Per noi Missionari e Missionarie della Consolata la celebrazione [in questo santuario della Consolata ricordando il centenario della morte di Giacomo Camisassa, fedele collaboratore del Beato Allamano] è una celebrazione speciale e diventa doppiamente speciale perché ricordiamo un grande che insieme all’Allamano, un altro grande, ha sognato, realizzato e costruito due istituti missionari.
I nostri missionari e le nostre missionarie della Mongolia ci hanno insegnato a dire che la missione in Asia, ma non solo lí, possiamo farla solo in punta di piedi. La missione non ha bisogno di pompe, applausi, protagonismi ma si fa nell’unità quotidiana cercando di costruire il vangelo pezzo per pezzo con le persone che il Signore mette sul nostro cammino.
La prima volta che sono andato in Mongolia, a visitare i nostri confratelli e le nostre consorelle, eravamo con Giorgio nel cuore della Mongolia nella prima parrocchia lontana dalla capitale. La domenica abbiamo celebrato la messa con quindici cristiani e qualche curioso che ci sbirciava da fuori e poi dopo ci siamo incontrati con questi cristiani e abbiamo preso qualcosa assieme.
Quello che mi ha segnato per anni e lo porto ancora nel cuore, è che mi sono seduto vicino a un giovane di approssimativamente diciott’anni che vedevo veramente contento, sprizzava gioia da tutte le parti. Con l’aiuto di un missionario che mi ha tradotto mi sono sentito di chiedergli
– Ma perché sei così contento?
La risposta che lui ha dato è stata la più bella che si possa dare e fino ad ora non ne ho trovate altre
– Io voglio essere cristiano perché essere cristiano mi da la gioia di vivere.
C’è tutto; questo giovane ragazzo ha capito tutto! Essere cristiani in mezzo a tutti gli altri che non lo sono, appartenendo a un piccolo gruppo come sono i cristiani della Mongolia, e manifestare la gioia che si vive incontrando a Cristo, per me è la cosa più bella.
Questo ha caratterizzato i nostri grandi: Allamano e Camisassa ed è per quello che dopo cent’anni oggi ricordiamo ancora il Camisassa. Sono delle persone che hanno fondato la loro vita si Gesù Cristo; hanno cercato solo di vivere il vangelo e di fare la volontà di Dio. La volontà di Dio li ha portati a stare 42 anni in questo santuario in amicizia, in compagnia e in collaborazione stretta e insieme hanno realizzato questo grande sogno: la creazione dei due grandi Istituti Missionari della Consolata.
Il Camisassa era un uomo di grande intelligenza e non era solo l’uomo concreto che sapeva fare i lavori manuali e materiali. Era un uomo di visione, il primo nella teologia, esperto in diritto canonico e civile, un’autorità riconosciuta nella Torino di quel tempo... eppure era di una umiltà tale che quando parlavi con lui diceva “guardate l’Allamano, è lui il maestro, io accompagno soltanto” e quando andavi dall’Allamano lui diceva “andate dal Camisassa”... i due giocavano a ping-pong non in una falsa umiltà ma nella vera umiltà di chi capisce che senza l’altro non fa niente; che ha bisogno dell’altro per costruire qualcosa che valga la pena. Non per essere protagonista ma per costruire sempre nel nome del Signore.
Ci sono della frasi che noi missionari e missionarie conosciamo ma permettetemi di recuperarle perché sono troppo belle. Dice l’Allamano: “tutte le sere passavano in questo mio studio (nel santuario) diverse ore, qui è nato il progetto dell’Istituto, qui si parlava di andare in Africa, insomma, tutto si combinava qui. Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa non avrei fatto quello che ho fatto”. Questa era una amicizia profonda fondata sulla sincerità, oggi che è così difficile essere sinceri.
L’Allamano diceva: “ci siamo promessi di dirci sempre tutto in verità” e questo ha fatto si che la loro amicizia durasse nel tempo, per ben 42 anni. Quello che noi abbiamo cominciato a chiamare, usando termini un po’ più abbelliti , “promozione fraterna” loro l’hanno sempre fatta senza chiamarla in quel modo e ci hanno insegnato che solo aiutandoci a vicenda si può costruire qualcosa di valido.
