro santità resta in noi e deve continuare ad illuminare i nostri passi”.

Così il Padre Generale ha motivato il suo Messaggio all’Istituto in occasione dell’annuale commemorazione dei nostri fratelli e sorelle defunti.

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Mi domando

Come far in modo che il ricordo dei nostri confratelli diventi “memoria viva” della loro “santità missionaria” in modo tale che la luce della loro santità continui ad illuminare i nostri passi nel servizio alla missione?

Fare memoria

Vedo volti, leggo dei nomi con delle date, ma non mi dicono niente, non li ho mai incontrati, mai conosciuti, tutto finisce con il 15 novembre… aggiungo l’album di foto di quest’anno a quelli degli anni scorsi, tutti in un contenitore dove alloggiano altri ricordi di un passato che non c’è, che non mi tocca. È la memoria-baule, la memoria-soffitta, dove il passato si è depositato, non è più tra noi, è diventato nulla, si è dissolto, può esistere solo nell’immaginario del ricordo. Ancor di più oggi dove gli album fotografici sono sostituiti dai Dropbox, oppure i blogs e i clouds nella liquidità delle infosfere.

Invece, la memoria è viva quando i volti, con i loro sorrisi, i loro sguardi iniziano a parlare, le date sono tracce che aprono cammini nella storia di una famiglia numerosa. Mi sento interpellato, coinvolto.

Qui c’è del paradossale perché questo ricordo, questa memoria diventa un attributo del futuro. Nel senso che mi fanno guardare avanti. I ricordi si certo mi riportano indietro, ma diventano stimolo a continuare dove hanno lasciato, una eredità preziosa, ma impegnativa, da trasmettere. L’invito a far si che la memoria diventi “viva” è che non deve ridursi a essere il culto passivo del passato, non deve generare solo venerazione. La memoria diventa “viva” se impariamo ad usarla per creare attivamente il nostro avvenire.

Il che significa farsi responsabili della memoria. La memoria non si riduce ad essere una “cartella”, un “file” contenitore di ricordi, ma si costituisce solo a partire dal futuro.

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L’esempio dei nostri confratelli o consorelle non è alle nostre spalle come un “vano ricordo”, ma può assumere forme e significati diversi a partire da come viene ripreso attivamente dalla vita dell’Istituto, dai cammini della missione mentre essa si sta muovendo verso il proprio avvenire.

Ritorniamo alla domanda iniziale

Come ricordare questi missionari e missionarie con responsabilità? Come quest’anno la memoria diventa attributo del futuro?

Impariamo dalla storia de popolo di Israele

Israele ha sempre costruito il proprio futuro guardando al passato e nella sua storia ha sempre trovato nuovi spunti e nuovo slancio per andare avanti. Qualcuno ha paragonato questo popolo ai rematori che avanzano volgendo le spalle alla meta, si orientano puntando gli occhi sul punto di partenza e sul percorso già fatto. Israele ha superato momenti drammatici, è rimasto sempre popolo anche quando era deportato e disperso fra

La raccomandazione: «Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno» (Dt 32,7) ha un altro obiettivo, vuole che il ricordo aiuti a capire il presente e stimoli a guardare con lucidità al futuro.

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Così dovrebbe essere anche per noi. Cioè, ricordarli, farne memoria significa lasciarsi interpellare dal loro esempio, passioni, dedizione e scelte concrete da loro attuate, convinti che i loro cammini sono anche i nostri, le loro scelte, le nostre.

Proviamo a rendere “viva” la memoria di alcuni dei nostri confratelli e della preziosa eredità che ci hanno lasciato e pensare insieme come tale memoria ci esorta a tracciare cammini nel futuro.

Un dono per me aver conosciuto tanti di loro, in occasioni e con una diversa intensità. Scorro lentamente questo puzzle di santità, lascio che i loro volti mi riportino tra la gente dove hanno vissuto, agli incontri e ai dialoghi avuti … atteggiamenti e scelte caratterizzanti la loro vita: quanti doni per me.

- La preparazione, la professionalità, il lavoro e l’insegnamento nelle università (elevazione dell’ambiente).
- La conoscenza delle lingue locali, conoscenze e studi anche accademici sulle tradizioni e culture dei popoli.
- Le frontiere, la scelta degli ultimi, dei profughi, della foresta, dei popoli oppressi.
- Diventare strumenti per ridare dignità e liberazione di popoli e di intere nazioni.
- Il dialogo interreligioso.

Saper fare di tutto, il cavarsela:
- La passione, lo zelo che traspare dalla convinzione nel parlare e radicalità di vita.
- Apertura al rischio di nuovi cammini.
- La dedizione, la passione per la gente unita ad una profonda vita di preghiera (non solo santità “per” la missione, ma “nella” missione).
- La gentilezza, affabilità, il tatto nel rapporto con le persone.
- La cura, la custodia, farsi carico e l’accompagnamento delle persone, soprattutto dei formandi.
- La fedeltà fino all’ultimo ….