Gesù Cristo è il fondamento ma dietro il loro comune impegno c’era anche una umanità vera, non fittizia o fatta di immagine, e che porta a dirsi le cose in verità, per costruire e camminare insieme, per vivere in Comunione. Sono tutti valori che il Papa Francesco e la chiesa attuale ci sta proponendo in questo cammino di sinodalità, dove ognuno è chiamato ad essere protagonista là dove ognuno sta. È una chiesa nuova che ha il vangelo al centro e dove Gesù Cristo è quello che conta, non tutto il resto.
Celebrare per noi il centenario della morte del Camisassa è prima di tutto un momento di grande commozione e fraternità perché ci aiuta a recuperare l’amicizia, la correzione, il camminare insieme, la comunione ma poi è anche un momento di revisione per vedere come i nostri Istituti stanno tentando di portare avanti gli orientamenti, il progetto e i sogni che l’Allamano e il Camisassa, in questo santuario, hanno covato nel loro cuore dialogando e pregando insieme.
I nostri istituti sono ancora fedeli a quest’opera originaria? Anche se facciamo fatica da qualche parte io risponderei a questa domanda con un sí. Con semplicità e con umiltà dobbiamo dire che stiamo camminando anche se il tempo magari ti logora un pochino. Con verità possiamo dire che Il Signore continua a benedire questi Istituti perché siamo fondati e formati da dei grandi che ricordiamo in questo santuario.
Il mondo è fondato su pilastri e questi pilastri sono i santi, le persone buone, le persone vere che nella vita di ogni giorno costruiscono la storia. Noi ricordiamo l’Allamano, il Camisassa e tanti fratelli e sorelle che sono morti dando la vita per la missione.
Che bello che in questa eucaristia inviamo a Suor Francesca in Mongolia. Gesù ci ha voluti missionari; l’Allamano e il Camisassa sono stati missionari; noi continuiamo a inviare missionari: questa missione è una missione vera, autentica, di Istituto, di comunione. Le difficoltà non mancheranno perché fanno parte della vita, ma quello che conta è l’amore al Signore e quell’autenticità di vita che abbiamo imparato dai nostri grandi.
Continuiamo ad ascoltare le parole dell’Allamano sul Camisassa: “Se abbiamo fatto qualcosa di buono è appunto perché eravamo tanto diversi. Se fossimo stati uguali non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli di più”. Noi parliamo tanto di interculturalità e diversità, ma che fatica che facciamo spesso per accettarla, questi già allora la vivevano.
Poi ancora: “Tocca a me fare i suoi elogi: era sempre intento a sacrificarsi pur di risparmiare me; aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà. Egli viveva per voi e per le missioni”. Oggi, quando tutti vogliono apparire, vediamo che nascondendosi, come fece il Camisassa, si continua a vivere per cent’anni nella storia di un Istituto.
L’Allamano, dando l’annuncio della morte del Camisassa, dice una cosa importante che può anche aiutarci nella nostra vita: “fino all’ultima ora, pur essendo ammalato, il Camisassa continuava a pensare, a pregare e a parlare degli Istituti”. Il suo amore è tutto descritto in questi tre verbi.
Oggi questi Istituti che loro due hanno pensato e sognato insieme esistono ancora e mandano ancora delle persone. Che bella questa continuità, che bella questa catena d’amore che va avanti, perché la storia non la fanno i grandi e i potenti, non la fanno neanche i cattivi anche se poi subiamo le conseguenze delle loro azioni, ma la fanno i buoni, quelli che rimangono per l’eternità perché il loro ricordo rimane per sempre.
*Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata. Testo dell'omelia tenuta nel Santuario della Consolata in occasione della celebrazione del centenario della morte del canonico Camisassa.
"Ve l’ho detto e ve lo ripeto: io non mi attendo che questa sia la casa dei miracoli, piuttosto voglio che facciate il miracolo di adempire sempre bene il vostro dovere, vincendo voi stessi. Di miserie ne abbiamo tutti un sacchetto se non un sacco” (G. Allamano, VS 359)
Ogni volta che c'è un cambio di governo, tanto nel paese, come è accaduto in Colombia lo scorso 19 giugno, come nell’Istituto con l'elezione della nuova Direzione Regionale, si generano aspettative, incertezze, timori e speranze.
Il fatto che per la prima volta nel nostro Paese sia stato eletto un candidato che rappresenta una corrente politica di sinistra è davvero una novità e un evento storico. Indubbiamente il presidente Gustavo Petro e la vicepresidente Francia Márquez rappresentano un cambiamento nel modo in cui questa nazione è stata governata da partiti politici tradizionali per la maggior parte della sua esistenza repubblicana. Almeno questo è ciò che loro stessi hanno proclamato in tutta la campagna presidenziale. Sebbene alcuni settori della società abbiano espresso molti timori sul fatto che questo nuovo governo genererà abusi e persecuzioni nei confronti di certe persone e gruppi economici, la società colombiana in generale non smette di sperare che i cambiamenti previsti saranno per il bene della maggioranza. Anche se vari stanno già prevedendo che si tratta di un sogno idilliaco e che tra pochi mesi si tornerà agli affari di sempre, noi in ogni caso non perdiamo la speranza: come qualcuno ha detto: “Se Petro fa bene, facciamo bene tutti”.
Anche nel nostro Istituto c'è stato anche un cambiamento nella Direzione Regionale. Non è un caso che ciò avvenga in un momento in cui la Chiesa è chiamata a un cammino sinodale, che vuole essere soprattutto un cammino di conversione, fatto con l'impegno di tutti e bisognoso di molta pazienza perché si tratta di “camminare insieme” per testimoniare il Regno.
Il servizio affidato alla nuova Direzione Regionale è proprio quello di promuovere e prendere la guida del cammino che facciamo come Regione, offrendo a ciascuno la possibilità di esprimere la propria opinione e di sentirsi protagonista nel compito che svolgiamo di annunciare il Regno con l'impronta del nostro carisma di consolazione. È vero, non mancano paure, dubbi, incertezze ma non può mancare la speranza che, come Regione, continueremo a crescere nella nostra identità e nel nostro lavoro di Missionari della Consolata.
Sappiamo che abbiamo molte sfide e cose da fare davanti a noi, e forse questa è l'occasione per confidare ancora di più nella Grazia e nella Provvidenza Divina, nei doni e nelle potenzialità che il Signore ha messo in ognuno di noi e nell'Istituto per continuare a rispondere alla vocazione "ad gentes" a cui siamo stati chiamati. Non saremo probabilmente in grado di fare grandi cambi o inedite proposte di trasformazione, ma siamo anche certi che, come dice il nostro Beato Fondatore, “abbiamo molte miserie, ma dalle miserie si possono fare miracoli”.
* Juan Pablo de los Rios è Superiore Regionale in Colombia
Domenica scorsa è Rodrigo ad essere festeggiato, la sua storia triste si conclude riconoscendo che il Signore non lascia mai soli i suoi figli. Rodrigo è un giovane Camerunese di 35 anni sposato con due figli, fa l’elettricista. Vuole far studiare i suoi figli ma con il ricavato del suo lavoro non riesce, allora pensa di andare all’estero in Spagna o in Francia per guadagnare di più. Fa la domanda per avere il passaporto ma dopo mesi e anni il passaporto non arriva, ed ecco la decisione di mettersi in viaggio e attraversare il deserto della Nigeria,del Niger e dell’Algeria per arrivare in Marocco e di qui espatriare. Due mesi terribili trascorsi tra Nigeria e Niger. Mi racconta come la gente in questi paesi è poverissima e quando arrivano i migranti, che sono molti a passare i loro confini, li derubano di tutto. Anche lui è stato derubato dei pochi soldi rimasti e del cellulare.Arrivato in Algeria, per poter continuare il viaggio deve lavorare mi dice che qui ci sono delle piazzette dove vanno i migranti e chi ha bisogno di lavoratori va e li prende, (Proprio come nella parabola del Vangelo). Per otto mesi lavora e mette assieme il denaro per ripartire verso il Marocco. E’ inverno e con altri 18 compagni attraversono il confine passando per la montagna: neve, freddo senza mangiare 5 giorni veramente terribili e mentre li ricorda gli occhi si chiudono per non far vedere le lacrime.