La loro vita deve diventare memoria viva

20241115Defunti6Per me e per tutti noi, guardando a loro, alla loro vita, “se vogliamo stare uniti a loro, sempre” come ci invita il Santo Fondatore, non dobbiamo relegare il ricordo, “al passato” gettarlo alle spalle, ma in me, in noi deve diventare memoria viva, cioè “impegnativa”, forse anche “fastidiosa” (scandalosa) perché ci richiama la frontiera, l’oltre della missione, ci provoca a scuoterci di dosso l’apatia, l’inerzia … la miopia di orizzonti limitati, dal chiuderci in noi stessi, dal vivere di rendita, peggio ancora dal si è sempre fatto così … Una memoria che mi fa sentire parte di una storia ancora aperta grazie a Dio …perché da continuare. E chi se non noi, ma voi soprattutto più giovani …

Perché ciò che mi hanno insegnato, questi atteggiamenti, queste scelte concrete indicano il dove, il con chi e il come essere missionari il come diventare “semi di santità” che sono stati piantati nei vari contesti di missione, hanno prodotto frutti di consolazione e che noi siamo chiamati a continuare.

“Santità” perché in tanti di loro ho visto amore grande per l’Istituto, sofferenza e lotta per renderlo di verso, santità di una vita di preghiera profonda, radicata nella Parola di Dio al seguito dell’unico Maestro, Gesù il missionario del Padre.

La vita stessa dei nostri missionari è stata un riferimento per tanti popoli, per intere Diocesi e Nazioni, stimolo per risollevare il capo per prendere in mano il proprio destino

Pagine di storia dell’Istituto scritte: in Colombia, Venezuela, Costa D’Avorio, nel Marsabit, in Mozambico, con i popoli della foresta amazzonica, nella formazione in Kenya, Mozambico e Torino …e Argentina…

A noi spetta adesso continuare a scrivere altre pagine di storia dell’Istituto, spendendo la vita per la gente, nei diversi contesti di missione, sempre e comunque seguendo l’esempio, gli insegnamenti e le raccomandazioni del “Santo Fondatore”.

Per l’Allamano, ci si santifica evangelizzando e si evangelizza santificandoci” (XIV CG 28). Citato anche dal Padre Generale nel suo Messaggio.

Allora, facciamo memoria dell’esempio di questa “santità missionaria” dei nostri confratelli, affinché ci stimoli a portare avanti, con la stessa dedizione e zelo, il servizio alla missione. Anche se non ci sono più, la luce della loro santità resta in noi e deve continuare ad illuminare i nostri passi.

Guardarli in faccia, ci interpellano, ora tocca a te. Io ho fatto la mia parte.

* Padre Antonio Rovelli, IMC, membro dell’Equipe per la formazione, Roma.

Questa figura è presente nella mente del Fondatore fin dalla fase di progettazione dell'Istituto. Nel primo documento che redige per la presentazione del suo progetto alla Santa Sede, afferma di aver sviluppato il suo progetto in contatto con sacerdoti e seminaristi, ma aggiunge, a margine: “non mancheranno i laici” (Lettera a C. Mancini, 6 aprile 1891).

Sappiamo che nella Chiesa cattolica esistono Sacerdoti diocesani che prestano il loro servizio in una Chiesa particolare che può essere un'Arcidiocesi, una Diocesi o un Vicariato Apostolico. Vivono nel celibato e promettono obbedienza al loro Vescovo. Ci sono poi i sacerdoti religiosi, consacrati con i voti di povertà, castità e obbedienza, appartenenti a Ordini, Congregazioni o Istituti di vita consacrata, tutti chiamati alla vita comunitaria. Alcune di queste istituzioni sono composte da sacerdoti ma ancheda laici o fratelli. La Vita Consacrata o Vita Religiosa esiste nella sua versione maschile e femminile, con carismi e ministeri diversi. 

L'Istituto Missioni Consolata, secondo la volontà del Fondatore Giuseppe Allamano, è composto da sacerdoti e fratelli coadiutori (laici consacrati) per la missione ad gentes e vive in spirito di famiglia (XI Capitolo Generale 59).

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Fratello Fortunato Rosin. Foto: Archivio IMC Colombia

Chi è il religioso o la religiosa nella Chiesa cattolica?

Il Concilio Vaticano II nella “Perfectae catitatis”, il documento che scrive sul rinnovamento della vira religiosa (n. 10) li presenta così: “La vita religiosa laicale, tanto maschile quanto femminile, costituisce uno stato in sé completo di professione dei consigli evangelici. Perciò il sacro Concilio, che ha grande stima di esso poiché tanta utilità arreca all'attività pastorale della Chiesa nell'educazione della gioventù, nell'assistenza agli infermi e in altri ministeri, conferma i membri di tale forma di vita religiosa nella loro vocazione e li esorta ad adattare la loro vita alle odierne esigenze”. La vita religiosa laicale è quindi completa in se stessa. Non deve essere definita per ciò che le manca (non essere sacerdoti), ma per ciò che è. Da parte sua, Giovanni Paolo II ha affermato: “Sono convinto che questo tipo di vita religiosa che, nel corso della storia, ha reso così grandi servizi alla Chiesa, rimane oggi uno dei più adatti alle nuove sfide apostoliche dell'annuncio del messaggio evangelico”.

Il Fratello nell'Istituto Missioni Consolata 

20241014Fratelli2Questa figura era presente nella mente del Fondatore fin dal principio. Nel primo documento redatto per la presentazione del suo progetto alla Santa Sede afferma di averlo sviluppato in contatto con sacerdoti e seminaristi ma –aggiunge, a margine– “non mancheranno i laici” (Lettera a C. Mancini, 6 aprile 1891). Infatti, nella bozza di Regolamento dello stesso anno, sacerdoti e laici sono considerati “desiderosi di dedicarsi alle missioni”, “di consacrarsi all'evangelizzazione degli infedeli”.

Quando Giuseppe Allamano parla di comunione e comunità, le pensa sempre nel contesto dello “spirito di famiglia”. I suoi studiosi dicono che non si tratta di una semplice “strategia” per affrontare la vita, ma di una motivazione che l’ha portato a pensare di fondare l'Istituto. Questo lo pensava e proponeva, come una famiglia e non come un seminario o un collegio e in una famiglia non è possibile dire che ci siano membri di prima classe (i genitori) e membri di seconda classe (i fratelli). In una famiglia si intrecciano relazioni di uguaglianza e fraternità, tutti con la missione ad gentes nella testa, nel cuore, nelle mani e nei piedi. Ognuno svolge il proprio ruolo o ministero e tutti in “unità di intenti”.

(Foto: Fratelli Vincenzo Clerici, Carlo Zacquini, Adolphe Mulenguzi e Domenico Brusa)

I Fratelli sono parte costitutiva della Famiglia dei Missionari della Consolata e non solo, sono anche i più cari al Fondatore. Lo dimostrano espressioni come la seguente: “Che una sorella mi scriva dall'Africa mi fa piacere; che un padre mi scriva, altrettanto; ma che lo faccia un fratello coadiutore mi rallegra ancora di più”. Ciò non significa che siamo esenti dal ripensare e ricreare il ruolo, la figura e la presenza dei Fratelli nella missione dell’Istituto con maggior ragione oggi che viviamo un tempo di protagonismo laico e di messa in discussione del clericalismo esacerbato.

Formazione dei primi gruppi di missionari inviati dal Fondatore

Il primo gruppo, inviato il 5/8/1901 era composto dai padri Tomaso Gays e Filippo Perlo e dai fratelli Celeste Lusso e Gabriele Perlo. Il secondo –inviato il 15/12/1902– era composto da p. Borda Bossana, il seminarista G. Cravero e fratel Andrea Anselmetti. Il terzo inviato il 24/4/1903 era composto da 8 suore, 4 sacerdoti, 1 seminarista e da fratel Benedetto Falda. Nel quarto invio (il 24/12/1903) c’erano 12 religiose, 3 sacerdoti e i fratelli Anselmo Jeantet e Agostino Negro e finalmente nel quinto (il 27/11/1905) c’erano 6 suore, 2 sacerdoti e fratel Aquilino Caneparo.

Senza grande sforzo possiamo dedurre, dalla formazione dei primi gruppi missionari, composti da uomini e donne, sacerdoti e religiosi laici, la comprensione di una missione interdisciplinare e integrale, avviata su due binari, come il treno: l'annuncio esplicito del Vangelo oltre alla promozione umana e dell’ambiente. A questo scopo i missionari vengono formati e preparati, all'inizio con evidente fretta, sperando che la missione stessa continui a formarli, nell'esperienza comunitaria che li tempra nella loro personalità, nella pratica religiosa-spirituale che li conduce sulla via della santità, negli studi accademici e nella formazione tecnico-pratica che li facilita ad agire con saggezza, conoscenza e creatività pratica per il lavoro con la gente del luogo dove il Dio della missione li dirige.

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Incontro dei Fratelli dell'IMC, Miguel Angel Millán, Laureano Galindo, Fortunato Rosin e Antonio Martín. Bogotà, 1983. Foto: Archivio IMC Colombia

Conclusione

L'ultimo Capitolo Generale (XIV) ha dedicato brevi paragrafi ai Fratelli e, al numero 529, ha dato mandato che “nei prossimi sei anni, la Direzione Generale organizzi un ‘Anno dei Fratelli imc’ invitando tutto l'Istituto a pregare e a riflettere sulla vocazione alla fraternità nella comunità dei Missionari della Consolata. Sarà un'opportunità per integrare più chiaramente la vocazione di Fratello nelle attività di animazione missionaria.

Si apre quindi un tempo di riflessione e di ricreazione. La presenza di giovani missionari laici nell'animazione missionaria giovanile e vocazionale della nostra Regione Colombia e dei Missionari Laici della Consolata diviene molto significativa, provocatoria e opportuna, nel momento in cui la figura del Fratello, come la conosciamo tradizionalmente, tende a scomparire.

* Padre Salvador Medina, IMC, Equipe di promozione della missione in Colombia. Articolo pubblicato originariamente sulla rivista Dimensión Misionera (qui per vedere)

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