Ed ecco la tragedia. I diciotto arrivano a 20 Km. da Oujda salgono su due macchine Taxi, nella sua erano in dieci, l’autista, forse ubriaco, va fortissimo e in una curva la macchia sbanda e si capovolge, lo portano all’ospedale lo operano spina dorsale schiacciata, il chirurgo gli da pochi giorni di vita. Il nostro medico lo vede e lo porta da noi e con pazienza e amore e cure(vi tralascio il racconto del calvario dei primi due mesi immobilizzato a letto) Dopo due anni è pronto, anche se in carrozzella ( gliel’ho comprata nuova), per rientrare a casa ad abbracciare la moglie e i suoi due figli.
Ringraziamo assieme il Signore che non abbandona mai nessuno, nello zaino, il giorno dell'incidente, aveva un pezzo di pane e una bibbia. Ringraziamo anche chi, con amore fraterno, si è preso cura di lui per ben due anni.
* Francesco Giuliani è missionario in Marocco
Ed è proprio così! perché qui si usa il calendario amarico. Sto parlando dell’Etiopia dove i Missionari della Consolata giunsero per la prima volta nell’anno 1913, per continuare il lavoro apostolico del missionario cappuccino il Cardinale Massaia per il quale il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, nutriva una profonda simpatia.
Il lavoro che i missionari hanno fatto nell’arco di questo tempo è stato davvero grande: soprattutto nei territori missionari del Kaffa e Meki oltre che nella capitale Addis Ababa. Oggi siamo ad Addis Abeba e nelle missioni di Gambo, Weragu, Modjo, Minne e Shambu.
Una prima cosa per la quale vale la pena ringraziare Dio è che oggi possiamo contare con ventinove figli di questa terra che hanno consacrato la loro vita alla missione come Missionari della Consolata. Anche in questo modo questa chiesa contribuisce all’apostolato missionario.
La nostra visita è stata breve ma intensa e significativa: ci siamo fermati in Etiopia, con il padre Stefano Camerlengo, Superiore Generale, di ritorno dalla visita canonica in Madagascar.
Al nostro arrivo abbiamo anche potuto condividere il momento difficile che missionari presenti nel paese stava vivendo: la notte del 7 luglio, nella missione di Shambu, il padre Johannes Michael Haro è stato sequestrato dai ribelli e portato nella zona boschiva della regione; per fortuna il sequestro è durato solo un'ora e poi il padre è stato rilasciato.
Per sicurezza il giorno seguente il padre insieme con due missionarie della Consolata, Bachew e Edilisia, si sono allontanati dalla missione e attualmente si trovano ad Addis Ababa. Tutto questo è conseguenza della guerra interna che da mesi sta vivendo il paese.
Abbiamo avuto modo di visitare le missioni di Gambo, dove accompagniamo un lebbrosario e le attività di una parrocchia, e di Modjo, dove funziona un’altra parrocchia e anche un centro di spiritualità, formazione e animazione missionaria.
Poi è stata la volta della visita resa alle autorità ecclesiastiche: Mons. Antoine Camilleri, nunzio in Etiopia e Gibuti, rappresentante speciale del Pontefice presso l’Unione Africana e delegato apostolico in Somalia; sua eminenza Berhaneyesus Demerew Souraphiel, cardinale e arcieparca di Addis Abeba; Mons Varghese Thottamkara, Vicariato Apostolico di Nekemte dove si trova la missione di Shambu e il vicario generale del vicariato di Meki.
* Godfrey Msumange è Consigliere Generale per il continente africano